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Sono stati gli Oscar del “non è mai troppo tardi”

Le statuette a Michelle Yeoh, Brendan Fraser e soprattutto quella a Ke Huy Quan raccontano di seconde vite, di rinascite e di ascese dalla serie b del cinema alla storia di Hollywood.

di Francesco Gerardi

Ogni anno mi preparo alla notte degli Oscar facendomi tutte le volte la stessa domanda: ma chi se ne frega, in fondo? Ogni anno comincio la notte degli Oscar con la disperata consapevolezza di chi sa di assistere ormai a un rito funebre: al cinema non ci va più nessuno, i film non sono più importanti, Hollywood non è più uno dei posti del mondo in cui si decide lo spirito del tempo. Ogni anno ci metto un attimo a dimenticare tutta questa mestizia: bastano le prime immagini delle star che sfilano sul red carpet, la convinzione, il contegno, il mestiere con cui affrontano la processione verso il Dolby Theatre di Los Angeles a convincermi che nonostante tutto vale la pena sempre e comunque di perdere una notte di sonno per assistere alla più grande festa che la società dello spettacolo abbia ancora da offrire. È stato così anche quest’anno, le celebrity mi hanno fatto presto dimenticare l’ormai evidente desiderio di morte di Hollywood: come altro si può spiegare la decisione di non candidare James Cameron al premio per la Miglior regia e Tom Cruise a quello per Miglior attore protagonista?

A detta di tutti, Avatar – La via dell’acqua e Top Gun: Maverick sono i due film che hanno letteralmente salvato il cinema in questo anno disgraziato giunto dopo due anni più disgraziati ancora. Tra questi tutti, c’è un uomo che Hollywood per come la conosciamo oggi ha contribuito a costruirla: Steven Spileberg, che ha pubblicamente definito Cruise l’uomo che «ha salvato il culo a Hollywood». È vero che bisogna sempre concentrarsi sulle cose per come sono e non per come dovrebbero essere, ma com’è possibile che Hollywood abbia coscientemente deciso di privarsi della possibilità di partecipare alla trasformazione della vita di Cruise in epopea cinematografica, una vita dedicata al cinema e destinata un giorno a diventare essa stessa cinema? Non lo so. Forse esagero. Ma so che ho passato quasi tutta la serata a sperare che Cruise planasse sopra il Dolby Theatre a bordo del suo Gulfstream IV personale, che si calasse sul palco usando gli stessi fili che usava in quella scena di Mission: Impossible. Quando ho capito che davvero Cruise a questi Oscar non avrebbe partecipato – d’altronde, l’uomo è noto per la sua permalosità – su di me si è posata una tristezza che niente di quello che è venuto dopo è riuscita a sollevare.

Non me ne voglia Brendan Fraser, che il suo Oscar come Miglior attore protagonista per l’interpretazione di Charlie in The Whale se lo è strameritato, anche solo per il supplizio che deve essere stato indossare quella fat suit ogni giorno, tutti i giorni, per settimane e mesi di riprese. Quella di Fraser è una storia perfettamente hollywoodiana: il comeback perfetto, l’underdog assoluto, la redenzione che tutti si augurano di vedersi concessa nella vita. Nel suo monologo di apertura, il presentatore Jimmy Kimmel ha sottolineato una delle stranezze della serata: i favoriti –  e poi vincitori – nelle categorie Miglior attore protagonista (Fraser, appunto) e Miglior attore non protagonista (Ke Huy Quan per la sua parte in Everything Everywhere All at Once) di questi Oscar 2023 erano due uomini che vent’anni fa venivano considerati buoni al massimo per film come Il mio amico scongelato, film barzelletta del 1992 in cui Fraser faceva da protagonista e Quan poco più che una comparsata. Come ha detto lo stesso Quan stringendo la statuetta appena vinta – uno dei pochi momenti sinceramente emozionanti della serata, tra i saluti sbracciati a Spielberg e i saltelli entusiasti davanti a Harrison Ford – «questo è il sogno americano»: a nemmeno un anno sali su un barcone, il primo compleanno lo festeggi in un campo profughi, a dieci reciti per Steven Spielberg e con Harrison Ford nel secondo capitolo della saga di Indiana Jones, a venti ti ritrovi quasi comparsa ne Il mio amico scongelato, a cinquanta vinci un Oscar dopo vent’anni di oblio.

Non è mai troppo tardi è il messaggio di cui gli Oscar 2023 si sono fatti portatori. Vale per Fraser e per Quan, ma pure per le vincitrici nelle categorie femminili: Jamie Lee Curtis aveva vent’anni nel 1978, quando faceva il suo esordio cinematografico nel primo capitolo di Halloween, diretta da John Carpenter. Michelle Yeoh ne aveva ventitré quando cominciava ad affermarsi come una delle nuove stelle del cinema d’azione di Hong Kong, nei primi anni Ottanta (senza aver mai fatto un corso di arti marziali e interpretando tutti i suoi stunt da sola). C’è chi ha sottolineato la faccia scazzatissima di Angela Bassett – già virale sui social – al momento dell’annuncio della vittoria di Curtis e chi si è indignato per il mancato premio a Cate Blanchett: è comprensibile, nessuno alla vigilia si aspettava che Everything Everywhere All at Once vincesse tutte queste statuette, si prevedeva la solita, precisa e puntuale distribuzione da Cencelli del cinema che abbiamo visto negli scorsi anni.

E invece, questo è stato l’anno del film «troppo strano», come lo hanno definito i registi Daniel Kwan e Daniel Scheinert quando sono saliti sul palco una prima volta per ritirare la statuetta per la Miglior Regia e una seconda per ringraziare per quella al Miglior film (al conto va aggiunta anche quella per la Miglior sceneggiatura originale). Nessuno si poteva aspettare un tale riconoscimento – sei statuette nelle categorie principali non le aveva mai vinte nessuno – per un film così di genere, fine di un processo di sdoganamento di questo cinema cominciato ormai vent’anni fa con la Trilogia del Cavaliere Oscuro di Nolan.

Forse ha ragione Kwan quando dice che il cinema, in particolare quello hollywoodiano, non riesce più a stare al passo con tutte le cose che succedono nel mondo. E forse è per questo che l’Academy ha deciso di premiare così tanto Everything Everywhere All at Once, per il desiderio di mostrarsi al passo con tutto quello che succede, ovunque succeda, in qualsiasi momento succeda (forse è anche così che si spiega la vittoria di “Naatu Naatu” tra le Migliori canzoni originali: cosa c’è di più everything everywhere all at once di una canzone scritta in telugu, cominciata in India e diventata fenomeno pop mondiale su TikTok?). Da questo punto di vista, era prevedibile la sconfitta di film come Tar, troppo contemporaneo nel suo desiderio di essere (anche) un commento ai tempi della wokeness e della cancel culture; di Niente di nuovo sul fronte occidentale, troppo “classico” (ma che comunque porta a casa le statuette per Miglior film straniero, Migliore fotografia, scenografia e colonna sonora); di The Fabelmans, troppo nostalgico; de Gli spiriti dell’isola, troppo “fuori dalla storia”, come come si diceva anche qui su Rivista Studio.

C’è un’immagine, però, che descrive gli Oscar 2023 meglio di tutte le altre. È l’immagine già più commentata della cerimonia, quella che da ieri sta girando di più sui social e che sta attirando attorno a sé più dibattito. È l’immagine dello scoglionamento di Hugh Grant durante una delle tantissime interviste di rito che si fanno sul red carpet (che quest’anno non era nemmeno rosso ma color champagne, altra decisione incomprensibile e inspiegabile dell’Academy: immaginate le condizioni di un tappeto color champagne calpestato per ore da centinaia di persone). Ashley Graham gli chiede se è emozionato e se c’è un film, un attore, un’attrice, un’opera o una persona che vorrebbe veder vincere. Dopo un attimo di riflessione, Grant risponde: «Nessuno in particolare, no». Un’ancora speranzosa Graham ci riprova: com’è stato recitare in Glass Onion, chiede. «Ci ho recitato a malapena, compaio per tipo tre secondi», risponde Grant, con la mano sinistra posata sul fianco, come se volesse spingere il suo stesso corpo lontano da questo imbarazzo. Graham, a questo punto disperata, insiste: ma ti sarai divertito a fare questo film, almeno un po’! Risposta di Grant: «Quasi». Che è un po’ quello che si può dire di questi Oscar, come di tutti gli Oscar.