Cultura | Personaggi
Brendan Fraser piace di nuovo a tutti
A Venezia ha stupito tutti con la sua interpretazione in The Whale di Darren Aronofsky, ultimo capitolo del Brenaissance, il rinascimento personale di uno degli attori-simbolo degli anni Novanta.
Brendan Fraser alla prima di The Whale alla 79esima Mostra del Cinema di Venezia (Foto di Marco Bertorello/Afp via Getty Images)
Il talento di Brendan Fraser era andare a schiantarsi contro gli oggetti. Il suo primo ruolo da attore professionista era stato quello del Marinaio #1 in Dogfight – Una storia d’amore, un’interpretazione che gli valse l’iscrizione alla Screen Actors Guild e cinquanta dollari extra di paga come premio per la disponibilità a farsi lanciare contro un flipper. Si incrinò una costola ma, a suo dire, fu divertente. In tutti i set in cui si trovò a lavorare da quel momento in poi cominciò a chiedere se servisse qualcuno da far schiantare contro gli oggetti: lui era grosso abbastanza, disponibile abbastanza, povero abbastanza. È così che è cominciata la carriera di uno degli action hero più famosi, amati e ricchi tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. È così che Fraser se l’è rovinata anche, quella carriera. In parte perché è difficile farsi prendere sul serio come attore quando tutto quello che interpreti è un uomo che corre, che salta, che cade, che si rialza, che corre ancora, salta di più, cade di nuovo, una extendend version del Marinaio #1. In parte – soprattutto, in realtà – perché gli stunt ai quali Fraser si sottoponeva gli hanno rovinato la salute.
Nel 2018 raccontò a Gq che quando andò in Cina a girare il terzo capitolo della “sua” trilogia della Mummia, il suo corpo ormai era tenuto assieme con il nastro adesivo. «Mi ero costruito una specie di esoscheletro», racconta Fraser per spiegare tutti i trucchi che aveva trovato per sopportare il dolore e continuare a schiantarsi contro gli oggetti: pacchi di ghiaccio attaccati alle giunture, cuscinetti morbidi appiccati ai muscoli sfibrati. Alla fine fu costretto a fermarsi. Aveva la schiena distrutta e dovette sottoporsi a una laminectomia. Le corde vocali talmente usurate che, più che riparate, andavano ricostruite. Per guarire gli ci sono voluti sette anni, tra interventi chirurgici, terapia e riposo. Sette anni che sono tanti ovunque e una vita a Hollywood. Tant’è che il profilo su Gq di cui sopra si intitolava “Whatever happend to Brendan Fraser?”, più o meno “Che fine ha fatto Brendan Fraser?”.
Quel pezzo scritto da Zach Baron fu però anche l’inizio del Brenaissance, il rinascimento personale di Brendan Fraser al quale in questi giorni tutti hanno assistito alla Mostra del Cinema di Venezia. Fraser è arrivato sul Lido per la prima di The Whale, il nuovo film di Darren Aronofsky di cui l’attore non è solo protagonista ma centro, essenza, oggetto: interpreta un professore di inglese, solitario e obeso, che cerca di ricostruire il rapporto con la figlia ignorata per anni. Si parla già di Oscar, perché Hollywood ama le trasformazioni fisiche e le resurrezioni professionali. Soprattutto, ama i momenti come quello che sta girando moltissimo sui social media in questi giorni: il pubblico di Venezia che regala a Fraser una lunghissima standing ovation – sei minuti – e lui che non sa bene come comportarsi, che fare. All’inizio resta seduto, poi si alza, prima si trattiene e alla fine scoppia a piangere. È probabile che Fraser si sia ritrovato all’improvviso in una versione della sua vita alla quale aveva rinunciato ormai da tempo: un attore americano diventato famoso interpretando il cavernicolo de Il mio amico scongelato, George in George re della giungla… ? e Rick O’ Connell nella saga della Mummia non passa certo le sue notti a sognare gli applausi nelle sale dei festival europei. Vedendo quelle immagini, in tanti hanno sottolineato la sincerità della reazione di Fraser, lo stupore vero di un uomo meravigliato dal momento e dalla situazione.
È questa, probabilmente, la qualità che ha reso Fraser uno degli attori-simbolo di quello stranissimo momento storico tra il finire del millennio vecchio e l’inizio di quello nuovo. Una parte del suo primo successo si spiega soprattutto con quel volto così adatto a ritrarre lo stupore, con quegli occhi enormi e azzurri. Non è un caso che nel film che lo ha reso famoso interpretasse un cavernicolo rimasto congelato nell’Età della Pietra e scongelato nell’America contemporanea: passa tutto il tempo a meravigliarsi e divertirsi di tutto, e il suo volto ha un che di monumentale che impone la stessa meraviglia e lo stesso divertimento negli occhi di chi guarda. Ma il successo di Fraser è stato anche il segno di un cambiamento nell’etica e nell’estetica della cultura pop di quegli anni. Con quella faccia e con quella voce non avrebbe mai potuto essere un action hero nell’America reaganiana, invece era perfetto per interpretare l’eroe di cui gli Stati Uniti clintoniani avevano bisogno e che si meritavano: senza spigoli, privo di ruvidità, libero da certe complessità morali e ambiguità comportamentali. Non a caso, il suo volto e il suo corpo hanno contribuito a coniare un neologismo usato per spiegare gli uomini incredibilmente attraenti, non troppo svegli ed evidentemente dolci: himbo, una crasi di “he” e “bimbo”. Fu pure preso in considerazione per interpretare Superman, l’himbo quintessenziale della cultura pop americana. È probabilmente questa la ragione per la quale attorno a Fraser è nato uno dei fandom – composto soprattutto da Millennial – più affezionati e pervicaci. Più che sulle copertine delle riviste patinate e nelle prime ai festival internazionali, in effetti, il Brenaissance è avvenuto su internet.
Attorno a Brendan Fraser esiste infatti un culto che è, almeno in parte, il culto della fragilità carissimo alla mia generazione. C’entrano l’insuccesso e il fallimento e la delusione, concetti con i quali ogni Millennial sente di avere una certa affinità: la seconda parte della carriera di Fraser è una sequenza di fiaschi tale che, prima di quel profilo su Gq, in molti pensavano si fosse semplicemente ritirato per evitare ulteriori imbarazzi. C’entra anche il fatto di essere stato una vittima: Fraser ha raccontato di essere stato molestato sessualmente dall’ex presidente della Hollywood Foreign Press Association, Philip Berk. Nel 2003, in un hotel di Beverly Hills, durante un pranzo di gala organizzato dalla Hfpa, Berk toccò il culo a Fraser. Berk disse che era stato uno scherzo e Fraser rispose che lui questo scherzo non lo aveva tanto capito, sicuramente non lo aveva trovato divertente. Quando gli si chiede se quell’episodio – avvenuto molto prima della nascita del movimento #MeToo – e la sua denuncia gli abbiano rovinato la carriera, Fraser risponde sempre che non lo sa, che certe cose capitano e che forse, speriamo, grazie al #MeToo ora capitano meno e vengono raccontate di più. In ogni caso, le peripezie hanno trasformato Fraser in una sorta di totem, una divinità pagana adorata da chi cerca il modo giusto di affrontare le avversità: il gruppo Facebook Brendan Fraser Fans 2.0, il thread Reddit r/SAVEBRENDAN, gli hashtag dedicati su TikTok (#brendanfraser, 139.1 milioni di visualizzazioni; #brenaissance, 22 milioni, #brendanfraserdeservesbetter, 3.4 milioni). Sul social della Generazione Z in questi giorni sta di nuovo girando moltissimo un video in cui Fraser si commuove perché una fan – vestita da Evelyn Carnahan della Mummia – gli dice che l’internet fa il tifo per lui. Lui si dice ansioso, beve nervosamente da un bicchiere d’acqua e commenta la dimostrazione d’affetto con un goffissimo «schucks, ma’am!».
Certamente non è un caso che la riscoperta di Brendan Fraser sui social abbia preceduto di pochissimo la sua riscoperta anche da parte degli studi hollywoodiani. A chi adesso gli chiede di parlare della seconda parte della sua carriera e del nuovo successo che lo aspetta – sarà in Killers of the Flower Moon di Scorsese assieme a DiCaprio e De Niro, in Brothers con Glenn Close e Josh Brolin – lui risponde sempre tornando a quei sette anni di dolori e riposo, dice che spera di aver imparato a prendersi cura di sé, a darsi valore, a smettere di considerarsi sempre e solo uno bravo a schiantarsi contro gli oggetti.