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Quanto ci metteremo a dimenticare anche il nuovo Avatar?

A tredici anni dal primo film della saga, James Cameron torna a raccontare la storia di pianeti verdi e alieni blu che è diventata la sua ossessione.

di Francesco Gerardi

Dal primo Avatar sono passati ormai talmente tanti anni che nemmeno James Cameron si ricorda più di cosa parlasse quel film. Forse è per questo che il regista ha impiegato tredici anni per girare un sequel che racconta esattamente la stessa storia del primo film. È questa l’unica spiegazione razionale che sono riuscito a darmi dell’esistenza di Avatar – La via dell’acqua: ritorno al passato, reboot di sé stesso, prosieguo di un racconto che nessuno ricorda più. Cameron è evidentemente ossessionato da questa storia, un po’ come Orson Welles era ossessionato da Don Chisciotte e Sergio Leone dall’assedio di Leningrado. Cameron è ossessionato da questa storia di pianeti verdi e alieni blu al punto da essere disposto a raccontarla ancora e ancora, sempre uguale, con ogni nuova tecnologia e a ogni nuova generazione. L’unica vera differenza che riesco a trovare tra il giorno in cui sono andato a vedere Avatar e quello in cui sono andato a vedere Avatar – La via dell’acqua, infatti, è che nel primo caso avevo 19 anni e indossavo con l’entusiasmo che quell’età mi consentiva un paio di – inutilissimi, fastidiosissimi – occhialetti per la visione del film in 3d, tecnologia all’epoca circondata da un hype pareggiato solo da quello che circondava il nuovo film del regista di Terminator e Titanic. Negli anni che sono venuti dopo, 3d e Avatar sono stati legati anche dall’identica sorte: gli occhiali 3d non sono riusciti a diventare un’abitudine proprio come Avatar non è riuscito a diventare un ricordo. Il film che ha incassato di più nella storia del botteghino mondiale non ha lasciato traccia di sé nell’immaginario collettivo: al di fuori di quel momento e di quel luogo tredici anni fa, Avatar non è più esistito, la visione non si è mai trasformata in passione, un fandom non è mai nato. Forse è per questo che Cameron ha sentito il bisogno di ricominciare tutto da capo e si è affrettato a dire che tra secondo e terzo capitolo della saga non passerà di nuovo tutto questo tempo. In un certo senso, il suo modo di dire non ti scordar di me, stavolta.

Persino Cameron, però, sembra essersi dimenticato del primo viaggio a Pandora, del primo tentativo di colonizzazione del pianeta da parte della gente del cielo, della già vittoriosa guerra di liberazione degli indigeni Na’vi guidati dal blue saviour Jake Sully. È questa l’unica spiegazione razionale che sono riuscito a darmi mentre davanti agli occhi mi scorrevano le stesse immagini di tredici anni prima, solo questa volta private del filtro allucinogeno degli occhiali 3d. Guardare Avatar – La via dell’acqua significa ritrovarsi intrappolati nello stesso ossessivo uroboro in cui deve essersi trasformata la mente di Cameron negli ultimi quindici anni (il regista sembra non riuscire a smettere di tornare su due storie: una è questa e l’altra è quella di Terminator). Il secondo capitolo della saga inizia dove sarebbe potuto finire il primo – Jake e Neytiri si sposano, mettono su famiglia, vivono felici all’ombra dell’Albero Casa – e poi ricomincia da dove cominciava il primo, unendo i film a formare un racconto circolare in cui a un certo punto diventa impossibile distinguere la fine dall’inizio, il prima dal dopo, l’apertura e il prosieguo. La cosa è da intendersi in senso letterale: l’equilibrio narrativo di Avatar – La via dell’acqua, l’idillio familiare dei Sully, si infrange nel momento in cui su Pandora arrivano le astronavi dei coloni spaziali provenienti dalla Terra. Di nuovo. Coloni spaziali che appena atterrati cominciano a incenerire ettari di foresta sacra e ad ardere vive intere specie animali. Un’altra volta. Un’invasione che porta alla guerra, da una parte gli umani bardati dei loro esoscheletri da combattimento e dall’altra i guerriglieri Na’vi armati di arco e frecce. Ancora.

Il casus belli? La scoperta su Pandora di una preziosissima materia prima – di nuovo – l’amrita, elisir di lunga vita ottenibile solo con la caccia al tulkun, intelligentissima balena spaziale, animale spirituale dei Na’vi appartenenti ai clan del mare che seguono la via dell’acqua. Il déjà vu comincia a dare la nausea al momento dell’introduzione del villain di questo sequel-non sequel: è lo stesso identico villain dell’altro film, il colonnello Miles Quaritch interpretato da Stephen Lang. Ma non era morto alla fine del primo Avatar? Certo che sì, morto e risorto: a quanto pare, prima di morire tutti i suoi ricordi e tutta la sua personalità erano stati scaricati in un hard disk esterno e ora sono stati caricati dentro il cervello di un avatar Na’vi appositamente progettato dal corpo dei Marine degli Stati Uniti nell’eventualità in cui a un regista non bastassero tredici anni di tempo per farsi venire in mente un cattivo per il suo “nuovo” film.

Si dirà che tutto questo è secondario, che il punto di Avatar non è la storia che esso racconta al suo interno ma le storie che di esso si raccontano all’esterno. È come se Cameron in questi anni fosse diventato una sorta di Dziga Vertov del nostro tempo e della nostra parte di mondo, e Avatar il suo L’uomo con la macchina da presa in perenne aggiornamento e ampliamento: non un film ma una performance, uno stress test pensato per misurare i limiti tecnologici del cinema contemporaneo. È il primo film della storia, Avatar – La via dell’acqua, a fondere la ripresa di ambienti subacquei a quella di attori in motion capture, una prodezza che da sola ha occupato un anno e mezzo dei tredici impiegati per terminare il film. Un traguardo che di certo merita riconoscimenti e celebrazioni. Un traguardo che però, forse, non giustifica tre ore di film costruito attorno a esso. Il secondo atto del film, quello in cui la via dell’acqua ci viene mostrata in tutta la sua magnificenza estetica, sta all’intersezione tra cinema, videoarte e documentario naturalistico e merita la meraviglia che ho visto comparire sui volti delle molte persone che erano in sala con me (forse il futuro del franchise sta in uno spin off documentaristico dedicato alla biodiversità pandoriana? Ci sono altri tre film per decidere, o forse cinque o sette, ho perso il conto dei sequel annunciati).

Il problema è che prima e dopo questo bellissimo, lunghissimo viaggio in fondo al mar ci sono centoventi minuti sopra il pelo dell’acqua che fanno venire il dubbio che Pandora sia incastrato in un loop temporale: tutto quello che succede oltre la superficie del mare lo abbiamo già visto succedere tale e quale tredici anni fa. E figuriamoci, tredici anni fa dicevamo che quella storia l’avevamo già vista nel 1995 in un film Disney intitolato Pocahontas. Quindi doppio, triplo déjà vu. Purtroppo, viviamo un momento della storia del cinema nel quale bisogna essere contenti di ogni successo di pubblico: i tempi sono talmente bui che la ricchezza di Avatar significa la sopravvivenza di altri, di molti. Certo, ci sarebbe da riflettere sul senso, anche solo commerciale, di fare un film che soltanto per rientrare dei costi di produzione-promozione ha bisogno di superare sé stesso in cima al box office di tutti i tempi. Ma c’è da dire anche che forse il vero lascito di Avatar sta proprio in questo, nell’aver spostato più in là il confine tra hit e flop, nell’aver ridefinito il concetto stesso di blockbuster e di successo. Lo ha detto lo stesso Cameron, d’altronde: «Una cosa folle come questa non sarebbe mai stata possibile se il primo Avatar non avesse incassato tutti quei soldi». Vedremo se la possibilità si ripeterà anche questa volta e quanto tempo passerà prima di vederla realizzata in un terzo sequel. E vedremo se prima faremo in tempo a dimenticarci di tutto. Un’altra volta.