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Glass Onion, l’elogio dell’idiozia

Il nuovo film di Rian Johnson non è davvero un giallo ma una satira, una presa in giro: dei ricchi stupidi, dei film scemi e del pubblico che va dietro agli uni e agli altri.

di Francesco Gerardi

Rian Johnson, il regista di Glass Onion, pensa che siamo degli idioti, tutti quanti, nessuno escluso. Non degli idioti qualunque ma esponenti di una categoria dell’idiozia particolare, quella più imbarazzante e soprattutto irrecuperabile: gli idioti inconsapevoli, che poi sono anche quelli permalosi. Subito dopo l’arrivo su Netflix di Glass Onion, ho fatto una cosa che non si dovrebbe fare mai e che faccio sempre prima di cominciare a pensare qualsiasi cosa di un film: sono andato sui social a vedere cosa ne pensassero gli altri. Un sacco di gente si è sentita offesa da Glass Onion, offesa in quella maniera altezzosa di cui sono capaci solo le persone convinte di possedere un’intelligenza di cui spesso, però, non hanno mai fornito prova. Glass Onion è un film offensivo, ho letto in commenti diversi di persone diverse, perché è un film idiota. Ed è la verità: Johnson ha diretto un film idiota, basato tutto su quei mezzucci e trucchetti giallistici che il Lionel Twain di Truman Capote denunciava con sdegno già nel 1976, nella scena finale di Invito a cena con delitto, uno dei film che ha evidentemente influenzato Johnson nella creazione della saga di Knives Out e soprattutto di questo secondo capitolo delle avventure di Benoit Blanc, il miglior detective del mondo interpretato da Daniel Craig. Ma c’è un’altra verità che gli offesi tacciono o ignorano: Johnson ha diretto un film idiota che però funziona quasi alla perfezione, e questo è possibile – proprio come spiegava Lionel Twain/Truman Capote – solo se a guardarlo c’è un pubblico altrettanto idiota. Lo spiega pure Blanc in uno dei dialoghi più azzeccati del film: a Helen (Janelle Monáe) il detective spiega che lui a giocare a Cluedo è scarsissimo perché Cluedo è un gioco scemo e le persone intelligenti sono sempre scarsissime ai giochi scemi. Entro la fine del film capirà la fallacia di questo ragionamento. A quelli che alla fine di Glass Onion si sono sentiti offesi, invece, l’epifania deve essere sfuggita.

Glass Onion funziona solo se chi ascolta i magniloquenti monologhi di Miles Bron – il miliardario un po’ Mark Zuckerberg e un po’ Elon Musk interpretato da Edward Norton, attore il cui immenso talento cominceremo ad apprezzare davvero chissà quando e comunque sempre troppo tardi – è così idiota da non accorgersi che sono pieni di verbi inventati di sana pianta e sostantivi usati per dire quel che non vogliono dire. Glass Onion funziona solo se chi guarda il film è così idiota da guardare anche altro nel frattempo: Johnson lo sa che la maggior parte di noi guarderà il film su Netflix (solo un idiota spenderebbe dei soldi per vedere al cinema tre settimane prima quello che potrà vedere su Netflix tre settimane dopo, no?), lo sa che la maggior parte di noi si farà certamente distrarre da un altro schermo durante la visione, lo sa e costruisce quasi tutto il film attorno alla certezza di questa distrazione. Che in fondo è la certezza della nostra idiozia. Che in fondo è il tema, il punto, il messaggio del film. «Che cosa abbiamo visto davvero?», chiede un accalorato Blanc nel mezzo di uno dei tantissimi spiegoni del film, domanda alla quale segue un imbarazzo identico degli altri personaggi e di tutti gli spettatori.

C’è un tratto sadico, crudele, guastafeste nella regia che Johnson ha scelto per Glass Onion. Il regista ha raccontato di aver litigato con la produzione per il titolo del film, che nella sua interezza è Glass Onion: A Knives Out Mistery. Johnson non voleva riferimenti a Knives Out perché non voleva creare l’ennesimo universo condiviso ma una “semplice” serie di storie che inizino e finiscano in se stesse, senza proseguire infinitamente le une nelle altre. Forse è anche per questo che con Glass Onion il regista si è evidentemente sforzato di fare la cosa più diversa possibile da Knives Out. Forse voleva indispettire la produzione, chissà. O magari voleva sorprendere il pubblico, convinto, dopo il primo film, di aver già capito tutto, di sapere ormai cosa aspettarsi. Johnson, invece, questa volta fa una cosa completamente diversa. Non si tratta solo della geografia della storia, che dall’autunno del New England si sposta all’estate greca, che scambia i maglioni a trecce di Chris Evans con il bikini arancione di Kate Hudson (al ritorno al mestiere di attrice con l’interpretazione della modella decaduta e influencer impedita Birdie Jay). Non si tratta nemmeno della trasformazione di Benoit Blanc, da Hercule Poirot in ispettore Clouseau della Pantera rosa, grazie a un Craig sempre miracolosamente in equilibrio tra caricatura e macchietta, tra attore in overacting e interprete caratterista. Se Knives Out era un omaggio ai classici del genere – c’è uno stupendo profilo del New Yorker in cui Johnson dimostra la sua passione per il giallo spiegando perché Agatha Christie non è stata mai capita davvero dai suoi lettori – Glass Onion è una perversione, una satira degli stessi: la rivelazione di quasi tutto quello che c’è da rivelare arriva nel mezzo del film, durante il secondo atto, invece che nel finale, alla chiusura del terzo, di atto, lasciando così nelle mani dello spettatore la cipolla di vetro del titolo, con il centro in bella vista attraverso gli strati ora trasparenti.

Certo, restano in Glass Onion molte delle cose che avevano reso Knives Out il successo che è stato. Il design degli oggetti – soprattutto la mistery box dalla quale tutto comincia – di Rick Heinrichs. I costumi di Jenny Eagan, con quel gusto impareggiabile per colori e fogge. La fotografia di Steve Yedin e il montaggio di Bob Ducsay. Soprattutto, resta il disprezzo per i ricchi, che nel primo film erano quelli vecchi – gli ereditieri – e nel secondo sono quelli nuovi: startuppari, influencer, streamer, nuovi pubblici rappresentanti e innovativi geni del privato. Uno dei temi della narrativa cinematografica di quest’anno è stato il disgusto, il disprezzo per i ricchi, e Glass Onion alla fine è una satira e non un giallo anche e soprattutto perché lo si può comodamente mettere nella stessa categoria in cui stanno Triangle of Sadness e The Menu, solo per citare due titoli tematicamente simili di cui abbiamo scritto anche qui su Rivista Studio. Se Knives Out era il giallo perfetto per raccontare l’America trumpiana – la lavoratrice immigrata dal Paraguay eredita la casa ancestrale della famiglia wasp per decisione del patriarca della stessa, e alla fine guarda tutti dall’alto in basso sorseggiando perfida da un tazza con su scritto “My house, my rules, my coffee!!” – Glass Onion è quello giusto per questi anni di smarrimento post pandemico. All’inizio del film vediamo Blanc impegnato in una partita di Among Us giocata su Zoom assieme a Natasha Lyonne, Stephen Sondheim e Angela Lansbury. Blanc è in crisi e dice di aver bisogno di un caso da risolvere per riempire il vuoto. Quando gli si presenta l’occasione di partecipare alla cena con delitto organizzata da Miles Bron per il suo gruppo di amici, Blanc è deliziato all’idea di far parte dei giochi organizzati da una grande mente per menti altrettanto grandi. È una fatica – di più: una sofferenza – per lui ammettere di essersi invece ritrovato in un mondo di idioti: nerd diventati oligarchi grazie a idee rubate, modelle convinte che gli sweatshop del Bangladesh siano i posti in cui si fanno gli sweatpants, attivisti per i diritti degli uomini che si fanno ancora fare il bucato dalla mamma, nuovi politici finanziati sempre dagli stessi soldi, ricchezze che si accumulano infinitamente oltre l’utilità delle idee che le hanno generate.

Glass Onion alla fine è una satira e non un giallo perché l’epifania alla quale giunge Blanc è quella alla quale il film porta – vorrebbe portare – anche noi: gli idioti trionfano solo in un mondo idiota popolato da altri idioti, gli scemi vincono solo nei giochi scemi giocati da altri scemi, proprio come Cluedo. Se personaggi come quelli che si ritrovano sulle isole greche per partecipare alle cene dei Miles Bron del mondo sono i disruptor, i rivoluzionari, i vincitori è solo una decisione nostra, colpa del nostro bisogno patologico di dare senso e peso a ciò che è privo di entrambi. E questa è una verità che sta, ed è sempre stata, davanti ai nostri occhi. Proprio come il centro di una cipolla di vetro.