Cultura | Cinema

Everything Everywhere All at Once, il film totale

Torna in sala uno dei film più assurdi e sorprendenti degli ultimi anni, premiato anche dall'Academy con ben 11 nomination ai prossimi Oscar.

di Francesco Gerardi

In tutto il multiverso, nessuno si aspettava un tale successo per Everything Everywhere All at Once. Sin dal giorno della sua uscita nelle sale il film ha ottenuto un consenso unanime, da parte sia del pubblico che della critica. Quando Daniel Kwan e Daniel Scheinert (noti con il nome collettivo di Daniels) avevano proposto l’idea ad A24, la casa di produzione aveva nei loro confronti aspettative contenute. Giustamente, anche: l’ultimo film che i Daniels avevano girato per A24 era pur sempre Swiss Army Man, racconto dell’amicizia tra un naufrago (Paul Dano) e un cadavere affetto da flatulenza post mortem (Daniel Radcliffe).

Viene da ridere a immaginare la riunione in cui i registi hanno esposto la loro ultima idea ai dirigenti di A24: un film che mescola azione e commedia, kung fu e fantascienza, esistenzialismo e nichilismo, dichiarazione dei redditi e viaggio interdimensionale, il cammino dell’eroe messianico e la disgregazione della famiglia, l’epica dell’immigrazione e la necessità dell’integrazione (il film è stato definito da molti la più corretta metafora della storia degli asioamericani). Chissà cosa avevano in mente gli executive di A24 nel momento in cui hanno concesso la luce verde a Everything Everywhere All at Once. Probabilmente l’ennesimo film di culto. Sicuramente, nessuno immaginava che all’inizio del 2023 Everything Everywhere All at Once sarebbe stato il primo film A24 a superare i 100 milioni di incassi al botteghino mondiale, scavalcando così Hereditary di Ari Aster dalla cima della classifica dei titoli più redditizi nella storia della casa di produzione.

Soprattutto, nessuno immaginava che nella settimana delle nomination agli Oscar tutti avrebbero parlato del film dei Daniels: 11 candidature, comprese quelle per Miglior Film, Miglior regia, Miglior attrice protagonista per Michelle Yeoh (che nel film interpreta l’eroina universale Evelyn Wang), Miglior attore non protagonista per Ke Huy Quan (Waymond, il marito di Evelyn, il Morpheus per il Neo di lei) e Miglior attrice non protagonista sia per Jamie Lee Curtis (l’agente del fisco americano Deirdre) che per Stephanie Hsu (Joy, figlia di Evelyn e Waymond, villain nichilista multidimensionale). Sul casting di Everything Everywhere All at Once ci sarebbe da scrivere un pezzo a sé. Limitandosi a Yeoh e Quan: lei ha raccontato tutto al New York Times; a Quan, invece, i Daniels sono arrivati in un pomeriggio in cui stavano cazzeggiando su Internet e sono incappati in una gif di Indiana Jones e il tempio maledetto in cui compariva Short Round, il personaggio interpretato da Quan, e si sono chiesti «Ehi, ma che fine ha fatto quel tipo?». La risposta era: nessuna. Come ha detto lo stesso Quan nel bellissimo discorso fatto dopo aver vinto il Golden Globe, ha passato gli ultimi trent’anni paralizzato dal terrore che nulla di quello che avrebbe fatto da adulto sarebbe mai valso quello che era riuscito a fare da bambino (Indiana Jones e I Goonies). «Grazie per aver creduto in me quando nessuno lo avrebbe fatto», ha detto ai Daniels.

Ci sono indizi che fanno pensare che Everything Everywhere All at Once potrebbe essere riconosciuto anche dall’Academy come il film che somma e supera gli ultimi dieci anni di cinema pop americano, punto di arrivo dello sdoganamento/nobilitazione di certi generi e personaggi cominciato con Il cavaliere oscuro – Il ritorno. Il pregio maggiore di questo film è essere tanto rappresentativo dei tempi e altrettanto in controtendenza con gli stessi. Se non venissimo dall’ormai più che decennio dei cinecomics, Everything Everywhere All at Once non sarebbe mai stato possibile: provate a immaginare come avrebbe reagito il pubblico a un film in cui tutta l’esistenza è minacciata da un bagel – letteralmente un bagel, il doomsday device-MacGuffin forse più ridicolo mai visto – senza prima essere stato educato da film come Spider-Man: No Way Home o Doctor Strange e il multiverso della follia.

È impossibile spiegare il cosiddetto “everything bagel”, il grande spauracchio del film, senza fare spoiler a chi il film ancora non l’ha visto. Per farsi un’idea: i Daniels hanno raccontato che Everything Everywhere All at Once nasce da una decennale ricerca sul concetto di multiverso – i due avrebbero cominciato ad appassionarsi all’argomento nel 2010 – e dall’incontro di tre fonti di ispirazione, ovvero il documentario del 1986 Sherman’s March, il film Spider-Man – Un nuovo universo e la seconda stagione di Rick & Morty. Ovviamente, essendo il loro film uscito nel 2022, temevano di averci messo troppo tempo e di essere arrivati tardi: «In questa gara al multiverso alla fine ci batteranno tutti», si dicevano mentre continuavano a perdere tempo lavorando alle minuzie del “culto del bagel” (ci hanno pensato a lungo davvero, hanno raccontato tutto a Vulture). E invece, Everything Everywhere All at Once sembra essere uscito nel momento esatto, amatissimo da un pubblico che oramai ha introiettato certa estetica e certi temi ma che è anche pronto a superarli e abbandonarli.

Nonostante tutte le sue assurdità – avete mai visto un film in cui in una scena il villain riflette sulla vita come grumo di atomi alla deriva nel pulviscolo interstellare e in quella successiva la protagonista sfida nelle arti marziali energumeni che lottano con le braghe calate e grossi oggetti falliformi infilati nel retto? – il film dei Daniels può essere ridotto a una saga familiare, una micro-epopea che racconta l’infinita, incessante ricerca di un’identità da adottare e di un luogo al quale appartenere, in mezzo alle infinite possibilità e ai corrispondenti rimpianti. Facendo questo, Everything Everywhere All at Once ha messo da parte tutti i recenti predecessori di cui temeva la concorrenza. E sempre facendo questo, Everything Everywhere All at Once ha dimostrato che anche in questa era del cinema i generi narrativi non sono valori a se stanti ma veicoli della vicenda umana. E la vicenda umana è sempre la stessa, in tutto il multiverso, anche in quello in cui gli esseri umani hanno wurstel Oscar Mayer al posto delle dita.

Certo i meriti del film non sono solo questi. Per un cinefilo, guardare Everything Everywhere All at Once equivale al piacere della ricerca filologica e del rompicapo metatestuale: tracciare una mappa precisa di tutte le influenze e citazioni contenute nel film dei Daniels è una sfida appassionante. Una sfida al termine della quale viene da chiedersi come abbiano fatto i due a tenere tutto assieme, a realizzare questo “everything bagel” cinematografico senza farlo crollare sotto il peso dei condimenti infiniti che hanno impiegato nella sua preparazione. I drammi sentimentali di Wong Kar-wai, le scene di combattimento delle sorelle Wachowski, gli animali antropomorfi dell’animazione americana, il secondo volume di Kill Bill, le kung fu comedy di Jackie Chan (all’inizio il film era stato pensato con lui come protagonista, poi i Daniels hanno scoperto l’ammontare del suo cachet), gli heroic bloodshed di Ringo Lam e John Woo, i vestiti di Elvis e quelli di Tupac, i videogiochi di Super Mario, i gadget dei Goonies, l’intreccio di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, il finale cervellotico di Paprika di Kon, le canzoni di Mitski, di David Byrne e di Randy Newman, Bruce Lee. In Everything Everywhere All at Once c’è tutto questo più tutto il resto, appoggiato sullo strato sottile della storia più vecchia del mondo: quella di una famiglia che vuole salvarsi e di un’eroina che deve salvare il mondo. Un bagel con sopra tutto, appunto. Ora, resta solo da scoprire se siamo in quella parte del multiverso in cui questo everything bagel aggiungerà a sé l’ultimo condimento: il premio Oscar.