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La spietata tenerezza di The Whale

Il film di Darren Aronofsky, con protagonista un incredibile Brendan Fraser, è un racconto allo stesso tempo brutale e dolce delle cose per cui vale la pena vivere: l'amore, la famiglia e la redenzione prima della morte.

di Ruben Rossi

In principio non c’è che una voce senza faccia, un rettangolo nero, un’assenza. Una riunione Zoom, un gruppo di visi di studenti che circondano un vuoto. «La camera del prof evidentemente è ancora rotta…» scrive un po’ sfottente sulla chat uno di loro. Il prof risponde con ironia, ma non si mostra. Si chiama Charlie, insegna inglese e aiuta (online) i liceali a scrivere le tesine di maturità. È gravemente obeso e dopo la morte del suo compagno si sta lentamente uccidendo, avvelenandosi con cibo spazzatura.

Oltre a quella con l’amica-infermiera che si prende cura di lui, e a un incontro casuale con un giovane predicatore cristiano estremista, la relazione principale su cui si costruisce il film è quella tra Charlie e sua figlia, Ellie (Sadie Sink, già celebre per un’altra adolescente, Max di Stranger Things). Ferita e incazzata, in rivolta e spesso spiazzante. A volte persino cattiva, intelligente, ma disturbante come possono essere gli adolescenti, rivede il padre dopo molti anni di assenza – Charlie vorrebbe ricostruire il rapporto con lei, e questo sarà il suo principale sforzo per tutto il film. Aronofsky lavora spesso sulle lente cadute: nella dipendenza (Requiem for a Dream), in follie ossessive (Madre), nella decadenza fisica – tragica e malinconica assieme – di una fine di carriera (The Wrestler). Qui la depressione del protagonista prende le forme dell’autodistruzione per mezzo del cibo. Ma la caduta è sempre inesorabile.

Charlie vive in un brutto caseggiato dentro un piccolo appartamento che affaccia su un parcheggio. Si scusa sempre e per ogni cosa che fa, come se chiedesse scusa al mondo di esistere. Questo mondo, quello esterno, nel film quasi non esiste, se non in forma di brutto tempo (pioggia, nebbia), di dettaglio oltre-finestra (davanti alla quale ogni tanto un corvo becchetta resti di pizza) o come ricordo: il mare, la felicità (una sorta di felicità, l’invenzione della felicità). Rumore d’onde, di mare, che ogni tanto si fonde con la colonna sonora come un ibrido acustico. È questo il sogno di fuga di Charlie: un ricordo di lui e della figlia che prendono il sole in riva al mare. Così semplice.

Nella sua casa incasinata tutto trasmette tristezza, i colori, una gamma di blu e verdi acquei, abat-jour polverose e luce debole. Molti i libri sugli scaffali, ma da parecchio non aperti. Tapparelle abbassate, semioscurità verdognola. Una patina un po’ sporca su ogni cosa. E una camera vuota, spoglia, quella che era stata del compagno, chiusa a chiave e col letto rifatto. Si può quasi annusarlo, guardando il film, l’odore di questa cucina-soggiorno. Acido, di chiuso. Di fiato di una busta aperta di patatine al formaggio o di hamburger molle del Mc. Chiuso, stantio: polvere appiccicata ai tappeti, il cestino dell’umido pieno. La tristezza. La claustrofobia, resa maggiore dal formato 1:33, che chiude ulteriormente tutti gli spazi ai lati dell’inquadratura.

Brendan Fraser, nel ruolo, è perfetto (e favoritissimo per l’Oscar). Recita soprattutto con gli occhi. Con il corpo, anche, certo, spostandolo a fatica, vivendolo, soffrendolo. Ma tutto lo sforzo atroce che costa a Charlie anche il gesto più banale glielo leggiamo negli occhi. È nell’espressione che risiede tutto il suo dolore, e l’amarezza; che dev’essere stata in fondo per Fraser anche personale, (almeno in parte) autobiografica (l’attore è stato per anni criticato per aver preso peso). Dopo una pesante depressione, la sua scelta di mostrarsi così vulnerabile nell’interpretare questo personaggio (e a tanto tempo dalla sua ultima apparizione cinematografica) è davvero coraggiosa. Non è solo riscatto, è un dono fatto al pubblico, un rischio e una (preziosa) sfida contro i pregiudizi.

The Whale è commovente proprio perché è spietato. Perché lo sguardo del regista a volte potrebbe diventare quasi morboso (ma fermandosi sempre un attimo prima). Non ha paura di concentrarsi sulle cose più sporche, Charlie che vomita, o che racconta della chiazza marrone che si è formata sulla sua schiena. Il film non sarebbe altrettanto toccante se eludesse le scene più crude, quelle che disturbano – che sono poi le più dolorose. Aronofsky non nasconde il sudore di Charlie, quello strato perenne che gli bagna la faccia, l’alone che macchia le ascelle come una ferita e le chiazze rade e stinte di capelli.

Però è un film… morale? Si può dire? Solo nel senso più positivo: cioè un film che prova a parlare di ciò che è giusto fare, di ciò per cui vale la pena vivere. Quasi come un vecchio film di Frank Capra (meno ecumenico, forse, ma con lo stesso sentimento “umanista” alle spalle). Un uomo che fra i detriti della sua vita tenta di salvare qualcosa per cui sia valsa la pena essere stati in questo mondo: sua figlia. «Le persone sono incapaci di non interessarsi agli altri», dice Charlie in litote, di non (almeno in qualche forma) amare. Un film quasi, a tratti… cheesy, può essere? Melò? Perché il melodramma c’è, e c’è il tragico struggente presente in ogni sacrificio. «Ma quest’uomo si sta uccidendo… non lo vedete? Sacrificando… come fate a non vederlo?», urla lo spettatore ai personaggi. «Fate qualcosa…»

Ed è anche probabile che The Whale sia un film costretto a dividere. Su Rotten Tomatoes la percentuale che identifica il gradimento dei critici non è così alta (65 per cento). Il film, non è un segreto, a tanti non è piaciuto. Ma le accuse mosse nei suoi confronti, e in particolare quella di essere grassofobico, sono sinceramente ingiuste. Perché non c’è alcun giudizio. Solo uno sguardo analitico, ma pieno, allo stesso tempo, di pietà. È proprio questo a renderlo bello e significativo, questo binomio contraddittorio. Spesso si accusa i film “lucidi” di essere per questo senza cuore: The Whale riesce a provare proprio il contrario. Si può essere teneri e insieme spietati? Sì, qui sì.