Attualità | Cinema
I film e le serie tv del 2024
Una selezione delle cose che ci sono piaciute di più quest'anno, in televisione e al cinema.
The Substance
Il successo che The Substance ha riscosso in Italia ha colto di sorpresa persino chi il film lo ha distribuito: siamo sicuri che nemmeno il più ottimista dei dirigenti di I Wonder Pictures avrebbe mai immaginato che il film di Coralie Fargeat avrebbe riscosso nel nostro Paese più successo che in tutto il resto d’Europa. Anche perché un film di genere, e di questo genere, non è certo di quelli che ce li si immagina sbancare il botteghino italiano. Ma il successo di The Substance, se davvero lo si può e si vuole spiegare, sta forse proprio in questa parola: genere. Inteso non come horror, categoria di cui questo film è eccellente esponente. Genere inteso come lo intendevamo in questo pezzo: maschi e femmine, che lo hanno vissuto come un’esperienza diversissima e, spesso, addirittura opposta, finendo a litigare su quale fosse il vero messaggio, il vero senso, il vero pubblico al quale Fargeat voleva rivolgersi. La quantità e qualità di discussione che c’è stata attorno a questo film ne ha determinato il successo, che con ogni probabilità proseguirà fino alla notte degli Oscar. È questa, forse, la cosa più incredibile che Fargeat è riuscita a fare con il suo film: non solo farci andare in sala, tutti quanti, a vederlo, ma addirittura farcene parlare dopo, per giorni e per settimane e per mesi. E senza mai riuscire a metterci d’accordo.
La zona d’interesse
Liberamente ispirato al capolavoro di Martin Amis (Einaudi, traduzione di Maurizia Balmelli), il film di Jonathan Glazer è stata una delle visioni più intense dell’anno (no: da diversi anni a questa parte). È ambientato ad Auschwitz ma il campo di sterminio non si vede mai: tutto accade nella “zona di interesse”, ovvero la casa di Rudolf Höss e i dintorni. Docili ruscelli argentati, campi rigogliosi in cui saltano i conigli, boschi di betulle e di querce in cui osserviamo la vita della famiglia Höss e dei loro amici. Un posto bellissimo e terrificante. Quello che succede all’interno del campo arriva come suono: il silenzio non esiste mai, in nessuna ora del giorno o della notte. Il rumore di pistolettate, dei forni in continuo brontolio, dell’instancabile macchina industriale dell’uccisione è un tappeto sonoro che, nelle due ore di film, strizza lo stomaco fino al disgusto, porta il cervello sull’abisso della pazzia. Glazer ha vinto l’Oscar, e ritirandolo, ha detto: «Il nostro film mostra fin dove porta la disumanizzazione», con riferimento alla distruzione di Israele a Gaza. Polemiche enormi (ne abbiamo parlato qui) ma ha ragione Glazer: un film che parla molto del mondo di oggi.
Anora
Uno dei film dell’anno con una delle parole dell’anno. Per descrivere Anora abbiamo scritto: «Una Cenerentola brat». Anora è probabilmente il film più compiuto di Sean Baker, in cui il regista racconta l’avventura di una spogliarellista di ventitré anni, che si chiama appunto Anora ma preferisce il diminutivo Ani, alla ricerca della sua, personale, versione del sogno americano. Ani si invaghisce di un rampollo russo, ovviamente miliardario e sorprendentemente scemo (sorprendente che sia così tanto scemo), che la seduce e abbandona. Incredibile l’interpretazione di Mikey Madison, sempre presente, per tutto il film, alle volte prendendosi tutto il frame della cinepresa: è magnetica, è incazzata, è confusa, è «un animale» quando morde e prende a botte quelli che vede come i bruti che la separano dalla realizzazione della sua vita, dallo scacco matto.
Challengers
Decisamente lontano dalle aristocratiche ville di Io sono l’amore o i fontanili di campagna di Call Me By Your Name, il Guadagnino di Challengers, come ha scritto Lorenzo Peroni in questa recensione, «mostra i muscoli». È stato uno dei film più divertenti dell’anno, un’esperienza veramente cinematografica di musica, regia, tensione sessuale, piacere visivo puro. Nel dramma psicosessuale tennistico ci siamo goduti due uomini diversissimi – Mike Faist e Josh O’Connor – e l’incantesimo seduttivo in cui cadono a opera di Zendaya. Ma soprattutto, una lezione di anatomia, con tutti quei muscoli lucidi, e poi ossa, rotule, clavicole (perché anche molti infortuni). C’è molto sport e costume (echi dell’amore tra Borg e la Berté), moltissimo cinema (Jules e Jim, Match Point, Partita a quattro di Lubitsch, The Dreamers), e quell’inesauribile passione che abbiamo tutti per i triangoli amorosi.
Civil War
Civil War sta agli Stati Uniti oggi come Il caimano di Nanni Moretti stava all’Italia berlusconiana: è uno di quei film che magari non ci azzeccano ma ci vanno vicini abbastanza da mettere paura a tutti quelli politicamente e geograficamente interessati. Alzi la mano chi, prima del 5 novembre, non considerava la seconda guerra civile americana una vera possibilità, un rischio realistico. C’era il precedente del 6 gennaio a Capitol Hill, d’altronde, e c’era Trump di mezzo quella volta e questa volta. Alex Garland, alla fine, si è limitato a dare forma (e che forma) a una paura tutt’altro che irrazionale. Poi le cose sono andate come sono andate, cioè abbastanza male da riportare Trump alla Casa Bianca ma abbastanza bene da fare di Civil War una distopia, fantapolitica. Certo, dovremmo riflettere su quanto sottile si stia facendo il confine tra distopia e realtà: prima di accertarci che un film sia fantapolitica tocca aspettare la fine dello spoglio delle schede elettorali, ormai.
Dune – Parte 2
Sono pochissimi i casi in cui un seguito sia più bello del primo film. Viene subito in mente la “Trilogia del Cavaliere Oscuro” di Nolan, con il Cavaliere Oscuro che stravince su Batman Begins ma poi non molto altro. Dune 2 fa parte di questa ristrettissima categoria. Se al primo episodio, Villeneuve ci aveva impressionato soprattutto per la capacità di costruzione del mondo immaginato da Frank Herbert, con alcune sequenze mitologiche, d’accordo, ma da un punto di vista di scrittura non così perfetto, questa seconda parte è riuscita a tenere insieme molte cose: la gioia degli occhi, la profondità dei personaggi (su tutti l’evoluzione della Lady Jessica interpretata da Rebecca Ferguson), l’azione, il significato ultimo del film, che come ricordava Francesco Gerardi su queste pagine, è incentrato sulle «conseguenze del potere per le masse sulle quali viene esercitato, la sua capacità di mutare come un virus adattandosi al corpo infettato, di diventare indifferentemente ribellione (Chani), fanatismo (Stilgar) o manipolazione (Lady Jessica)».
Vermiglio
Una delle sorprese del 2024, che speriamo continuerà a sorprenderci anche nel 2025: dopo aver vinto il Leone d’argento a Venezia, Vermiglio è candidato ai Golden Globe ed è nella longlist dei film stranieri candidati agli Oscar. Ma intanto, da Bologna, che strada che ha fatto questo delicato e silenzioso lungometraggio scritto e diretto da Maura Delpero. Ci ha conquistato la sottile poesia del tema guerra e pace, i paesaggi alpini in cui si vedono i tocchi documentaristici, l’equilibrio tra antropologia e poesia nel descrivere le vite delle donne e quelle degli uomini così diversi in quel paese di montagna isolato da tutto in cui, all’improvviso, si affacciano la guerra e la contemporaneità.
Perfect Days
Wim Wenders, nei primi giorni di gennaio 2024, ci ha regalato questa perla di filosofia di vita che non siamo, naturalmente, riusciti a rispettare per il resto dell’anno. Wenders ha scelto di ritrarre ancora una volta un uomo solitario, ma a differenza di molti casi precedenti nella sua filmografia, questo Hirayama che sembra un cinquanta-sessantenne non è in cerca di qualcosa, e non si strugge sulla strada della ricerca. Anzi: i giorni perfetti del titolo sono quelli che lui vive ogni giorno, in momenti tutti uguali, più rituali che routinari. Guardare il protagonista di Perfect Days ripetere gli stessi gesti ordinati e pazienti ogni mattina ci ha donato per un’ora e mezza una pace tipo meditazione trascendentale. Ci rimane un mantra: now is now; next day is next day.
Non aspettarti troppo dalla fine del mondo
D’accordo, di questo film su Rivista Studio abbiamo parlato tanto. Lo abbiamo recensito quando è uscito in sala (grazie a Cat People, distributore indipendentissimo i cui fondatori intervistammo qui) e ne abbiamo discusso con il regista Radu Jude nel nostro ultimo numero dedicato all’underground digitale (che potete acquistare qui). E adesso lo inseriamo nella lista dei film e delle serie che ci sono piaciute di più quest’anno. Don’t believe the hype, dicevano quelli, e avevano ragione, certo. Ma ogni regola ha le sue eccezioni e Non aspettarti troppo dalla fine del mondo è l’eccezione alla regola. Potete non fidarvi di noi, non ci offendiamo mica. Ma come noi la pensano anche i giurati del Locarno Film Festival, che al film hanno assegnato il Premio speciale della giuria. E poi il pubblico di tre dei festival cinematografici più importanti del mondo, quello di New York, di Toronto e di Busan. E, ancora, i Cahiers du cinéma, che hanno piazzato Non aspettarti troppo dalla fine del mondo al settimo posto della loro lista dei dieci film più belli del 2023 (la discrepanza temporale è data dal fatto che in Italia nessuno ha voluto distribuirlo quando è uscito, cioè l’anno scorso). Il film è ancora in sala: fate in tempo a vedere se stavolta dell’hype è il caso di fidarsi.
Serie tv
L’amica geniale
Si è concluso il 9 dicembre, dopo 4 stagioni e 34 episodi, proprio nell’anno in cui si è parlato ancora più del solito della saga (al primo posto nella classifica del New York Times dei migliori libri del XXI secolo, ne parlavamo qui) il fedelissimo adattamento in forma di serie dei romanzi di Elena Ferrante. Nonostante le imperfezioni di questa ultima stagione diretta da Laura Bispuri (mentre nelle stagioni precedenti la regia, sempre perfetta e sorprendente, era di Saverio Costanzo, Alice Rohrwacher e Daniele Luchetti), nel complesso la serie ha convinto tutti. Merito anche del casting: nelle loro prime due “versioni” (da bambine e da ragazze) le due protagoniste, Lila e Lenù, non potevano essere più identiche alle Lila e Lenù dei romanzi, sia esteticamente che nella personalità. E poi: la scenografia a tratti metafisica (il rione, il tunnel), i costumi ricercatissimi, la meravigliosa e struggente colonna sonora di Max Richter. Ma una cosa, più di tutte: la capacità di aver tradotto perfettamente, anche sullo schermo, l’irresistibile, insopportabile, insuperabile merdosità di Nino Sarratore.
Baby Reindeer
Non ci sono più tante serie che hanno impatto sul dibattito culturale, pochissime riescono a catalizzare un’attenzione trasversale. In quella che è diventata una specie di piattaforma generale dello streaming (tutti ormai hanno più un abbonamento), la frammentazione in nicchie e sottonicchie, consente agli utenti di non incontrarsi mai. Baby Reindeer invece fa ancora parte di quel vecchio mondo che abbiamo conosciuto non molti anni fa, quelli in cui delle serie si discuteva e ce le si consigliava. Storia potentissima, autobiografica, irresistibile, con conseguenze nella realtà (la denuncia della “vera Martha” a Richard Gadd, autore e attore della serie e la morbosità con cui il “popolo di internet” ha cercato corrispondenze tra realtà e finzione), Baby Reindeer, «uno sfiancante duello fatto di ambivalenza, trauma, paura, insicurezza, ossessione, dipendenza, affetto, sfruttamento reciproco», scriveva qui Clara Mazzoleni, è stata la vera sorpresa televisiva dell’anno.
Shogun
Un premio vale quello che vale, ne potremmo discutere all’infinito, del valore dei premi. Diciotto premi valgono tantissimo e da aggiungere non c’è altro. Shogun è stato certamente l’evento televisivo dell’anno, anche solo per un fatto di dimensione: tutti questi soldi, tutto questo sfarzo, tutti questi premi (18 Emmy, mai tanti per una sola stagione di una serie tv) non si vedevano dai tempi del Trono di spade (se servisse una prova di quanto le serie tv non siano più un consumo culturale rilevante: quanto vi ricordate del Trono di spade?). E in effetti, a tutti è venuto facile parlare di Shogun come “Game of Thrones ma nel Giappone feudale”. Chi Shogun l’ha vista sa che il paragone è improprio: è stata un romanzo del 1975 e poi una miniserie di assurdo successo nel 1980. Semmai, quindi, è Game of Thrones a essere «Shogun ma in un mondo fantasy».
Ripley
Il talento di Mr. Ripley, il libro di Patricia Highsmith, è un capolavoro, che in quanto tale dovrebbe essere lasciato in pace, ma sfortunamente è anche una storia, come si dice, molto cinematografica, ragione per cui è stato adattato due volte al cinema, l’ultima con un film (Anthony Minghella) entrato nell’immaginario per varie, e non tutte nobili, ragioni (tipo la presenza di Fiorello), un film comunque colorato e pieno di cliché da turista in Italia, una specie di White Lotus ante litteram, che moltissimo doveva ai suoi tre attori di punta (Jude Law, Gwyneth Paltrow, Matt Damon) all’epoca al massimo dello splendore. L’operazione Netflix, quella di trasformarlo in una serie, induceva molte perplessità, sia per la decisione di serializzare una storia così, sia per la scelta dell’attore, il pur bravissimo Andrew Scott, che però appariva abbastanza fuori ruolo, se non altro per ragioni anagrafiche (il Ripley di Highsmith è un poco più che ventenne). Le perplessità non vengono fugate quando già dal primo frame si fa esperienza di un bianco e nero espressionista (anche se per il nostro Jacopo Bedussi, è più un bianco e nero da Dolce e Gabbana) e l’immaginaria Mongibello della Costiera si trasforma nella realissima Atrani. Ma in realtà c’è da convincersi abbastanza presto. Steven Zaillian, regista e autore della serie, trasforma il libro della Highsmith in qualcos’altro, una storia di fantasmi, si direbbe, ambientata in un’Italia fatta di paesaggi malinconici e interni sfarzosi, in cui Andrew Scott riesce a trovare la misura perfetta nell’essere la versione invecchiata e metafisica di un grande personaggio letterario. E alla fine, per paradosso, pure allontanandosene di più, la serie finisce per essere più fedele al libro della versione iperturistica di Minghella.
Arcane
Il 2024 è stato un anno mirabile per l’animazione: cinque dei dieci maggiori incassi al botteghino mondiale sono film d’animazione, Flow e Il robot selvaggio sono stati coccolatissimi dalla critica, l’anime di One Piece ha raggiunto vette di popolarità impensabili persino in un’industria ormai globale e multimiliardaria. In mezzo a tutto questo ben di Dio, c’è un titolo che è riuscito nell’impresa di essere qualcos’altro, qualcosa di più persino rispetto all’eccezionale concorrenza. Tra gli appassionati di animazione (e di videogiochi: è uno spin off, diciamo così, di League of Legends), già la prima stagione di Arcane era stata motivo di esaltazione. Con la seconda e ultima, arrivata su Netflix il 9 novembre, dall’esaltazione si è passati all’incredulità. Un po’ perché, dal punto di vista narrativo, questa seconda tranche di episodi sembra uscita dalla mente di una persona affetta da una gravissima dipendenza dai videogiochi; un po’ perché, dal punto di vista formale ed estetico, Arcane 2 è talmente estremo, radicale, allucinato che viene difficile persino definirlo animazione. Video arte sarebbe più corretto, forse. Certamente una cosa mai vista prima, anche nell’epoca in cui tutti guardiamo i cartoni animati.