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Non aspettarti troppo dalla fine del mondo è il film perfetto per quest’epoca di doomscrolling

Accolto benissimo in tutti i festival del mondo, adorato dai Cahiers du Cinéma, recensito entusiasticamente da tutta la critica: è arrivato finalmente anche in Italia uno dei film più discussi degli ultimi anni.

di Francesco Gerardi

Una delle frasi che Radu Jude, il regista di Non aspettarti troppo dalla fine del mondo, ripete spesso è «a me dei soldi non me ne frega niente». È una frase che non è vera quasi mai, questa, che è una posa quasi sempre: i soldi servono a tutti, ai registi più di tutti, quindi gliene frega per forza. Esistono ovviamente le eccezioni, e a vedere Non aspettarti troppo dalla fine del mondo il dubbio che Jude sia tra queste viene davvero: non ci si arricchisce a fare film come questo.

Si vincono premi, certo, e infatti Non aspettarti troppo dalla fine del mondo ha vinto il Premio speciale della Giuria alla scorsa edizione del Locarno Film Festival. E si diventa anche i beniamini della critica, a fare film così: Jude ha ricevuto applausi scroscianti alle prime di New York e Toronto, è stato scelto come voce rumena nella categoria Miglior film internazionale agli ultimi Oscar, i Cahiers du cinéma hanno piazzato il suo al settimo posto nella loro classifica dei dieci migliori film dell’anno. Ma i soldi? I soldi stanno altrove, poco conta che il New York Times dedichi a te e al tuo film un titolo bellissimo come “Radu Jude Brings TikTok’s Chaos to the Movies”. E infatti, in Italia abbiamo dovuto aspettare un anno per vedere in sala Non aspettarti troppo dalla fine del mondo: il film è stato distribuito nel nostro Paese lo scorso 14 novembre, e soltanto grazie a una minuscola casa di distribuzione che si chiama Cat People (qualche tempo fa abbiamo intervistato i fondatori, Alessandro Tavola e Raffaele Petrini, qui), fin qui specializzata nel riportare al cinema versioni restaurate di più o meno vecchi classici. Chissà se nemmeno a loro frega niente dei soldi.

Certo è che se c’è una cosa di cui il cinema ha bisogno in questo momento è il caos, che lo prenda in prestito da TikTok o no poco importa. Per la prima volta nella storia, quest’anno i dieci maggiori incassi al botteghino sono tutti sequel. Non aspettarti troppo dalla fine del mondo, appunto: solo cose già viste, spesso rifatte maluccio, perché una civiltà morente non può far altro che guardarsi (al)le spalle. Jude è un regista che in ogni intervista ripete che lui i suoi film li offre a tutti, anche se sa che verranno rifiutati da quasi tutti: si considera un regista popolare – nel senso: dal popolo, per il popolo, con il popolo – e soffre per la nomea di elitario che gli è toccata in sorte. E in effetti Non aspettarti troppo dalla fine del mondo sarebbe un film estremamente popolare (sempre nel senso di cui sopra) se soltanto non fosse così strano. Sarebbe popolare perché è un film sulla sensazione che tutti proviamo, qui al crepuscolo di noi stessi: la stanchezza, quel tipo particolare di stanchezza figlia dell’abbandono e dell’esasperazione.

Angela, la protagonista, è una videomaker sull’orlo di una crisi di nervi: lavora uno spropositato numero di ore quotidianamente, ogni giorno sopravvive per miracolo alla letale viabilità rumena, ha una dieta liquida fatta di caffè e RedBull, tra un appuntamento di lavoro e l’altro le riesce persino di infilarci una scopata con il suo amante o una visita al cimitero con la madre. Angela guadagna pochissimo, è sempre stanca, è sempre incazzata. Ma siccome non ci si deve aspettare troppo dalla fine del mondo, non bisogna aspettarsi manco che la sua sia una storia di emancipazione. Che fa Angela per sopravvivere? Quello che facciamo tutti: se ne sta chronically online, si inventa uno sboccatissimo avatar TikTok (Bobita, una sorta di terzogenito Tate, se possibile pure peggiore di Andrew e Tristan) attraverso il quale mandare affanculo tutti. Prima di ripartire per il prossimo lavoretto, sperando che questo le venga pagato in tempi ragionevoli perché le visualizzazioni di Bobita crescono ma ancora non bastano a sostenere le spese.

Bobita esiste davvero, è una creazione dell’attrice Ilinca Manolache (che interpreta Angela) che Jude ha deciso di inserire nel film perché gli piace «fare collage». È un punto di vista quasi archeologico, quello di Jude: è come se cercasse, più che di comporre, di ricomporre il suo stesso film, ed è come se lui stesso ne scovasse il significato soltanto alla fine, dopo aver passato ore e ore a giustapporre testi e immagini presi qua e là, trovati per caso, scoperti per sbaglio. O, forse, Jude lavora per la posterità, e in questo senso è il contrario di un archeologo: è uno storico, si preoccupa di far sapere a chi abiterà il mondo dopo la fine di questo che noi siamo stati qui e che questo siamo stati. Bobita è un esempio di questo metodo di lavoro: glielo suggerì il suo feed TikTok in chissà quale dei tantissimi giorni di lockdown, lui lo vide, gli piacque, se lo scordò e se lo è ricordato all’improvviso un altro giorno, mentre parlava a Manolache del film di cui sarebbe stata la protagonista (Non aspettarti troppo dalla fine del mondo, appunto).

Lui, Jude, dice che la sua mente ha sempre funzionato così, come una specie di sala montaggio organica: spezzetta il mondo in frammenti comodi da conservare e ricordare, e poi usa quei frammenti per costruire un mondo nuovo da raccontare nei film. È così che in Non aspettarti troppo dalla fine del mondo sono finiti aneddoti personali (le peripezie di Angela ricalcano quelle vissute dal 20enne Jude all’inizio della sua carriera), incontri casuali, scene intere di un film rumeno di quarant’anni fa (Angela va avanti di Lucian Bratu), pezzettini di TikTok, il dietro le quinte di una finta pubblicità progresso sulla sicurezza sul lavoro, un montaggio lunghissimo di croci lasciate in memoria della vittime della più mortifera strada rumena, black humor e satira sociale, rimandi più o meno volontari a Rossellini, Godard, Angela Ricci Lucchi, Yervant Gianikian e a Jude stesso, soprattutto al suo Cea mai fericită fată din lume, uno dei film-manifesto della cosiddetta Romanian New Wave. Tutto questo si lega con la storia della stanchissima Angela, o forse no, i collegamenti stanno nella mente di chi guarda. Se ci sono, Non aspettarti troppo dalla fine del mondo è narrativa. Se non ci sono, è il manifesto più perfetto dell’epoca del doomscrolling, perché è questa l’altra maniera di fruirlo: come una successione di testi e immagini di senso aleatorio, esattamente come quelli che passiamo buona parte del nostro tempo a far scorrere sugli schermi. E che spesso ci esaltano o ci fanno disperare, neanche noi capiamo perché.

È caos, questo, come dice quel titolo del New York Times? Certo che lo è, solo non nell’accezione esclusivamente negativa che siamo abituati ad attribuire alla parola. Il caos di Non aspettarti troppo dalla fine del mondo è più simile a quello che si intendeva nelle cosmogonie della Grecia antica: una massa oscura e palpitante, sotto la cui superficie si muovono le cose che saranno, che prima o poi verranno, e chissà, magari sotto la coltre oscura riposano anche le macerie di quello che è stato in un’altra iterazione dell’eternità. Cosa siano, queste cose, al momento non è dato saperlo: angeli che verranno a salvare il cinema? I demoni che lo malediranno? Jude ha detto che il suo prossimo progetto è un film girato tutto con l’iPhone in formato 9:16. Perché? Perché è il formato attraverso il quale la maggior parte delle persone che esistono oggi esperiscono il mondo. Perché da tantissimi è considerata, questa, la forma del brutto. Perché per Jude TikTok e Instagram possono ancora essere strumenti d’arte, inizio di un nuovo cinema vernacolare, e qualcuno deve pur cominciare a mettere le fondamenta di questa Decima arte fatta di schermi verticali e video di 30 secondi al massimo. Magari è così che il cinema si salverà, o forse Radu Jude è l’agente del caos, l’angelo del male, l’araldo dell’apocalisse venuto ad annunciarci che il cinema è morto – e quindi il mondo è finito – e queste sono le ceneri che ne restano, a noi la scelta se chiuderle in una teca e piangere o usarle per concime e sperare che qualcosa nasca. Sempre meglio, però, non aspettarsi troppo dalla fine del mondo.