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Anora, una Cenerentola brat

Il film di Sean Baker, nelle sale italiane dopo essersi aggiudicato la Palma d’oro al Festival di Cannes, è probabilmente il migliore del regista americano, con una straordinaria Mikey Madison.

di Silvia Schirinzi

«Dove sono i film maturi per persone adulte che raccontano storie umane, che non hanno esplosioni, supereroi oppure non sono horror?»: a chiederselo in un’intervista ad Associated Press è Sean Baker, vincitore della Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes con Anora, da poco arrivato anche nei cinema italiani. Il regista americano, classe 1971, è a ragione considerato uno degli autori più interessanti della sua generazione: nella sua filmografia ci sono titoli come Tangerine (2015), uno dei primi film a essere interamente girato con l’iPhone, The Florida Project (2017) e Red Rocket (2021) tra gli altri, storie che lo hanno consolidato come un regista interessato all’America marginale e ai suoi, spesso caotici e sconclusionati, personaggi. Anora, per la stampa specializzata, è probabilmente il suo film più compiuto, in cui Baker racconta l’avventura di una spogliarellista di ventitré anni, che si chiama appunto Anora ma preferisce il diminutivo Ani, alla ricerca della sua, personale, versione del sogno americano. A interpretarla c’è la splendida Mikey Madison, che potreste aver visto in Once Upon a Time… in Hollywood (2019), Scream (2022) o nella serie tv Better Things (2016-2022). Anora è diviso in tre atti: il primo ricorda la formula del coming of age movie, con protagonisti due ragazzi poco più che ventenni che fanno festa, fanno sesso e pensano di innamorarsi.

Nel club in cui lavora, che si chiama “Headquarters” e si trova a Brighton Beach, in una New York periferica, acquatica e popolata da immigrati russi e dell’Est Europa, Ani incontra Ivan (che ha il volto di Mark Ėjdel’štejn), giovanissimo cliente con il quale intrattiene una relazione che diventa sempre più complicata. Ivan, detto Vanya, è russo ed è molto ricco, anzi ricchissimo: è il figlio, come scoprirà Ani con una ricerca Google da lui stesso suggerita, di un oligarca, il cui potere, influenza e immensa disponibilità economica fanno da sfondo minaccioso a tutto il film. Di cosa si occupa il padre di Ivan? Come quella ricchezza ha segnato e storpiato il suo rapporto con il figlio? Baker non ce lo dirà per tutto il film: ci basti sapere che Vanya è un ragazzo esuberante, che vive in una lussuosissima casa che guarda uno scorcio di baia molto più bella di quella che fa da sfondo ai luoghi quotidiani di Ani, un ragazzo che ha fatto amicizia sia con altri figliocci ricchi come lui sia con coetanei normali, che però parlano la sua lingua natia, con i quali si diverte, spesso sponsorizzando cene, viaggi, bevute e uscite nei club.

In tutti i rapporti che Vanya intrattiene i soldi sono in qualche modo centrali: intuiamo che è abituato ad avere gente intorno che spera di ricevere qualcosa da lui, che in una sola serata o weekend a Las Vegas può spendere cifre proibitive o permettersi di riempire una piscina di Kool-Aid (una specie di succo di frutta) per il solo gusto di farlo, fregandosene degli 87 mila dollari di danni. È insomma un ragazzino viziato, che vuole scappare quanto più possibile dalla famiglia che vuole inchiodarlo alle sue responsabilità di nepo baby. Epperò è anche generoso, larger than life, adorabile con quei suoi capelli spettinati e i look spacconi, appositamente studiati dalla costumista Jocelyn Pierce mixando brand del lusso europei e americani ma anche pezzi di streetwear e altri di designer russi.

È con quel Vanya che Ani vive una manciata di settimane all’ultimo respiro, accettando dapprima una discreta cifra per essere la sua fidanzata temporanea fino a compiere, ubriachi di sostanze e sesso impacciato, l’estremo gesto che segnerà l’inizio del secondo atto: un matrimonio a Las Vegas, celebrato con lei in bustino e shorts di jeans e lui in blazer e pantaloncini da basket. Ani e Vanya sono giovani, bellissimi, hanno tutta la vita davanti: combatteranno per la loro storia d’amore? È qui che entrano in scena i personaggi secondari di questa storia, ovvero gli scagnozzi del padre di Ivan, il cui compito è annullare quest’unione disgraziata che già sta portando vergogna a una delle famiglie più potenti e rinomate della grande madre Russia. È qui che Anora esce dai privé e dalle camera da letto con le lenzuola di raso rosso per tornare nelle strade di Brighton Beach, alla ricerca proprio di Vanya il quale, e questo era abbastanza palese, non ha nessuna intenzione di combattere e preferisce scappare di fronte alle responsabilità delle sue azioni.

Ani è invece sempre presente, per tutto il film, alle volte prendendosi tutto il frame della telecamera: è magnetica, è incazzata, è confusa, è «un animale» quando morde e prende a botte quelli che vede come i bruti che la separano dalla realizzazione della sua vita, dallo scacco matto, lei che pure all’inizio mica ci credeva, che pensava di saper contrattare perché è abituata ad avere le mani degli uomini addosso, lei che alla prima proposta di matrimonio risponde «Non si dicono queste cose per scherzo alle persone come me» ma che alla fine si sposa lo stesso, perché ha ventitré anni e forse la ruota sta per girare davvero. Per interpretare il ruolo di Ani, Madison ha frequentato per mesi la scena dei club di Brighton Beach, le stripper e le sex worker di quella parte di città, studiandone l’accento, le movenze, i look (c’è anche stata una prima speciale, in cui l’attrice è stata applaudita con le “Pleaser”, le scarpe che si usano per fare pole dancing) e molte di loro sono state chiamate a recitare nel film, com’è abitudine di Baker, che spesso ha scelto attori senza esperienza nei suoi film. Conosciamo Ani con pochissimi abiti addosso, due fiocchi tatuati sul retro delle cosce – «Come una moderna club girl», ha spiegato Madison – e sempre a suo agio nella nudità, ma più la sua storia si incasina più lei si veste, anzi si infagotta, come a pararsi meglio dai colpi dell’atto finale.

Sparito Vanya, Ani è alla mercé dei suoi bodyguard improvvisati, i due fratelli armeni interpretati da Karen Karagulian e Vače T’ovmasyan, e di un taciturno tirapiedi, Igor, che ha il volto impassibile di Jurij Borisov e che a un certo punto ci tiene a precisare che no, non è un “Gopnik”, uno di quelli all’ultimo gradino della scala sociale, white trash dell’ex Unione Sovietica, anche se non ci dice mai, neanche lui, com’è ci è finito in quella situazione. È così, d’altra parte, che Baker scrive tutti i suoi personaggi: più che persone normali sono archetipi di persone normali, così come archetipiche sono le storie che vivono, non ci sono esplosioni, supereroi o scene action, al limite una corsa in macchina che diventa sempre più disperata, non c’è la suspense dell’horror ma quella sensazione che ti prende allo stomaco quando sai che sta per andare tutto a puttane. C’è anche una certa tristezza, e tanta solitudine, c’è un po’ del Fellini de Le notti di Cabiria, che Baker ha citato tra le ispirazioni, ci sono un ragazzo ricco e una ragazza povera, ed è la storia più vecchia del mondo.