Cultura | Cinema

Perfect Days, come la routine può salvare il mondo

Probabile candidato all'Oscar per il Miglior film internazionale, Wim Wenders torna con un'opera ambientata in Giappone che racconta il valore fondamentale delle piccole abitudini quotidiane.

di Davide Coppo

Faccio una fatica tremenda ad avere una routine, e ciononostante cerco di impormela. Parlo delle mattine, nello specifico: le routine mi sembrano adatte alle mattine, e non alle sere, che sono parti della giornata più sfilacciate, in cui al contrario capita di seguire le onde dell’intuizione, delle opportunità, degli incontri. Io queste onde le seguo spesso più del dovuto, ed è per questo che la mattina faccio questa fatica tremenda a rispettare la mia routine. Sveglia, poi esercizi, poi una spremuta se le arance sono di stagione, il caffè e intanto la radio, poi mezz’ora o un’ora di lettura prima di cominciare a lavorare. Per fare questo dovrei svegliarmi circa un’ora e mezza prima dell’inizio della mia giornata lavorativa, e ci riesco poche volte. Quando ci riesco, tuttavia, sento una pace e una serenità che solo quella routine mi dà. Perché per un’ora e mezza di vita ho dominato il tempo, l’ho tenuto stretto alle redini, e non me ne sono fatto travolgere. Succede così poco, in questa vita.

Guardare il protagonista di Perfect Days di Wim Wenders ripetere gli stessi gesti ordinati e pazienti ogni mattina, nella prima mezz’ora del film, riesce a dare una sensazione simile, per osmosi. Non solo a me, mi è sembrato, ma a tutta la sala del cinema che è rimasta muta, e immobile, e penso quindi meravigliata, per le due ore di una proiezione quasi del tutto muta, se si eccettuano le poche parole smozzicate da Hirayama, e le belle canzoni della colonna sonora: Lou Reed, Patti Smith, gli Animals, Van Morrison.

Wenders ha scelto di ritrarre ancora una volta un uomo solitario, ma a differenza di molti casi precedenti nella sua filmografia, questo Hirayama che sembra cinquanta-sessantenne non è in cerca di qualcosa, e non si strugge sulla strada della ricerca. Anzi: i giorni perfetti del titolo sono quelli che lui vive ogni giorno, in momenti tutti uguali, più rituali che routinari. La mattina, nella sua piccola casa a due piani di Tokyo, sistema la camera e si prende cura di sé stesso. Di giorno guida per la città il furgoncino Daihatsu da efficientissimo addetto alla pulizia dei bagni pubblici (per chi non li conoscesse: sono un’eccellenza della capitale, e molti sono stati disegnati da architetti importanti), e si rivolge a quella pulizia con una precisione e una dedizione che hanno del religioso. Il pomeriggio un pasto nello stesso ristorante, allo stesso tavolo di sempre. Poi a lavarsi in un sentō, un altro tipo di bagno pubblico per l’igiene personale, e la sera di nuovo a casa. Innaffia i molti bonsai di acero giapponese prima di leggere un libro acquistato nella sua libreria dell’usato preferita: William Faulkner, Patricia Highsmith, Aya Koda. Il fine settimana va a sviluppare il rullino della Olympus Myu-1 con cui fotografa ogni giorno le chiome degli alberi, e poi la lavanderia a gettoni, stavolta in bicicletta, e infine pulire il tatami con uno strano metodo fatto di pezzi di quotidiano bagnati e strofinati sulla paglia.

Succede poco altro, nella vita di Hirayama e in tutte le due ore girate da Wenders. L’arrivo di una nipote lontana, che trascorre con lui tre giorni, apre uno spiraglio su una sua misteriosa vita precedente, che intuiamo diversa dall’attuale, e forse rinnegata o abbandonata. Una sorella, madre della ragazza, estremamente ricca ma con cui è in rapporti gelidi. Non c’è nessuna epifania, i binari non scartano. Dopo la visita, i giorni perfetti riprendono a scorrere come prima, impreziositi appena da quella deviazione. Sembra noioso, a scriverlo. La verità è che è ipnotico.

Durante e dopo i lockdown imposti dalla pandemia ci chiedevamo quando sarebbe apparsa la prima arte dedicata a quei mesi assurdi di isolamento e di morte. In un certo senso, Perfect Days è uno di quei frutti. Ha raccontato, Wenders, che nel 2020 venne invitato a Tokyo da Koji Yanai (produttore esecutivo del film) mentre la città era ancora intontita nel difficoltoso risveglio dal lockdown, il più lungo del mondo. Rimase stupito di quanto la ripresa della vita, in Giappone, fosse diversa da quella che aveva visto in Germania: lì, ha detto recentemente al New Yorker, «la sensazione di fare qualcosa per un bene comune era sparita». I parchi cittadini venivano presi d’assalto senza cura, devastati. Per le strade si accumulavano degrado e rifiuti. Un edonismo liberatorio ma distruttivo aveva cancellato ogni beneficio collaterale di quei tre mesi di raccoglimento e angoscia. In Giappone no. Yanai gli aveva proposto di girare un cortometraggio sui bagni pubblici della capitale giapponese, ma Wenders, stupito dall’ordine e dalla pulizia in cui si ritrovava il Paese, decise di mostrare qualcosa di più. Che raccontasse di quel bene comune. Ci ha costruito una storia intorno, ma solo dopo.

Si potrebbe obiettare: ma se Hirayama è un individuo essenzialmente solitario, quasi isolato dal resto della società, come è possibile che possa simboleggiare una manifestazione collettiva? Ma attraverso le azioni del suo protagonista, Wenders cerca di mostrare come la cura dell’individuale possa poi ricadere sul collettivo: non c’è contrasto tra la dimensione personale e quella generale, nelle azioni di Hirayama, anzi senza il successo della prima non potrebbe esistere la seconda: se non si prendesse cura così bene delle proprie musicassette, tanto da riuscire a farle suonare perfettamente anche dopo 30 anni, non sarebbe in grado di prendersi cura con tanto amore dei bagni pubblici. Il cui trattamento, tra l’altro, rappresenta il grado più difficile dell’incontro tra un singolo e un collettivo: è la più intima delle architetture, il bagno pubblico, perché la più schifosa, quella in cui ci troviamo faccia a faccia con il peggior tabù della nostra società. I nostri stessi scarti. Hirayama rimane in un contatto così stretto con il mondo fenomenico da far scaturire da lì la sua etica.

E si torna allora al lockdown. In un certo senso, questa dedizione all’atto pratico – la panificazione, l’esercizio fisico, la lettura, la cucina – che alcuni sono riusciti a coltivare durante gli anni di restrizione, non è stata un gioco e un passatempo, o meglio, non soltanto. La vita lenta, precisa e ordinata non era solo una salvezza individuale dalla noia, ma un modo di inventarsi una disciplina interiore.

Wenders ha fatto quindi un film di azioni molto pratiche ma con un significato molto spirituale. Attraverso un’adesione quasi maniacale – anche se la mania nel senso peggiore del termine non compare mai sul volto del protagonista – al mondo fenomenico Hirayama mostra di poter accedere a una dimensione invece noumenica, inconoscibile altrimenti. Ora et labora, potremmo pensare nella nostra versione cattolico-occidentale: sì, non ci siamo molto lontani, perché il paragone non è tra le religioni, ma tra il mondo distratto degli ultimi dieci anni e un altro, più difficile, più comune un tempo ma ancora possibile oggi. La meraviglia del fare non si oppone all’ozio, qui. È invece la precisione che si oppone alla superficialità. Le cose fatte bene a quelle abbozzate e tirate via. Quante lezioni, e quante applicazioni, in questa dicotomia.