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La zona d’interesse: un modo nuovo per mostrare il Male assoluto

Raccontando la Shoah senza mostrarla, il film di Jonathan Glazer si rivela un'esperienza cinematografica potentissima.

di Davide Coppo

La Polonia, d’estate, è un posto meraviglioso. Fatta eccezione per i campi di sterminio. L’iconografia classica del massacro nazista si è quasi sempre concentrata sugli inverni innevati e gelidi («ad Auschwitz c’era la neve, il fumo saliva lento»), forse perché quei campi bianchi e all’apparenza silenziosi sembravano riflettere al meglio il concetto di inconcepibile. Il primo a rompere questa narrazione, nel 1985, fu Claude Lanzmann. La prima scena di quel capolavoro che è Shoah si apre su un placido ruscello del nord del Paese, dove tutto è verde di foglie, azzurro di cielo limpido. Gli uccelli cantano. Poi si vede una pineta, una strada sterrata, e il protagonista di questa scena che cammina piano, si guarda intorno, infine si ferma. Annuisce più volte. Dice: «È difficile da riconoscere, ma era qui. Qui ci bruciavano le persone». Parla di Chelmno. C’erano due grandi forni, dice Shimon Srebnik, che venivano riempiti di corpi, «e le fiamme arrivavano fino al cielo».

Si dev’essere ispirato anche a queste scene Jonathan Glazer per girare La zona d’interesse, film liberamente ispirato al libro omonimo di Martin Amis (Einaudi, traduzione di Maurizia Balmelli), candidato all’Oscar in 5 categorie e dal 22 febbraio nelle sale italiane, che mostra come, anche dopo ottant’anni, si possano trovare nuovi modi, ed estremamente efficaci, per raccontare lo sterminio più efferato di sempre. Non è ambientato a Chelmno, ma qualche centinaio di chilometro più a sud, ad Auschwitz. Il campo di sterminio più famoso di tutta la galassia annichilatrice tedesca però non si vede mai: tutto accade nella “zona di interesse”, ovvero la casa di Rudolf Höss (Kommandant di Auschwitz dal 1940 al 1943, fedele esecutore della Soluzione finale in Polonia e ideatore della Operation Höss nel 1944, per la cancellazione totale degli ebrei d’Ungheria) e i dintorni. Docili ruscelli argentati, campi rigogliosi in cui saltano i conigli, boschi di betulle e di querce. Un posto bellissimo.

La villetta degli Höss non è solo vicino al campo: è confinante. Condivide, con la fabbrica dello sterminio, lo stesso muro di cinta. È una casa spaziosa, ma quasi tutta la vita si svolge all’esterno, nel giardino confinante. La moglie Hedwig ha abbellito quel muro grigio, separatore tra il mondo e il suo contrario, con cespugli di ortensie, rampicanti e arbusti da bacca, aiuole di gladioli e stelle alpine. È vero: Höss si era circondato di piante, fiori, bellezza. Intorno ai tavoli da pic-nic, su cui grigliare la domenica a pranzo, una canoa di legno viene ingrassata e lucidata per rinvigorire lo scafo. Si può andare giù al torrente a guidarla, ma c’è anche una piccola piscina in casa. Qui fanno il bagno le figlie di Höss e i loro amici, mentre i genitori fumano e bevono birra poco distanti, rilassati sulle sdraio. Anche i camini fumano, oltre lo steccato di filo spinato. Eruttano polvere di corpi carbonizzati, che verrà poi usata per concimare meglio le rose. I camini sono alti più degli alberi, più alti di tutto. Il cielo è striato di quelle nuvole grigie, e la sera bisogna lavarsi i denti per bene per pulirsi via dalla bocca la rimanenza pulviscolosa dei morti gassati che inevitabilmente si deposita sulle gengive. Sono diecimila ogni giorno, nei periodi più intensi.

Sembra una storia assurda, costruita per iperboli anche estetiche. Una cosa tipo Hansel e Gretel, la fiaba che infatti il Kommandant del film legge alle bambine per addormentarle mentre i forni crematori illuminano di lampi rosso fuoco il cielo notturno. Glazer, come detto, non mostra mai quello che succede all’interno del campo: ma il campo invade comunque tutto ciò che c’è fuori dai suoi confini, impossibile da contenere. Glazer tuttavia non può rendere allo spettatore l’angoscia più forte e penetrante che, ci dicono le testimonianze, esalava dai campi nazisti: il tanfo di morte. Allora lavora con le luci e i rumori, e in un’operazione che chiaramente esce dal cinematografico per entrare nell’artistico, ci riesce: le notti dalla villa di Höss le nuvole che passano a coprire la luna sono scarlatte come lava sulla pelle di un vulcano, e il silenzio non esiste mai, in nessuna ora del giorno o della notte. Il rumore di pistolettate, dei forni in continuo brontolio, delle urla di ebrei e di nazisti, dell’instancabile macchina industriale dell’uccisione è un tappeto sonoro che, nelle due ore di film, strizza lo stomaco fino al disgusto, porta il cervello sull’abisso della pazzia. Non so cosa succederebbe, se Glazer avesse davvero realizzato una versione “director’s cut” da quattro, cinque ore. Forse davvero, come per L’Esorcista nel 1973, avremmo bisogno delle ambulanze fuori dalle sale.

Maneggiare in questo modo l’arte cinematografica per portare il pubblico al disgusto significa saperci fare, significa aver fatto quello che si dice, davvero e non per le solite esagerazioni contemporanee, un capolavoro. La rappresentazione del Male – qui inteso come straordinarietà, e non banalità – è una delle più difficili tra le ambizioni artistiche umane. Soprattutto di un male così assurdo, lontano da tutto ciò che c’era stato prima e che ci sarà dopo. Assurda l’operazione e le sue dimensioni, assurdi i protagonisti, come Höss, e come anche Franz Stangl, un altro importante Kommandant, questa volta di Treblinka, le cui memorie raccolte dalla giornalista Gitta Sereny nel libro-intervista In queste tenebre (Adelphi, traduzione di Alberto Bianchi) ho riletto dopo aver visto il film. Come il collega di Auschwitz, anche Stangl ha un forte desiderio di questa bellezza così kitsch. Mi verrebbe da dire che tutto questo è “così tedesco”, ma sbaglierei – forse. Eppure proprio Martin Amis, nel libro da cui il film è tratto, fa dire a uno dei personaggi: «Mi chiedevo se la storia del Nazionalsocialismo si sarebbe mai potuta svolgere in una qualunque altra lingua». Stangl, come Höss, si muoveva a cavallo nel fango polacco, e assisteva allo scarico dei vagoni merci ripieni di ebrei moribondi destinati alla Selektion (in media: 80% al gas, 20% al lavoro) vestito di un’elegante uniforme bianca. Alla domanda di Sereny sul perché di quel particolare abbigliamento, quando un’uniforme poteva bastare, Stangl rispose: «Faceva caldo».

I ricordi di Stangl – che “lavorò” anche nella Risiera di San Sabba, a Trieste, e che scappò poi in Brasile e venne catturato nel 1967 – sono un viaggio allucinato in questo camuffamento: la rampa di arrivo, a Treblinka, proprio come il giardino del Kommandant di Auschwitz, era stata mascherata da stazione ferroviaria, con aiuole colorate e balconi adorni di fiori. Nella villetta di Stangl c’era un piccolo zoo. Lui ricorda: «Avevamo una quantità di splendidi uccelli, e panchine, e fiori. L’avevo fatto disegnare da uno specialista di Vienna». «È difficile farne oggi una descrizione adeguata», dice poi, «ma il posto diventò veramente bello».

Si esce dall’esperienza di La zona d’interesse sconvolti, ammutoliti. La Shoah non è uno sterminio più meritevole di memoria di altri, ed è scemo fare paragoni. Ma è legittimo affermare che fu unico nel suo genere. Fu, soprattutto, uno sterminio enorme pur essendo appena iniziato. In che senso? Una testimonianza di Richard Glazar, che fu un Sonderkommando proprio a Treblinka (le unità di ebrei impiegate dai nazisti per accompagnare, mentendo, i nuovi arrivati alle camere a gas, e poi portare i cadaveri ai forni), recita: «Il mondo non si è reso conto di quanto perfetta fosse quella macchina. Fu soltanto la mancanza di trasporti, a causa delle esigenze belliche, che impedì ai tedeschi di uccidere masse di gran lunga maggiori; Treblinka da sola avrebbe potuto uccidere sei milioni di ebrei e altri ancora. Con adeguati mezzi ferroviari, i campi di sterminio tedeschi in Polonia avrebbero potuto uccidere tutti i polacchi, i russi, e gli altri europei orientali che i nazisti avevano progettato di uccidere».

Il film di Jonathan Glazer riesce a mostrare sullo schermo, con questa operazione astuta e geniale di mostrare altro, l’unicità del Terzo Reich e della sua volontà di morte. Non a spiegarla, però: rinuncia del tutto a farlo, ed è qui che riesce davvero. «Quanto è avvenuto non si può comprendere», scriveva Primo Levi in un’introduzione a La tregua. Perché comprendere, continuava, significa anche etimologicamente contenere.