Cultura | Cinema
Per uomini e donne The Substance non è lo stesso film, anche se è sempre bellissimo
Due redattori di Studio discutono del film di Coralie Fargeat e del perché viene vissuto e interpretato così diversamente.
Francesco: Cominciamo dicendo che il film è piaciuto moltissimo a entrambi. Solo che, parlando, abbiamo scoperto che ci sono piaciuti due film diversi: tutti e due si intitolano The Substance. Non è una cosa che è successa soltanto a noi, però. Il film in diversi Paesi è uscito da un po’ ed è già diventato oggetto di un trend social. Il trend funziona più o meno così: una ragazza – almeno, è quasi sempre una ragazza nei video che ho visto io – chiede a persone che hanno appena visto il film cosa ne pensano. I ragazzi dicono tutti la stessa cosa, e cioè che è un bellissimo horror, ispirato dai classici del genere. Anche le ragazze dicono tutte la stessa cosa, però diversa da quella dei ragazzi: cioè che sì, va bene, è un horror ma è soprattutto una metafora efficacissima e potentissima. Metafora di cosa, essendo io un uomo, lo lascio dire a te.
Clara: Penso che la metafora sia molto chiara, anzi, è talmente evidente da essere banale. Perfino i maschi possono capirla: il film parla della “relazione tossica” che molte donne hanno con il loro corpo, e in particolare con l’invecchiamento. In questo caso la donna è una star di Hollywood, certo, e credo che chi lavori con la propria immagine (modelle e modelli, attori e attrici, influencer, a prescindere dal genere) possa sentirsi ancora più coinvolto, ma essendo appunto una metafora rappresenta anche le donne “normali”, rappresenta anche me (che del mio difficile rapporto con la bellezza, e in particolare la bellezza su internet, ho scritto qui) e le altre ragazze e donne che riempiono le sale. Quante di noi vorrebbero che esistesse una sostanza capace di farci diventare (o sentire) più belle? E a quante di noi questa ossessione per la bellezza ha rovinato la vita? È una metafora facile, telefonata: ma è espressa così bene che la sua semplicità, che qualcuno interpreta come superficiale, o addirittura cringe, per me invece è potente.
Francesco: La ragione per la quale vedo la metafora ma non ne avverto la potenza è proprio questa: The Substance non fa nulla di quello che l’operazione metafora prevede. Non prende un termine proprio e lo sostituisce con uno figurato. È un film sfrontato sia in senso estetico – su questo torniamo più in là – che contenutistico. Invecchiare fa schifo, essere giovani è meglio, il testo dice questo, quasi letteralmente con queste parole. Per me, un messaggio così esplicito, che viene poi ripetuto incessantemente e violentemente per due ore e mezza, perde presto qualsiasi significato. Lo colgo, lo elaboro, lo acquisisco e lo archivio. E poi inevitabilmente finisco a concentrarmi su altro: per questo per me il film è soprattutto un horror, ispirato, magistrale, elegantissimo (per quanto sembri strano usare questo aggettivo per questo film) nel modo in cui maneggia riferimenti e citazioni, mescolandole in un genere nuovo e che secondo me diventerà ricchissimo nei prossimi anni. Beauty horror più che body horror, lo chiamerei, ma comunque horror, cioè il genere in cui le metafore sono di grana grossa. Io ho passato il film a trovare un significato alternativo, forse anche per una mia tendenza a pensare che il significato stia sempre nel sottotesto e mai nel testo. E mi sono detto: sarà un film sulla malattia mentale, Elisabeth Sparkle è una moderna Jack Torrance, la sostanza è il suo Overlook Hotel, King scriveva di alcolismo e Coralie Fargeat scrive ai tempi dell’Ozempic ma la dipendenza tale resta, e d’altronde i rimandi a Shining sono evidenti. Oppure: sarà un film sul vizio della società di creare dei freak (e infatti Todd Browning e David Lynch sono ovunque in questo film) con cui baloccarsi per star meglio, poco cambia tra applaudirli e ucciderli. Ho anche pensato: alla fine il film ha una struttura favolistica, si chiude con la morale, “attenzione a fare questo perché potrebbe succedere questo”, con tanto di mostro morto ammazzato. Addirittura sono arrivato a dirmi che forse il film non parla di bellezza ma di morte, in senso epicureo: quando lei c’è noi non ci siamo, quando noi ci siamo lei non c’è, proprio come funziona il rapporto tra Elisabeth e Sue. Ma la metafora che dici tu? A parte che proprio non la vedo, non è una metafora. C’è un messaggio che dice, di nuovo, essere vecchi è brutto, essere giovani è meglio. E ok, siamo tutti d’accordo, maschi e femmine, ma non è che posso contemplare la cosa per due ore e mezza.
Clara: Non è vero che siamo tutti d’accordo. Non c’è paragone tra il modo in cui (è stupido generalizzare, ma concediamocelo per il bene della discussione) un uomo e una donna vivono l’invecchiamento. Per motivi estetici, sociali, biologici, ecc. Se per certi uomini l’invecchiamento può essere sgradevole, molte donne lo vivono (e sono condizionate a viverlo, aggiungerei) come una tragedia. Se la tragedia che vedo messa in scena la vivo sulla mia pelle, mi tocca di più che se non la vivo e non la vivrò. Nel trend che citavi molte ragazze spiegano che il messaggio non arriva agli uomini (o meglio: razionalmente arriva forte e chiaro, perché come dici tu è urlato e didascalico, ma emotivamente non li tocca) perché non deve arrivargli: non sono loro i destinatari. Tu dici che il messaggio è: invecchiare è brutto, essere giovani è meglio. Ma le donne pensano: essere (o sembrare) giovane è l’unica modalità in cui la vita può avere senso. Non è un pensiero sano, ovviamente. Questo pezzo di Dazed si interroga sul perché proviamo compassione per i tossicodipendenti e gli alcolisti, ad esempio, ma odiamo chi è dipendente dai ritocchi estetici, come se non fosse anche quello un disturbo. E tornando alla metafora, per me lo è: cosa ho in comune io con una splendida star di 50 anni che decide di assumere una sostanza misteriosa che le permette di vivere a metà (una settimana l’una, una settimana l’altra) con una “versione migliore” di sé e poi imputtana tutto perché la vita da giovane diventa l’unica che vuole vivere? Niente, dirai tu, e invece io ti dirò che mi sembra la vita di tante di noi, disposte a iniettarci robe di cui ancora non conosciamo gli effetti a lungo termine per migliorare il nostro aspetto. E non siamo manco famose!
Francesco: Secondo me dice tantissimo di questo film il fatto che tu lo definisci tragedia – o almeno, vedi tragicità nell’arco narrativo della protagonista – e io invece l’ho vissuto quasi come una commedia. Al di là del disgusto provato in certe scene, The Substance mi ha fatto ridere, più che altro. Ridere come mi fanno ridere i vecchi horror di Sam Raimi o di Peter Jackson, che infatti sono tra le ispirazioni che Fargeat ha citato espressamente. Ritorno però un attimo sulla questione della colpevolizzazione: tra me e la protagonista, e quindi tra me e quella che tu definisci la metafora del film e il messaggio custodito al suo interno, si è frapposta questa barriera. Solo adesso mi rendo conto di aver pensato che Elisabeth fosse causa del suo mal e che le toccasse piangere se stessa. E poi c’è la questione del casting: Demi Moore, finché non viene coperta da costumi e protesi, è eccezionale. Ma, in quelle che riconosco essere le scene più drammatiche del film, quelle in cui il disprezzo le distorce il volto alla vista di quello stesso volto riflesso nello specchio, io non riuscivo a non pensare: ma che, veramente? Ma come può una donna così incredibilmente bella comportarsi così? Come può non vedere quanto è bella? Come può, davanti a quello stesso riflesso che io sto ammirando, pensare “quanto sono brutta”? Ragione per la quale per me The Substance alla fine è stato un film estremamente “freddo”, diciamo così. Emotivamente non mi ha nemmeno sfiorato, ma mi ha esaltato dal punto di vista formale, estetico, direi artistico.
Clara: Anch’io ho riso, moltissimo! Del resto più la situazione diventa tragica, più fa ridere. È un film divertentissimo. Ma ogni scena, anche la più comica, nasconde una sfumatura malinconica, per il modo in cui rappresenta l’assurda realtà in cui vive chi è in guerra con il proprio aspetto, e il modo in cui la società promulga la bellezza femminile come unica religione a cui essere devote. La scena di cui parli tu è la più citata su TikTok, tantissime ragazze hanno detto di aver pianto o di essersi immedesimate o di aver proprio vissuto quel momento in cui ti senti “troppo brutta per uscire di casa”. Ti darò una notizia sconcertante: molte di quelle ragazze sono bellissime. È difficile far capire a un uomo quanto sia severo, folle e spietato lo sguardo di una donna su se stessa, e quanto poco, davvero pochissimo, ci importi del giudizio maschile. Miliardi di uomini sognerebbero di uscire con la Demi Moore/Elisabeth che si guarda in quello specchio, lei lo sa benissimo, ma non ha importanza. Ha importanza il confronto che fa con una se stessa migliore, con un’immagine che esiste nella sua mente e che la fa sentire sconfitta, patetica, disperata, orrenda (si chiama dismorfismo corporeo: è quello che succede ad esempio a una malata di anoressia gravemente sottopeso che si guarda allo specchio e si vede “grassa”) oppure quasi invisibile, come nella scena della moto (e lì sì, lo sguardo maschile, o meglio, la sua assenza, ha la sua importanza).
Francesco: Penso che qualsiasi uomo sulla faccia della Terra vorrebbe uscire con la Demi Moore/Elisabeth di quella scena. E penso che la maggior parte degli uomini siano come quell’ex compagno di scuola che lei incontra in un’altra scena: consapevoli di essere troppo brutti anche solo per sognare un appuntamento con una donna talmente bella. Credo che tutti gli uomini farebbero qualsiasi cosa se in cambio arrivasse una telefonata da Demi Moore/Elisabeth che dice di voler andare a cena fuori assieme. Qualsiasi cosa, tranne iniettarsi the substance, e penso che questa sia davvero la distanza che separa queste due metà del pubblico del film. Tra l’altro, quando in una precedente e privata conversazione io ti ho detto che secondo me questo era anche un film sul male gaze, tu mi hai dato sostanzialmente del deficiente, dicendo che per una donna l’occhio di un uomo non è altro che l’ennesimo specchio in cui vedono riflessa l’immagine di sé stesse che loro, le donne, hanno già in mente, e non certo il desiderio o l’adorazione o il disprezzo o il disinteresse dell’uomo. In quella circostanza avevi anche ragione a darmi del deficiente, ma poi ci ho riflettuto e ribadisco: secondo me in un certo senso è anche un film sul male gaze, questo. O, meglio, è un film che piega il male gaze al suo scopo. Il corpo di Margaret Qualley è messo in scena in maniera così volgare ed eccessiva (continui primissimi piani sulle curve, un montaggio tanto veloce quanto ripetitivo, la canzone “Pump it Up” che va in loop in un remix se possibile persino più tamarro della versione originale) che ha fatto venire la nausea persino a me che la trovo attraentissima. Penso sia il modo di Fargeat di dire: è questo che succede a essere guardate come voi ci guardate, che il nostro corpo ci viene prima a noia e poi ci provoca disgusto.
Clara: Quello che dici è la dimostrazione perfetta di come funziona il male gaze: a me quelle inquadrature hanno provocato solo godimento, perché vedevo prima di tutto uno splendido corpo, una splendida pelle, omogenea e soda, anche sexy, certo, ma non solo. Io non penso che a una donna bella il suo corpo venga a noia o provochi disgusto perché gli uomini lo sessualizzano: penso che molto più probabilmente siano gli uomini a venirle a noia e provocarle disgusto :) Su TikTok c’è un trend che fanno le ragazze con un seno molto abbondante: cercano di spiegare che no, non stanno ostentando il loro seno, non sono “volgari”, stanno semplicemente vivendo la loro vita con un seno molto grande, evitando di nasconderlo. Vallo a spiegare a un uomo etero.