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Il Ripley di Patricia Highsmith è ancora insuperabile

Le tante discutibili scelte alla base del nuovo adattamento Netflix non rendono giustizia al bellissimo romanzo del 1955.

di Jacopo Bedussi

Internet è un posto pieno di gente orrenda. Personalmente credo che i peggiori siano quelli che difendono anche con le armi se necessario una fantomatica ricetta originale della carbonara. E il guanciale e il pecorino e la carbo-crema e vai a sapere cosa. Sono gli stessi a cui viene un ictus quando vedono la foto di uno che in Danimarca ha messo l’ananas sulla pizza. Subito dopo vengono quelli che era meglio il libro. Quelli che il libro era così, e invece la trasposizione è cosà. Che nel libro lui non dice esattamente così e che il tizio che incontra in quel bar era vestito di verde e non di blu. Entrambe le posizioni, quella sulla cucina e quella sui film tratti dai libri, sono idiote. La cucina e le storie sono lì da usare, da interpretare. Non esistono versioni perfette delle ricette e delle storie perché – attenzione banalità totale – tutti abbiamo gusti diversi.

Patricia Highsmith è apparsa nella mia vita come una rivelazione in un’estate in cui non sapevo cosa leggere ed è stato amore immediato, potente, travolgente, proprio grazie al Talento di Mr Ripley, che è stato il nostro punto di incontro. La nostra relazione è proseguita felicemente con i successivi 4 libri della saga di Ripley, e poi ho iniziato a recuperare un po’ tutto, inclusi i suoi monumentali diari sia in italiano che in inglese, da aprire e leggere un po’ a caso, consultandoli come si fa con I Ching. Per farla breve Patricia Highsmith è l’autrice più sottovalutata forse del XX secolo, visto che piscia in testa a buona metà degli uomini che consideriamo geni della letteratura (ciao Ernest Hemingway).

Questo per dire che nonostante l’ostinata ricerca di un’onesta intellettuale sono arrivato alla visione di questo Ripley di Steven Zaillian su Netflix, in cui Tom Ripley è interpretato da Andrew Scott, Dickie Greenleaf da Johnny Flynn e Marge da Dakota Fenning un po’ prevenuto e con una buona dose di pregiudizio. Anche perché c’è un elefante nella stanza, e cioè il gran film del ’99 di Anthony Minghella con Matt Damon, Jude Law e Gwyneth Paltrow, che per il sottoscritto preadolescente fu anche un discreto sexual awakening.

Molta paura e molto desiderio dunque. Che purtroppo si traduce in breve in delusione e incazzatura. Perché per otto lunghi episodi non si riesce a non sentire la puzza di artisticità pretenziosa che viene pompata sullo schermo a getto continuo. A partire dalla scelta del bianco e nero.

Parafrasando Hanns Johst (che era una merda nazista ma non è questo il punto in questo contesto) «Ogni volta che vedo apparire una produzione Netflix in bianco e nero tolgo la sicura alla mia Browning». E infatti anche qua non si spiega il perché di questa scelta, se non in una ricerca spasmodica del registro alto, nell’ossessione per l’aulico estetizzato. Infatti è un bianco e nero stupendo, argenteo, elegantissimo, da commercial di moda come quelli che si facevano negli anni ’90 con budget mostruosi. Come quelle campagne di Dolce e Gabbana di Ferninando Scianna. Non è un bianco e nero da Neorealismo o da Nouvelle Vague, ne è la versione steroidea e che se la sente caldissima. Ma che senso ha, considerando anche che gli anni ‘50 (il libro è ambientato nel ’55, la serie nel ’60) erano a colori, allegri, felici, brulicanti? Una sensazione che il libro restituisce – è un libro a colori – come la restituisce il film di Minghella. Qui invece sembra tutto un eterno dopoguerra.

L’Italia di Ripley è silenziosa, cupa, inquietante. Non c’è in giro mai nessuno. Ma non solo nel paesino della costiera amalfitana (nel libro un’immaginaria Mongibello, nella serie una dichiarata Atrani), neanche a Roma. E se Roma non era una festa nel ’60 allora quando? Invece qui no, sembra ci vivano 300 persone in tutto. C’è un senso metafisico nelle immagini che è lontanissimo da Patricia Highsmith. Che invece parla e dice e scrive solo cose vere, verissime, tangibili. Niente che si debba anche solo vagamente immaginare, è tutto lì che si può toccare. Usare. Ma la serie è punteggiata continuamente di momenti riflessivi, il volto di una statua antica in controluce, un gatto, l’odiata zia che ha cresciuto Tom che quando viene ricordata la vediamo sempre sulla sedia del dentista, con la bocca deformata dagli attrezzi, tramite un grandangolo che mostrifica ancora di più l’immagine già di per sé pietosa, come una foto di Diane Arbus.

Andrew Scott è bravo, ma in otto ore dice forse 500 parole. La scelta di un attore così adulto per interpretare Tom, che nel libro è nei suoi primi vent’anni, sembrava curiosa ma anche interessante. Scott, del resto, è sì il prete hot di Fleabag, ma è anche soprattutto il Moriarty di Sherlock: un altro sociopatico adorabile. Nel libro Tom Ripley, è giovane ma non è certo quel bono twink di Matt Damon che sembra uscito da una campagna di Bruce Weber per Abercrombie & Fitch. È anzi un ragazzetto sciapo, neutro, tristanzuolo, che passa inosservato. E Scott è in effetti così, abbastanza neutro e sciapo. Ha la faccia e i capelli di un bocconiano qualunque. Vista l’età però sembra già lavorare in Deloitte. L’età di Scott (ma anche di Flynn) incastra poi un po’ tutto il meccanismo narrativo, perché a quarant’anni suonati pare improbabile che il padre di qualcuno ti mandi a recuperare suo figlio in Italia come se avesse prolungato un interrail. Un quarantenne negli anni ’60 era un uomo di mezza età.

Nel libro Tom Ripley è un ragazzetto sciapo, neutro, tristanzuolo, che passa inosservato. E Scott è in effetti così, abbastanza neutro e sciapo. Ha la faccia e i capelli di un bocconiano qualunque. Vista l’età però sembra già lavorare in Deloitte.

Di bello ci sono i vestiti, e un’eleganza delle parole e dei gesti che ben si combinano al modo in cui immaginiamo in quegli anni le persone parlassero e non dicessero, si astenessero, non sentissero il bisogno di esprimere i propri sentimenti sempre comunque a tutti i costi. Un mondo in cui il codice sociale era più importante del sé interiore. Che bello sarebbe. Quanta eleganza in più ci sarebbe nel mondo se non fossimo tutti così impegnati a vomitare i nostri melodrammini sui social e in tv e ovunque.

Ma purtroppo non basta, e questa atmosfera rarefatta, anzi questa ostinata rarefazione di tutto, dei gesti, delle parole, dei tempi, che vuole a tutti i costi essere Alain Resnais unita a un sound design da podcast di Pablo Trincia stufa subito. E le scene che ci provano fortissimo a essere l’episodio della mosca di Breaking Bad – 20 minuti per tentare di bruciare e affondare una barca, altri 20 minuti per portare un cadavere dal quarto piano al piano terra con l’ascensore che non funziona – di certo non aiutano a tenere su la palpebra.

È tutto troppo. Troppe le inquadrature sull’anello e sulla penna stilografica di Dickie dai primi cinque minuti del primo episodio, come quando ne La Signora in Giallo indugiavano per 5 secondi su un mazzo di chiavi come a mettere un cartello NON DIMENTICATEVI DI QUESTO MAZZO DI CHIAVI. Troppe le facce dei local che hanno sempre e solo espressioni inquisitorie, incazzate, inquiete, scortesi, scontrose. Troppo il gimmick del quadro di Picasso e troppo aver scelto proprio Picasso (che nel libro non c’è né il quadro né tantomento Picasso). E quindi alla fine il thriller va a farsi benedire perché non c’è tensione, non c’è emozione, nessun dolore. Solo un ego smisurato del regista. Quindi insomma si può tranquillamente evitare questa serie ma i libri di Patricia Highsmith no, non fate questo gigantesco errore di perderveli perché sarebbe proprio un peccato mortale.