Cultura | Cinema
Cat People, un modo nuovo di fare film vecchi
Intervista a Raffaele Petrini e Alessandro Tavola, fondatori della casa di distribuzione che in questi giorni ha riportato in sala L'odio di Kassovitz e che sta facendo riscoprire i classici a una nuova generazione di spettatori.

L’odio di Mathieu Kassovitz è uscito nelle sale per la prima volta trent’anni fa, e trent’anni dopo sta vicinissimo alla cima del box office italiano, grazie a una versione in 4K e una nuova distribuzione che lo ha portato in tantissime sale, molte delle quali lo avevano ignorato trent’anni fa. Di questa nuova distribuzione il merito va a Cat People, azienda nata nemmeno due anni fa e che nella sua breve vita ha riportato al cinema film come Profondo rosso, Cannibal Holocaust, La grande abbuffata, L’odore della notte, Suspiria. In ognuno di questi casi, gli incassi sono stati ottimi e le sale si sono riempite. Che cosa significa questo successo? È una tendenza che si sta affermando, una manifestazione di retromania, l’etichetta di vintage che si attacca anche al cinema dopo averlo fatto con i vestiti, la musica, l’arredamento, i videogiochi? Tutto quanto, tutto assieme? O una passione nuova, che nasce in una generazione che fruisce i media, e l’arte, in una maniera inconcepibile per tutti gli altri? Ne ho parlato con Raffaele Petrini e Alessandro Tavola, che di Cat People sono i due fondatori e anche gli unici due dipendenti.
ⓢ L’odio, l’ultimo film che Cat People ha riportato in sala, sta andando benissimo, al momento è il terzo incasso della settimana dietro a un blockbuster come Il pianeta delle scimmie e al Segreto di Liberato. Ve lo aspettavate?
Raffaele Petrini: L’odio è un film che, come dire… L’odio non è mai passato. È sempre il momento giusto per vederlo. Non ha mai smesso di essere attuale, dal ’95 a oggi. È stata una scelta obbligata per noi, è un titolo che è sempre stato in cima alla nostra lista. Io sono veramente felice, oggi, di aver riportato in sala questo film. Ci abbiamo lavorato tanto.
ⓢ Ma nella scelta di riportarlo al cinema adesso c’è un messaggio politico, un commento sull’attualità?
Alessandro Tavola: L’odio è sempre attuale, sì. Purtroppo, aggiungerei. Le cose che racconta sono ancora il presente. Io, personalmente, l’ho sempre sentito un film vicino: sono di Milano, ho sempre vissuto a Milano, da adolescente l’ho percepito come un film neorealista perché mi restituiva questa sensazione di appartenere a una realtà che era la stessa che vedevo attorno a me. Nonostante sia un film che ha una forte componente favolistica, in certi sensi persino funambolica, è infuso di un realismo che all’epoca, ma anche in quest’epoca, il cinema italiano non riusciva nemmeno a sfiorare. E poi, semplicemente, è diretto da dio. Per il lavoro che faccio alla lunga i film mi vengono a noia, perché devo vederli e rivederli. Con L’odio non è successo.
ⓢ Quando avete fondato Cat People vi immaginavate che sareste arrivati a riscuotere un successo come quello che sta riscuotendo L’odio da quando è tornato nelle sale, il 13 maggio?
Raffaele: Cat People nasce dopo anni e anni di discussione. Noi, io e Alessandro, abbiamo cominciato a lavorare insieme più di dieci anni fa. Io vivevo in Brasile, distribuivo film lì insieme ad Alessandro. Avevamo già all’epoca il desiderio di lavorare in Italia, di aprire una casa di distribuzione qui. A un certo punto ci siamo resi conto che un modo per entrare nel mercato italiano era cominciare a distribuire classici del cinema. Quando abbiamo visto che diverse case di distribuzione avevano cominciato a operare nel settore e si stava creando un circuito vero e proprio, allora ci siamo resi conto che se davvero volevamo entrare in questo mercato appena formatosi dovevamo farlo con dei film diversi. Non volevamo ridistribuire quei classici, per così dire, museali, non so se mi spiego. Scolastici, ecco. E quindi abbiamo iniziato a stilare una lista nostra e a immaginare progetti di “rinverdimento” di questi film: un nuovo lancio, un nuovo poster, un nuovo trailer, tutto fatto anche e soprattutto per attirare le nuove generazioni. A noi interessa quel pubblico, quello che questi film non li ha mai visti.
Alessandro: Infatti tutto parte dalla nostra voglia di rivedere al cinema film che noi stessi non avevamo mai visto in sala. Film che piacciono a noi, insomma. Per questo abbiamo deciso di cominciare da Profondo rosso che, per quanto sia conosciuto e amato, stava lì parcheggiato da cinquant’anni. Di sicuro la pandemia ci ha aiutato, ci ha dato il tempo e il modo di definire un progetto che alla fine è costituito da due persone: tu in questo momento hai davanti le due persone che fanno l’azienda Cat People. Grafiche, testi, social, trailer, video, sito, rapporti con le sale: facciamo tutto io e Raffaele.
ⓢ Quindi siete dovuti andare in Brasile per farvi venire l’idea di aprire una casa di distribuzione in Italia?
Alessandro: Raffaele, dai un po’ di contesto, ci hai vissuto per vent’anni in Brasile, io non ci ho mai messo piede, così come l’abbiamo detta sembra che siamo andati in Brasile in vacanza.
Raffaele: Sì, allora, io vivevo in Brasile. Lì ho aperto una casa di distribuzione e Alessandro mi è sempre stato affianco, in tutto. Abbiamo lanciato diversi film che amavamo e che sono stati amati dal pubblico: Saturno contro di Ferzan Özpetek, Crazy Horse di Frederick Wiseman, Apollonide di Bertrand Bonello. Però io ho sempre avuto il desiderio di venire a fare questo lavoro in Italia e di farlo insieme ad Alessandro, con il quale ho coltivato un’amicizia basata sulla cinefilia pur vivendo in certi momenti anche a continenti di distanza. La pandemia ha rimescolato tutto e ha reso possibile tutto. Perché è dalla pandemia in poi che le riedizioni sono diventate una regola nel calendario delle uscite cinematografiche.
ⓢ In che modo la pandemia vi ha aiutato a mettere in piedi Cat People?
Alessandro: Ha contribuito in modi numerosi e diversi. La prima cosa che mi viene in mente è il ritorno in sala dei film di Wong Kar-wai nel 2021: andarono benissimo e per noi stabilirono un precedente. Erano innanzitutto film non scolastici, appunto, per usare la definizione usata prima da Raffaele. E poi ci aiutarono a intuire una tendenza in divenire: se dopo mesi di chiusure e misure restrittive, le persone escono e vanno in massa a vedere In the Mood for Love, un film uscito vent’anni prima, questo significa che una domanda in senso commerciale esiste. Poi c’è anche la questione del cambiamento nel gusto, un cambiamento che la pandemia ha accelerato. A vedere i film che noi riportiamo in sala spesso ci sono giovani e giovanissimi, persone che nella pandemia ci sono cresciute, in un regime di iperstimolazione audiovisiva che ha portato a sviluppare un approccio diverso al cinema, uno che non traccia il confine tra cinema del presente e cinema del passato, tra generi né tra epoche. Da quello che vedo io, i giovani sono più ricettivi, sono abituati a fruire tutto in qualsiasi modo in qualsiasi momento, come, dove, perché capita. Al contrario nostro, mio, tuo, di Raffaele, che spesso ci siamo trovati in discorsi in cui si diceva “e questo no perché è un film vecchio”, “e questo nemmeno perché è un film italiano”. Per i giovani questi paletti culturali semplicemente non esistono, non sono mai esistiti e speriamo non esisteranno mai.
ⓢ Ma c’è stato un momento in cui avete fatto i conti? Una riunione, una discussione in cui vi siete resi conto che la cosa era economicamente fattibile e potenzialmente remunerativa?
Alessandro: Non so… Raffaele, tu ti ricordi un momento di lucidità [ride, ndr] in cui abbiamo analizzato la cosa da questo punto di vista?
Raffaele: Secondo me quello che abbiamo fatto ha più a che vedere con i nostri appetiti da cinefili onnivori che con le ricerche di mercato. C’è stato un momento in cui abbiamo analizzato gli incassi delle riedizioni fatte in Italia e tutto il resto, sì, però a quel punto in realtà avevamo già deciso che film riportare in sala.
Alessandro: Il fatto è che a noi piaceva l’idea delle riedizioni, tutto qui. Poi abbiamo capito che c’era una maniera, intendo proprio una pratica, per realizzarla, dopodiché siamo andati per esclusione quando si è trattato di crearci il nostro “catalogo”. Ci dicevamo che un film era troppo classico, un altro troppo scolastico, scartavamo fino a che non trovavamo un titolo non ancora redistribuito che ci accendeva, passami il termine. È andata così soprattutto all’inizio, anche perché questa è un’operazione sempre in divenire: banalmente, c’è sempre un film che viene dopo quello che abbiamo appena riportato in sala, quindi l’operazione ricomincia sempre, ogni volta, da capo.
ⓢ E questa pratica di cui parli come funziona? Voglio dire, se una persona volesse fare il vostro lavoro, da dove dovrebbe cominciare?
Alessandro: Innanzitutto bisogna trovare chi detiene i diritti dei film. Che nella maggior parte dei casi è la cosa più difficile. All’inizio abbiamo usato cataloghi pubblici, messi in siti fatti bene, chiari, facilmente consultabili. Abbiamo iniziato a lavorare con Mediaset, che da questo punto di vista è un’azienda molto, molto ordinata. Poi ci sono dei film i cui diritti stiamo cercando da che abbiamo fondato l’azienda, da un anno e mezzo, quindi. E ancora stiamo cercando.
ⓢ Tipo? Ditemene uno.
Alessandro: Eh, no, non te lo possiamo mica dire. Però secondo me te lo puoi immaginare: se finora ci sono stati Dario Argento, Ruggero Deodato… È un grande nome appartenente a questo “ceppo” qui.
ⓢ Torno a una cosa che avete detto prima, sulla comunicazione e promozione. Davvero fate tutto voi due da soli?
Raffaele: Sì sì, la locandina nuova con la quale il film torna in sala la facciamo io e Alessandro, per farti capire. Considera che ci sono film che ci sono arrivati senza nessun materiale, ci siamo trovati in mano la copia fisica e basta. Le immagini che usiamo a fini promozionali spesso le estraiamo noi personalmente dal master.
Alessandro: È vero, e considera che facciamo davvero tutto da capo, da zero. Se noti, l’unica locandina simile a quella originale è quella che abbiamo fatto per La grande abbuffata. Le altre sono tutte rivisitazioni, diciamo così. Il grosso del lavoro riguarda però la parte video: trailer, clip, reel Instagram. Tutto il materiale che di solito si realizza per lanciare un film nuovo. Adesso le cose stanno cambiando, ma fino a poco tempo fa per le riedizioni funzionava diversamente, si faceva affidamento su un pubblico già conoscitore e già fidelizzato e già informato, un pubblico che il film sarebbe comunque andato a vederlo a prescindere dalla promozione, e quindi di questa si pensava di poter fare a meno o di ridurla al minimo indispensabile. Il punto per noi, però, era arrivare a tutto il resto del pubblico. Mi ricordo che il pallino a me è venuto perché parlando con amici al di fuori della bolla, persone comunque con le loro conoscenze e preferenze in fatto di cinema, mi stupiva quanto si arrabbiassero quando scoprivano di essersi perse una riedizione perché semplicemente non sapevano che la riedizione c’era stata. È un discorso, questo sulla comunicazione e promozione, provato vero anche da un fatto recente: la differenza tra il successo della riedizione di Akira e di quella di Perfect Blue. Il primo è assai più famoso ma Perfect Blue è andato molto meglio. La differenza sta nel cambiamento della comunicazione. E ovviamente nelle nuove abitudini del pubblico, che adesso sa che questa offerta esiste e la va a cercare attivamente. Anche perché la comunicazione/promozione fa sì che queste uscite vengano percepite come nuove a tutti gli effetti. E d’altronde è così: un film che non hai mai visto è un film nuovo, a prescindere da quando è uscito.
ⓢ Questa attenzione per le locandine mi colpisce. Penso rientri in una nuova attrazione per l'”oggettistica” del cinema: mi viene in mente il successo del merchandise A24. O a quanto importanti siano le locandine su Letterboxd. Che ne pensate di Letterboxd, a proposito?
Alessandro: Io ho una teoria a riguardo. Per me Letterboxd farà con il cinema quello che Spotify ha fatto con la musica. Grazie a Spotify, abbiamo assistito a una riscoperta di certi generi “vecchi”, tipo lo shoegaze, da parte di persone che spesso si limitavano a lasciar scorrere quello che l’app faceva scorrere. Le liste di Letterboxd potrebbero far succedere la stessa cosa: se le scorri, attraversi decenni, epoche, ere senza rendertene conto.
ⓢ Con le sale invece come funziona il lavoro? Com’è il rapporto tra voi e i gestori?
Raffaele: Noi facciamo tutto in una maniera che a me piace definire sartoriale. Prendiamo il telefono, chiamiamo le sale, ci presentiamo, proponiamo. In realtà è tutto semplice, per noi che siamo indipendenti. Cerchiamo di fare tutto al massimo dell’economicità, in parte per forza viste le risorse limitate, in parte per scelta.
Alessandro: Talvolta portiamo anche la copia del film alla sala. Io poi sto a Milano, prendo il film, mi faccio una passeggiata, lo porto lì, faccio due chiacchiere… Tipo lattaio.
Raffaele: Spesso il nostro lavoro consiste nell’organizzazione di viaggi per andare a lasciare le copie agli esercenti in questa o quella città. Fa tutto un po’ tenerezza, a pensarci.
ⓢ E i gestori come vi trattano? Ora immagino bene, ma all’inizio?
Raffaele: Le cose sono molto cambiate rispetto anche a pochissimo tempo fa. All’inizio tanti esercenti, di fronte alle nostre proposte, ci rispondevano che quello semplicemente non era un film adatto alla loro sala, al loro pubblico. Alcuni ci dicevano, per esempio quando proponevamo film di Dario Argento, che la loro sala era frequentata prevalentemente da over 50 che non volevano vedere horror. Poi hanno visto che quel film in altre sale simili, con un pubblico simile, funzionava e ora spesso sono gli esercenti stessi a chiederci gli horror.
ⓢ Ma quindi esiste ancora questa separazione tra cinema d’essai e cinema popolare, per i gestori delle sale?
Alessandro: Sì, esiste in quelle sale che non hanno ancora vissuto il ricambio generazionale del loro pubblico. Quindi si tengono stretto il loro spettatore affezionato, che ne so, alla commedia francese. Al cinema considerato “elegante”, ecco. Poi è vero anche che spesso le cose cambiano in maniera assolutamente imprevedibile. Prendi la questione del doppiaggio e della sottotitolazione, che in un lavoro come il nostro è fondamentale. A Milano queste sale d’essai, legate al cinema “elegante”, frequentate da non più giovanissimi, che all’inizio ci guardavano con sospetto, paradossalmente hanno dato un grande contributo alla diffusione del film-in-lingua-originale, che è un’abitudine che associamo ai più giovani, per i quali vedere un film significa anche leggerlo nei sottotitoli. E quindi indirettamente hanno dato un grande contributo anche alla riuscita di quello che stiamo facendo noi. Queste sale hanno colto la possibilità di mettere in programmazione film commerciali, che normalmente non avrebbero mai preso, ma “nobilitati” dalla proiezione in lingua originale. Lì è cominciata a venir meno la separazione tra cinema d’essai e cinema pop, qui in Italia. Però il timore a fare la cosa diversa rimane, e la tentazione di restare nella sicurezza della bolla pure.
Raffaele: Nonostante in questi giorni tanti esercenti ci stiano chiamando e ci stiano dicendo che nell’ultimo anno e mezzo le riedizioni hanno fatto la differenza in termini di incassi. In alcuni casi ci hanno confessato che li hanno salvati.
ⓢ Quindi gli incassi vanno davvero bene come sembra? Avete dei numeri, delle misure che usate per capire cosa va bene e cosa no?
Alessandro: È difficile fare una media. Dipende tutto dal numero di copie distribuite, delle sale coperte, dal numero di spettacoli. Voglio dire, nel nostro lavoro capita di distribuire La grande abbuffata e L’odio, e capita che il secondo arrivi in un numero di sale dieci volte superiore al primo. In tre giorni L’odio ha già fatto più della Grande abbuffata, ma se facessimo una media così restituirebbe un numero che non dice niente, che non è la verità. Noi, come azienda, siamo in crescita, questo sì. Ma perché siamo in due, siamo due sconosciuti che si presentavano nella sale e dicevano “abbiamo Profondo rosso, lo volete? Lo mettete il 10 luglio, quando tanto non ci sarebbe comunque niente”. Quindi era difficile non crescere, ecco. Quando siamo partiti, con Profondo rosso, eravamo arrivati a 70 sale. Con L’odio ne abbiamo già 170 che ce lo hanno distribuito e altre se ne stanno aggiungendo.
ⓢ Avete anche voi la sensazione che il cinema, come arte, luogo, momento, consumo, stia tornando rilevante, dopo anni in cui sembrava che le serie tv e le piattaforme lo avessero reso obsoleto?
Raffaele: Non lo so, onestamente. Quello che so è che io vado al cinema a vedere tutte le riedizioni e quasi sempre sono la persona più anziana [Raffaele ha 39 anni, ndr]. Mi ricordo che la cosa mi aveva veramente colpito quando sono andato a vedere le riedizione di Scarface: quasi tutti under 30, moltissimi under 25. È in corso un passaggio generazionale nel pubblico, questo è certo. Credo ci sia un appetito di cinema che una nuova generazione vuole saziare, anche perché non sono andati così tanto al cinema in questi anni, anche per cause di forza maggiore. E poi è vero pure che per altre fasce d’età, mi riferisco a Millennial e predecessori, il cinema è spesso ormai una cosa piatta, il consumo occasionale di film evento e basta. Ci sta che la volta che ti propongono Madame Web come film evento, non ci vai a vederlo al cinema. I più giovani invece non hanno introiettato questa idea di film come evento periodico, e la riedizione vanno a vederla anche se è l’ennesima, perché è vero che è sempre la stessa operazione ma ogni volta il film che arriva in sala è completamente diverso.
ⓢ E il prossimo film che riporterete in sala? Nemmeno un indizio per provare a capire quale sarà?
Alessandro: Eh, vorrei anche dirtelo, ma proprio non lo so. Onestamente non ne ho idea. Tu, Raffaele?
Raffaele: No, nemmeno io. Abbiamo appena finito di redistribuire L’odio, dacci un po’ di tempo ancora prima di decidere il prossimo!