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Un evento come Shogun non succederà più
La serie più premiata nella storia degli Emmy segna l'apice della Prestige Tv e, probabilmente, anche la sua fine.
Diciotto Emmy sono tanti, dieci anni di lavoro sono di più. Tanto ci hanno messo Rachel Kondo e Justin Marks per finire la prima stagione di Shogun (e chissà quanto ci vorrà per finire la seconda e la terza, già confermate). La serie era stata annunciata da FX, che all’epoca era ancora parte del gruppo 20th Century Fox, che ancora non era stato acquisito da The Walt Disney Company per 71 miliardi di dollari, nel 2013. Ci sono voluti cinque anni di lavoro solo per convincere i dirigenti di FX che valeva la pena provarci: i soldi per girare i dieci episodi della prima stagione di Shogun sono stati messi a bilancio nel 2018. C’era chi sosteneva che alla fine non se ne sarebbe fatto nulla, che l’impresa fosse impossibile: il più scettico tra gli scettici era proprio Marks. Lui la tentazione di lasciar perdere l’aveva avuta sin dall’inizio, da quando si ritrovò sulla scrivania una copia di Shogun il romanzo di James Clavell: 1200 pagine non aveva nessuna voglia di leggerle, il romanzo passò dalla sua scrivania al coffee table del suo salotto (era una bella edizione, con una bella copertina, perfetto per l’esposizione) e lì rimase fino a quando sua moglie Rachel non decise di leggerlo. Chi in questa impresa ci abbia messo la maggior parte della convinzione lo si capisce dall’ordine nel quale i nomi compaiono nei titoli di testa: Shogun fu proposto a Marks per primo, ma il suo nome nei credit compare per secondo.
Dieci anni dopo, Shogun ha scritto – in giapponese – un capitolo notevolissimo della storia della televisione americana, probabilmente l’ultima riga del libro della Prestige Tv. Diciotto Emmy, un record: nessuna stagione di nessuna serie tv ne aveva mai vinti così tanti in una volta sola, per come vanno le cose nell’industria dell’intrattenimento americana è facile prevedere che questo primato durerà per un pezzo. La crisi è grave, si producono sempre meno serie e si cerca di spendere sempre meno soldi, nessuno ha più voglia di rischiare né di aspettare. Ci sono voluti dieci mesi per finire le riprese della prima stagione di Shogun, un tempo che oggi è più che sufficiente per scrivere, girare, post-produrre, distribuire e cancellare una serie. È costata talmente tanto, Shogun, che ancora dobbiamo scoprire la cifra esatta: «It looks like a million bucks» era uno dei commenti più frequenti nei thread Reddit dedicati alla serie. Un milione di dollari speso per le cose più banali e delle quali pure ci eravamo dimenticati in questi anni di spending review televisiva: riprese in esterna con luce naturale, degli interni illuminati a dovere, movimenti di camera variegatissimi, Cgi più che dignitosa. Un milione di dollari speso in dettagli rischiosissimi da curare nell’epoca in cui l’occhio non resta mai fisso su uno schermo soltanto: il nodo che lega le due estremità di un laccio, la corretta postura di uno spadaccino che estrae la katana dal fodero, il modo giusto di trascinare i piedi sul legno del tatami. Basta distrarsi un attimo per dare un’occhiata al telefono e questi dettagli si perdono, e con essi il milione di dollari speso per curarli.
Shogun è una serie difficile, che pretende una concentrazione che non siamo più tanto abituati, né disposti, a concedere: i personaggi rilevanti sono una dozzina almeno e quasi tutti “stranieri” (non è più la storia di un marinaio inglese sperduto nel Giappone degli Stati belligeranti, questa), le linee narrative si intrecciano con la lentezza delle cose fatte a mano, l’imperscrutabilità di certi protagonisti talvolta genera una freddezza drammaturgica che quasi convince a congelare la visione. Certo, per chi insiste e resiste la ricompensa è ricca e la sorpresa altrettanto: la serie è quanto di più distante dal “Game of Thrones ma nel Giappone feudale” usato come facile – ed efficace – veicolo promozionale. È quanto di più distante anche dall’Ultimo samurai, il film che aveva quasi convinto Marks a lasciar perdere il progetto: non gli andava di mettere la sua forma sull’ennesima cotta orientalista di Hollywood. Non fosse stato per Kondo, di Shogun probabilmente non se ne sarebbe fatto nulla davvero o qualcun altro ne avrebbe fatto un “Game of Thrones ma nel Giappone feudale”, un Ultimissimo samurai. Leggendo il romanzo di Clavell, Kondo si è resa conto dei pregi che lo avevano reso un best seller da quasi sei milioni di copie, la base di una successiva miniserie Nbc diventata, nel 1980, una pietra miliare nella storia della televisione americana: in un periodo in cui vigeva l’imbarazzo della scelta – su Abc andava in onda Radici, e nello stesso periodo su Nbc arrivava anche il Gesù di Nazareth di Zeffirelli – un terzo dei telespettatori americani decise di passare le sue serate guardando Shogun. Il successo della serie fu tale che diede origine a diverse leggende metropolitane, la più assurda e divertente delle quali viene creduta ancora oggi: l’ossessione per il sushi degli americani negli anni ’80 si spiegherebbe proprio con il successo di Shogun. Ovviamente non era davvero così, ma il punto è proprio che non ci sarebbe stato niente di strano se fosse stato davvero così.
Leggendo il romanzo di Clavell (e guardando la miniserie Nbc), Kondo prima e Marks poi hanno capito cosa intendesse il critico del New York Times Walter Schott quando scriveva che Shogun è una di quelle storie i cui «personaggi, costumi, ambientazioni, aspirazioni e desideri sono talmente accattivanti da farti dimenticare chi sei e dove ti trovi». Naturalmente, questa storia andava pur sempre ripulita da quel punto di vista etnocentrico che veniva, inevitabile, con i tempi: Clavell era un sincero amante e appassionato studioso di culture asiatiche – la storia di come lo sia diventato meriterebbe un pezzo a parte: inizia in un campo di prigionia dell’esercito imperiale giapponese a Singapore, prosegue a Hollywood tra scioperi e premi, finisce con l’amicizia personale con Toshiro Mifune – ma non riuscì a salvare il suo protagonista John Blackthorne dal complesso del white savior; la miniserie Nbc era un prodotto di pregiatissima fattura, ma era anche una serie in cui si decise di non sottotitolare i dialoghi in giapponese perché non era importante, se Blackthorne non capiva cosa stessero dicendo i suoi interlocutori allora non dovevano capirlo neanche gli spettatori americani che la storia l’avrebbero osservata attraverso il punto di vista di Blackthorne. Si capisce perché Shogun fu tanto amato in Occidente quanto detestato in Giappone: fu distribuito al cinema e non andò a vederlo nessuno; fu trasmesso in tv e non se ne accorse nessuno. Quei pochi che lo videro rimasero disgustati (oltre che dalle quantità di nudità e violenza mai viste prima alla tv, dote lasciata anche al moderno remake) dal modo in cui usi e costumi del Giappone del periodo Sengoku erano stati ridicolizzati a scopo di intrattenimento altrui.
Kondo e Marks hanno avuto l’intelligenza necessaria a scampare la trappola dell’orientalismo, affidandosi alla preziosissima consulenza di Hiroyuki Sanada, attore protagonista che da 20 anni vive a Los Angeles e spiega a Hollywood che il Giappone che esiste non è il Giappone che hanno in mente gli americani. Il milione di dollari di cui sopra lo hanno speso quasi tutto per questo, probabilmente. I dettagli che fanno la bellezza di Shogun sono evidentemente figli della paura di sbagliare, di fraintendere, di offendere. In ogni aspetto della serie si nota la delicatezza con la quale si dovrebbe sempre maneggiare la cultura altrui, il tremore che dovrebbe sempre attraversare le mani quando reggono un oggetto prezioso. Kondo e Marks hanno raccontato di aver passato una grandissima parte del loro tempo a «discutere di virgole». Ogni riga di dialogo è stata tradotta in giapponese, fatta leggere a dei consulenti giapponesi, criticata, corretta, riscritta, tradotta nuovamente in inglese, inviata a Kondo e Marks che l’hanno poi a loro volta criticata, corretta, riscritta, fatta tradurre nuovamente in giapponese e così via, in un perpetuo moto circolare che ha impiegato dieci mesi a compiersi. I tempi di lavorazione sono stati talmente lunghi che a un certo punto FX ha rischiato di perdere i diritti di Shogun il libro (ci sono accordi che prevedono che se dell’adattamento di un libro non vengono girate un certo numero di scene in un dato intervallo di tempo, i diritti di quel libro tornano al proprietario che può rimetterli sul mercato, a disposizione di lavoratori più solerti): a quel punto troupe e cast si affrettavano a girare una scena qualsiasi e a inviare il girato a chi di dovere.
Ci si potrebbe chiedere: vale davvero la pena sottoporsi a tutti questi strazi per fare una serie tv, il più mordi e fuggi dei consumi culturali contemporanei? Dipende, soprattutto dal personale desiderio di vincere 18 Emmy.