Attualità | Polemiche

Jonathan Glazer è la vittima di un clima infame di cui siamo tutti responsabili

A due settimane dagli Oscar, il regista è ancora al centro delle polemiche. Il modo in cui le sue parole sono state fraintese e manipolate non riguarda solo lui, ma è un problema che tocca il modo in cui discutiamo le questioni fondamentali di questa epoca.

di Francesco Gerardi

Mentre gli veniva consegnato il premio Oscar per il Miglior film internazionale, a Jonathan Glazer tremavano fortissimo le mani. Tremavano così tanto che si è subito reso conto di non riuscire a leggere le parole che lui stesso aveva scritto su un foglietto di carta, il discorso che si era preparato nel caso in cui The Rock e Bad Bunny lo avessero chiamato sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles. A un certo punto il tremore ha costretto Glazer a passare la statuetta dell’Oscar al produttore James Wilson, in modo da poter reggere il foglietto di carta con entrambe le mani. Mentre seguivo la scena, pensavo fosse tutto un eccesso di emozione: la gioia che Glazer stava provando in quel momento è una di quelle che riverbera in tutto il corpo, producendo vibrazioni che sfuggono al controllo. Ho immaginato che Glazer in quel momento stesse pensando al suo precedente film, Under the Skin: le stroncature dei critici, i fischi dopo la prima al Festival di Cannes, una carriera quasi rovinata dalla sua tendenza a fare la scelta più difficile nel momento più complicato. Una carriera ora salvata grazie alla Zona d’interesse, celebrata da quegli stessi critici e da quello stesso establishment che ne aveva fatto un zimbello. Che gli tremassero le mani era inevitabile, ho pensato. Poi Glazer ha cominciato a leggere il suo discorso: «I’m gonna read», ha annunciato, come a voler precisare che quanto stava per dire non era involontaria conseguenza di nessuna delle circostanze ed emozioni di cui sopra ma punto di arrivo di una riflessione abbastanza lunga ed elaborata da essere messa per iscritto. E ho capito che in realtà tremava anche e soprattutto di paura.

A distanza di quasi due settimane dalla 96esima edizione degli Oscar, stiamo ancora parlando delle parole che Glazer ha letto su quel palco, in quel momento. Al momento c’è una lettera di condanna contro di lui firmata da più di mille attori, registi, produttori e addetti ai lavori del cinema, tutti ebrei. La discussione che ne è scaturita non ha nulla a che vedere con La zona d’interesse, ovviamente. Il film di Glazer era talmente superiore, da ogni punto di vista, agli altri candidati nella categoria Miglior film internazionale che i bookmaker quasi avevano smesso di quotarne la vittoria nelle ventiquattro ore precedenti. Fatto da cui è nata una solita, prevedibile teoria del complotto, i cui sostenitori più convinti sono stati come al solito, come è prevedibile, gli italiani: Massimo Ceccherini ha detto che Io capitano – di cui è uno degli sceneggiatori – non avrebbe vinto perché «tanto vincono sempre gli ebrei», disgustosa affermazione che poi avrebbe “spiegato” attribuendola non all’antisemitismo ma alla ludopatia. Aveva visto le quote degli scommettitori e aveva capito tutto, ha detto Ceccherini. È un episodio così minore che sfiora l’irrilevanza, questo. Ma che serve a capire perché in molti sono (siamo) rimasti sorpresi dalle parole che Glazer ha scelto di scrivere su quel foglietto di carta e di leggere in mondovisione.

“Jonathan Glazer’s Moral Courage”, ha scritto la critica del Time Judy Berman. È stato coraggioso, Glazer, perché con il suo discorso avrebbe potuto limitarsi a condannare e rivendicare. Condannare i Massimo Ceccherini di questo mondo, portatori sani dell’antisemitismo rivisto e corretto, ma sempre vecchio e sporco, che abbiamo scoperto dall’8 ottobre, dal giorno in cui Israele ha cominciato a bombardare la Striscia di Gaza. Il coraggio morale di Glazer lo ha portato a scrivere un discorso che parlasse di «cosa stiamo facendo adesso» e non di «cosa ci hanno fatto allora», come ha detto nella notte del 10 marzo scorso, mentre il tremore delle mani risaliva su per il suo corpo fino a disallineargli le corde vocali. E come tutti coloro che dal 7 ottobre in poi hanno mostrato autentico coraggio morale, Glazer è stato malignamente frainteso e volontariamente manipolato, è diventato un’altra prova del clima infame – infiniti ringraziamenti a Bettino Craxi per aver lasciato una dicitura che così perfettamente si adatta a tutti i tempi difficili – in cui ci tocca vivere dopo averlo creato noi stessi.

Il clima infame in cui Masha Gessen scrive un dottissimo saggio sulla moderna definizione di antisemitismo per il New Yorker e si ritrova accusato di revisionismo storico. Il clima infame in cui l’israeliano Yuval Abraham vince il premio per il Miglior documentario alla Berlinale con No Other Land – storia della distruzione di diciannove villaggi palestinesi nella zona di Masafer Yatta, in Cisgiordania, ad opera dell’esercito israeliano – film girato assieme al palestinese Basel Adra, nel suo discorso parla di apartheid e chiede il cessate il fuoco, e viene accusato di antisemitismo. Nell’occasione, la ministra della Cultura tedesca si è sentita in dovere di rispondere alle accuse di antisemitismo che pure a lei erano state rivolte dopo che le telecamere l’avevano inquadrata mentre applaudiva all’annuncio della vittoria di No Other Land. «Applaudivo soltanto il regista e giornalista israeliano Yuval Abraham», ha scritto in un post su X la ministra. «Se questo è il modo in cui la Germania vuole affrontare il suo senso di colpa per l’Olocausto, è un modo svuotato di ogni significato», ha detto poi Abraham.

Il significato, appunto. Dopo anni in cui ci siamo specializzati nell’analisi logico-grammaticale dei discorsi del nemico pubblico numero uno del momento, alla ricerca di qualsiasi inciampo dialettico che potesse invalidarne non solo il discorso ma anche la persona, ora stiamo assistendo alle estreme conseguenze di questa pratica. Una pratica che ci ha tanto dilettato quando i suoi maestri stavano tutti da una parte e dall’altra, a subirla, c’erano tutti i porci beccati con le mani nelle mutandine altrui, e poi i razzisti, i sessisti, gli omofobi che non si rassegnavano alla fine del mondo per come lo avevano conosciuto. Ora la pratica però è diventata di uso comune, ed è terribile vederla applicata anche a chi sta da questa parte, a chi non è un porco né un razzista, un sessista, un omofobo. Che è esattamente quello che è successo a Glazer: in un discorso sì breve e conciso ma anche ampio e complesso, il regista ha condannato quella volontà di “deumanizzazione” che ha portato alla strage dei kibbutz prima e alla distruzione della Striscia poi. Tutto quello che ha detto è stato ridotto a una discussione sull’adeguatezza della parola “occupazione”, usata giustamente da Glazer per descrivere quell’ampia parte del passato che ha portato al presente.

Una parola usata come un seme, piantato nel mezzo del dibattito per far crescere la malapianta del sospetto: e se Glazer fosse un antisemita convinto che gli israeliani siano degli occupanti della terra che in realtà a loro appartiene, per presenza storica e per riconoscimento dell’Onu (un giorno dovremo discutere di quanto pericolose siano queste rivendicazioni di proprietà ancestrale di una terra, di quanto la legittimazione di questi argomenti abbia dato la stura ai peggiori nazionalismi, come quello dei russi convinti che l’est Europa sia tutta Grande Russia)? E nel frattempo, mentre si discute dell’adeguatezza di una parola si perde il significato del discorso. E se dei rimasugli dello stesso restano, li si spazza via con modi meno raffinati e più spicci: il discorso di Glazer non si trova sul canale YouTube dell’Academy, e qui sì che per una volta varrebbe la pena di parlare di cancel culture. Le sue parole sono state smontate e rimontate – inspiegabile come il solitamente impeccabile Variety in una prima trascrizione del discorso di Glazer avesse deciso di tagliare un pezzo di una frase, per esempio, senza mai spiegare né scusarsi per l’accaduto – in modo da farlo sembrare l’ebreo che odia se stesso, quando lui si era invece confessato come (e vale la pena usare le sue parole, in modo che niente si perda in traduzione) uno degli uomini che «refute their Jewishness and the Holocaust being hijacked by an occupation, which has led to conflict for so many innocent people».

Se un discorso poi sopravvive a tutti i tentativi di mostrificarlo e ridicolizzarlo, si può sempre azzerarlo. László Nemes, ebreo anche lui, regista anche lui di un bellissimo holocaust movie (Il figlio di Saul) ha detto che Glazer avrebbe semplicemente dovuto starsene zitto. Ritirare l’Oscar, ringraziare cast, troupe e produzione e godersi il party post cerimonia. Avrebbe dovuto fingere di non vedere quello che tutti abbiamo visto nella Zona d’interesse, quello di cui ha scritto Naomi Klein nel suo op-ed sul Guardian: il pericolo di ignorare le atrocità. Glazer avrebbe dovuto (potuto) appiattirsi sulla linea politica dell’industria dell’intrattenimento tutta, adattarsi a quella forma di slacktivism estremo fatta di spillette pro causa del momento esposte durante il red carpet e rimosse prima dell’inizio della diretta in mondivisione, di facili battute sullo stato psichiatrico di Trump, di miliardari che si spellano le mani applaudendo le loffie tirate anticapitaliste contro le piattaforme streaming che hanno contribuito a renderli miliardari. La colpa di Glazer è stata rifiutarsi di contribuire con il suo verso al deprimente spettacolo e di spostare l’attenzione su «quello che stiamo facendo adesso», appunto. La freddezza con la quale il suo discorso è stato accolto anche dai presenti al Dolby Theatre – come se avesse rovinato la festa a tutti, come se avesse aperto la buccia incerata del frutto di Hollywood per esporne la polpa marcescente – è prova ancora una volta di quello che disse Ricky Gervais nel suo immortale sfogo tra ubriachezza e frustrazione: le celebrity, che più di tutti hanno contribuito a fare dell’impegno politico solo un’altra estetica, dovrebbero limitarsi «a ritirare il loro premietto e andarsene affanculo».

Che in fondo è anche la scelta più saggia al fine dell’autoconservazione, come dimostra quello che è successo e sta succedendo a Glazer. Che però, essendo uno che ha sempre fatto la scelta più difficile nel momento più complicato, ha deciso di affrontare il mondo «di cui non si può mai essere abbastanza spaventati», come scriveva Adorno. Sono sicuro sapeva tutto quello che sarebbe venuto dopo il suo discorso. Non ha più parlato in pubblico, dopo il 10 marzo. Non ha partecipato nemmeno alla conferenza stampa post cerimonia alla quale tradizionalmente partecipano tutti i vincitori dell’Oscar. Ha smesso di parlare dopo aver posto una domanda, Glazer, rifiutandosi di dare una qualunque risposta che confermasse in una maniera o in un’altra quelle stesse opinioni che «hanno coinvolto così tante persone nel conflitto». Prima di starsene zitto, Glazer ha chiesto: «Come facciamo a resistere?».