Cultura | Cinema

Con Civil War Alex Garland vuole distruggere gli Stati Uniti

Il suo nuovo film, appena arrivato nelle sale italiane, è una sfida a tutte le certezze americane, a tutte le sicurezze dell'Occidente.

di Francesco Gerardi

Civil War di Alex Garland è il film sui peggiori anni della nostra vita. Tutto ciò che di inimmaginabile, incomprensibile e sconvolgente abbiamo visto in questo disgraziato quadriennio lo si rivede in questo film. L’enfasi va sulle parole “vedere” e “rivedere”, perché Civil War è anche e soprattutto un film sull’immagine: protagoniste sono le war photographer Lee Smith (Kirsten Dunst) e Jesse Cullen (Cailee Spaeny), la prima veterana e la seconda novellina, penultima e ultima portatrice della fiamma sacra accesa da Lee Miller, leggendaria corrispondente di guerra di Vogue, che scrisse e fotografò la Londra bombardata, la Parigi liberata, la Normandia devastata, Buchenwald e Dachau.

Dunque l’immagine-fotografia, che Garland però non intende né come oggetto né come pratica ma come spazio: quello che separa l’essere umano dalla realtà, quello in cui si disperde la capacità dell’essere umano prima di capire e poi di percepire la realtà, quello in cui si combatte la guerra tra l’ordine morale che governa l’interiorità umana e i flussi caotici che travolgono il mondo al di fuori. Soprattutto, l’immagine-fotografia è lo spazio in cui Garland anche questa volta ambienta la sua storia preferita: quella della disintegrazione, dell’annichilimento, di una fessura che si apre, che si allarga in frattura, che si allarga ancora fino a diventare spaccatura che rompe irrimediabilmente l’unità iniziale. È la storia che Garland ha raccontato in diverse forme e in diversi spazi in tutti i suoi film precedenti: Ex Machina, Annihilation, Men, tutti film sulla disgregazione. E che stavolta ha deciso di portare fino alla massima scala realmente concepibile, percepibile, esperibile dalla mente umana: quella di uno Stato nazione e di un popolo intero. E ovviamente dello Stato nazione e del popolo che tutti concepiamo, percepiamo, esperiamo come il più grande di qualunque altro, gli Stati Uniti d’America.

Non succede ma se succede è una frase che negli ultimi anni è venuta in mente spesso. La prima pandemia dopo un secolo di tregua con il nemico microscopico, la successione di disastri naturali causati dalla crisi climatica, l’ennesima crisi depressiva nella terza età del capitalismo occidentale, la Russia che invade l’Ucraina, l’eccidio di Hamas nei kibbutz israeliani, la vendetta stragista di Israele. In un disperato tentativo di proteggere il nostro spazio interiore dalla disintegrazione, dall’annichilimento, abbiamo aggiornato il non succede ma se succede: anche se succede, succede comunque altrove, ad altri. In Civil War Garland viola proprio questo tabù finale, insidia tutti coloro che di fronte alle avversità si rivolgono al cielo urlando “perché proprio a me?”, lamentazione che tutti abbiamo fatto in questi anni, mentre vivevamo per la prima volta avversità che in altre parti, per altre persone sono la quotidiana lotta. Perché non a te?, risponde Garland.

Perché non a Washington invece che a Kiev, perché non negli Stati Uniti invece che nella Striscia di Gaza, perché non agli abitanti del primo mondo invece che a quelli di quello che un tempo veniva definito il terzo. Civil War è la suola di uno stivale da combattimento che calpesta e spegne i tizzoni tiepidi di quello che un tempo era il fuoco divampante dell’eccezionalismo americano (ma non solo americano). È il contrario della speculative fiction alla quale è stato ridotto dalla superficialità della critica, l’opposto di un what if, il rifiuto dell’ucronia e della distopia: succede, succede qui e ora, succede adesso perché è già successo in passato. Negli Stati Uniti una guerra civile si è già combattuta in passato, alla fine dell’ultima tornata elettorale un’orda golpista ha fatto irruzione a Capitol Hill telecomandata da un ex presidente che aveva deciso di essere ancora presidente, tra poco più di un anno ci sarà una nuova elezione presidenziale: perché non a te?, dunque.

Nel tentativo di disintegrare questa convinzione – la più pervicace forma di privilegio occidentale – che se succede, succede altrove, ad altri, Garland fa di Civil War non un film di guerra ma un road movie. I protagonisti però non si muovono né nel tempo né nello spazio, ma in quell’ibrido di queste due dimensioni che è la memoria collettiva. A bordo del loro pick up, attraversano le scene – le immagini, ancora una volta – che tutti abbiamo visto in questi anni che sono stati i peggiori della nostra vita: le metropoli deserte, le fosse comuni lungo le strade di campagna, le foreste che prendono fuoco all’improvviso, le macerie e la cenere che coprono tutto, la storia della nostra recente disintegrazione. Durante questo viaggio in quello che già ci è successo (e quindi perché non dovrebbe succedere di nuovo, proprio a noi) ma che ancora dobbiamo capire (gli effetti sulla psiche collettiva di questo disgraziato quadriennio sono immisurabili, ancora), Lee e Jesse scattano fotografie. E ogni fotografia è una fessura che diventa frattura che si allarga in spaccatura, un’astrazione estetica della realtà – il fatto che Lee e Jesse scattino in bianco e nero non è certo un omaggio alla Magnum Photos e basta – e non la sua essenza spiegata. Garland qui vuole disintegrare un altro inutile adagio della contemporaneità, reso adesso dannoso dalla proliferazione delle immagini in cui tutti viviamo: quello secondo il quale un’immagine vale più di mille parole. Cos’è una foto senza le mille parole che servono a spiegarla? Cos’è un’immagine senza le mille parole che non bastano a raccontarne la storia? È abitudine, è fruizione, è consumo, è scrolling: esattamente quello che facciamo tutti tutto il giorno tutti i giorni, esattamente la ragione per la quale l’immagine è diventata lo spazio della disintegrazione, il ponte abbattuto tra individuo e società, tra persona e mondo.

La fondatezza di questa tesi, che Garland avanza nel film in maniera persino pedissequa – in mezzo a una guerra civile, la giovanissima Jesse passa il tempo a scorrere il suo archivio personale di foto per scegliere quella migliore da mostrare, per dire che idea abbia Garland della gioventù e della modernità – è dimostrata dal modo in cui il film è stato accolto e commentato soprattutto negli Stati Uniti. Garland è stato accusato di aver fatto un film cinico, apatico, nichilista, qualunquista persino (nessuno però ha avuto l’ardire di usare la parola pigrizia, sapendo che il film è talmente ossessionato dalla verosimiglianza da aver preteso l’utilizzo di vere macchine da guerra, veri carrarmati e veri elicotteri), quando invece se un difetto questo film ce l’ha è proprio l’eccesso di romanticismo: Garland ha detto di averlo inteso come un omaggio – deprimente certo, come la registrazione del canto di un uccello ormai estinto – al mestiere di giornalista, agli amici del suo papà vignettista che da bambino ascoltava mentre discutevano delle cose del mondo nel salotto di casa sua. Non ha citato nemmeno un film né un regista, tra le influenze di Civil War, Garland. Solo vecchi notiziari e fotografie ingiallite, tanto ha voluto essere esplicito nelle sue aspirazioni e ispirazioni.

Tutte quelle accuse a Garland sono state rivolte perché non ha fornito linee guida ideologiche al pubblico, perché non ha lasciato all’ingresso della sala bussole morali per tutti. Non sappiamo perché nella sua versione degli Stati Uniti sia in corso una guerra civile: non abbiamo idea del perché il Presidente abbia deciso di violare la Costituzione candidandosi (e vincendo) per un terzo mandato né sappiamo perché a un certo punto abbia deciso di bombardare i suoi concittadini. Non ci viene spiegata la ragione per la quale le Forze dell’Ovest di Texas e California o l’Alleanza della Florida abbiano deciso per la secessione, né i motivi che le hanno spinte fino ad attaccare il Campidoglio. Non sappiamo chi siano i Repubblicani e chi i Democratici, in questa storia.

Ma il punto di Civil War è esattamente questo: che cos’è una fotografia – e il suo film questo è, in sostanza: una finzione estetizzata di un’America possibile, proprio come le fotografie di Lee e Jesse – senza le mille parole che servono a descriverla? Cos’è una nazione senza le ideologie e le mitologie? Cos’è una guerra senza la storia? E soprattutto: di fronte a immagini di indicibile violenza, ha senso chiederselo? Se il Presidente che ordina il bombardamento del suo stesso Paese fosse un democratico in guerra contro l’esercito dell’alt-right, quale e quanta differenza ci sarebbe. Se gli eserciti secessionisti che riempiono fosse comuni del tipo di cittadino americano che loro ritengono sbagliato fossero repubblicani, quale e quanta differenza ci sarebbe. Vedendo soltanto una foto – o un film – di tutto questo, riusciremmo a capire le differenze e a decidere da che parte stare in una guerra civile?