Industry | Moda
Iper femminilità e confusione alla fashion week di Milano
Tra debutti molto cauti e poche collezioni d'impatto, cos'è successo durante le sfilate di Milano.
Gucci Primavera Estate 2023. Ph by Matteo Canestraro
L’ultima volta che le sfilate per le collezioni femminili sono passate da Milano era appena scoppiata la guerra in Ucraina e il senso di straniamento di fronte all’enormità dell’evento era palpabile, sia dal vivo che nei feed social dove agli show si alternavano le notizie e le immagini del conflitto. La moda è un affare globale e il suo racconto oggi non può che diramarsi in diretta – e spesso in concomitanza – con tutto ciò che succede nel mondo, ma questa volta la sempre più breve e compressa fashion week di Milano, di fatto solo tre giorni e mezzo di sfilate ed eventi serratissimi, è successa in congiuntura con il ritorno al voto in Italia, un avvenimento che certo non può scatenare solidarietà internazionale (semmai preoccupazione) o facili slogan, quanto invece una riflessione più ampia sull’idea di società che questo Paese sa, e vuole, esprimere tramite la sua moda. Non sono mancati gli appelli sinceri al voto – quelli di Donatella Versace, Pierpaolo Piccioli, Alessandro Michele e Luchino Magliano, ma anche dei designer che hanno voluto aderire all’invito di Vogue Italia – mentre le collezioni viste in passerella hanno offerto svariate declinazioni di femminilità esibitissima (con rare eccezioni, che incidentalmente sono coincise con alcuni degli show migliori) e, duole constatarlo, poche altre idee.
I debutti della settimana
A cominciare dai debutti, che in questa stagione erano tanti: Maximilian Davis da Ferragamo, Marco De Vincenzo da Etro, Filippo Grazioli da Missoni e Rhuigi Villaseñor da Bally. Nell’accaparrarsi il direttore creativo di turno, negli anni abbiamo visto molti marchi cercare di catalizzare l’hype intorno al nuovo arrivato senza però assumersi la responsabilità di lasciare completa libertà d’espressione oppure, al contrario, schiantarsi su alleanze improbabili con il tatto di Enrico Letta. È vero che una collezione è un esercizio di sintesi, o meglio di compromesso, e che una collezione d’esordio va sempre giudicata con cautela, perché è l’inizio di un percorso che dovrebbe avere il tempo di esprimersi, ma è vero anche che i debutti di questi giorni si sono mossi tutti in un territorio abbastanza sicuro.
Davis, che ha tolto “Salvatore” dal logo del marchio italiano, ha disegnato una collezione pulita nelle linee che si ispirava alla storia hollywoodiana dello stesso Salvatore, e intendeva proporre la sua idea di celebrità – una nuova Hollywood che vuole scrollarsi di dosso il glamour polveroso – concentrandosi su quanto di quell’heritage fosse ancora rilevante per il presente. Il lavoro fatto su scarpe, borse e accessori è ammirevole per un designer ventisettenne che ha alle spalle poche collezioni con il marchio che porta il suo nome ma, comprensibilmente, la sua visione per Ferragamo ha ancora bisogno di dispiegarsi (sarà interessante vedere a quali volti celebri sceglierà di affidarsi). Anche Grazioli da Missoni ha lavorato di sottrazione, scegliendo di ridurre la palette cromatica, aggiungere nuovi materiali oltre alla maglieria per cui il brand è celebre e aumentare il livello di sensualità dei suoi abiti, mentre la femminilità delicata e complessa per cui amiamo Marco De Vincenzo non è riuscita a emergere del tutto nella sua prima collezione per Etro. Villaseñor da Bally, infine, ha scelto di dare vita alla sua idea di ricchezza californiana con la spensieratezza che già ha reso il suo marchio, Rhude, un fenomeno di culto: è un’idea di ricchezza molto sfrontata, molto sexy e per certi versi molto scontata, ma ciò che conta per chi viene dallo streetwear è avere una scena di riferimento, e lui ce l’ha. La pesantezza dell’eredità culturale di un marchio è d’altronde un fardello non da poco e le prime volte non sono mai facili.
Riflessioni sulla femminilità ed estetiche che ritornano
La sua prima volta l’aveva affrontata benissimo, lo scorso febbraio, Glenn Martens da Diesel, la cui influenza è ormai plateale su tutte le passerelle: c’entra sicuramente il ritorno dell’estetica Y2K [lo stile anni 2000, ndr] in cui stiamo affogando, c’entra l’abilità di Martens di maneggiare il denim con una maestria impareggiabile ma c’entra soprattutto la sua capacità di rimettere Diesel al centro della cultura pop. Alla sfilata, che si è tenuta all’Allianz Cloud Arena, c’erano quasi cinquemila persone (tra cui Julia Fox): dei tremila biglietti che sono stati offerti al pubblico milleseicento erano riservati agli studenti. I jeans, appunto, sono di tutt*. Anche Moncler ha voluto offrire uno spettacolo aperto al pubblico e la sera di sabato 24 settembre, nonostante la pioggia, ha occupato piazza Duomo con una speciale performance che celebrava i settant’anni del marchio e la riedizione della giacca Maya: vi hanno partecipato millenovecentocinquantadue tra modelli e ballerini, 1952 che è anche l’anno di fondazione del brand guidato da Remo Ruffini. Il ritorno agli anni Duemila si porta dietro, però, una certa idea di corpo e di femminilità, che sembra oggi riproporsi piuttosto simile a quella che ha traumatizzato i Millennial durante la loro adolescenza: di forme in passerella se ne sono viste molto poche, a dimostrazione di come il discorso sull’inclusività si arrovelli ancora intorno alla taglia, barriera insormontabile con cui pochissimi designer si sentono a proprio agio.
L’iper femminilità di questi tempi, va detto, è comunque molto diversa nelle intenzioni da quella con cui siamo cresciuti noi trentenni: trend genuinamente internettiani come il “Bimbocore” e il “Barbiecore” che impazzano su TikTok, lo spiega bene la youtuber Mina Lee, si riappropriano di un’estetica, di determinati colori (come l’Hot Pink, che sostituisce il Millennial Pink simbolo della Girl Boss) e di paccottiglie sbrilluccicanti (fermagli, minibag, ciondoli) con una nuova consapevolezza che le ragazze di oggi non hanno paura di definire femminista. Senza tirare in ballo le conigliette di Playboy e Gloria Steinem, sull’esibizione del corpo delle donne si combattono ancora le solite imperiture battaglie, tra la voglia di riappropriarsi del proprio capitale erotico e il rifiuto dell’omologazione all’ideale di bellezza della società. Quella tensione si esprime anche nel modo in cui guardiamo alle parabole delle donne protagoniste di quegli anni: Paris Hilton, dice Mina Lee, è passata dall’etichetta dell’ereditiera famosa per essere famosa a essere celebrata come un’imprenditrice intelligente e una donna che, seppur nell’agio della sua ricchezza, ha avuto anche lei una vita difficile, come racconta nel suo documentario, e non è un caso che sia stata proprio lei, in un minidress ovviamente rosa e ovviamente di paillettes, a chiudere la sfilata delle sacerdotesse eretiche di Donatella Versace, che sul cattivo gusto lavora da sempre ma rivendicandolo, anche quella è libertà.
Nuovi punti di vista?
L’onda lunga del ritorno dell’erotismo in passerella, e nello specifico dei corpi scoperti ed esibiti, è probabilmente la più ovvia delle reazioni post Covid e in questi giorni ne abbiamo viste molte declinazioni, dalle sirene di Blumarine alle eleganti signore scocciate di N°21, dalle spose di MSGM alle ragazze in catsuit di Andrea Adamo, tutti ottimi show che però all’immaginario della nuova iper femminilità non hanno aggiunto molto. Non si tratta dell’occasionale uscita della modella fuori taglia campionario, sempre apprezzata quando funziona (da Adamo, ad esempio, funzionava), quanto piuttosto di inserire il tassello che manca al ritorno dell’ennesimo immaginario ripescato dalla nostalgia. Sarà perché su TikTok le ragazze “bimbo” o “Barbie” possono costruirsi delle vere e proprie personalità alternative, video dopo video, mentre una sfilata si conclude inevitabilmente in una gallery di foto, o sarà perché gli abiti sono solo accessori in questo processo di ridefinizione e, più in generale, meno capaci di una volta di esprimere idee “nuove”? Una domanda che, sinceramente, mi sono fatta molto spesso in questa settimana.
C’è anche chi, come Marco Rambaldi, il suo messaggio lo costruisce attraverso il casting e il senso di comunità attorno al marchio oppure chi, come Vitelli, sceglie di rendere il momento della sfilata parte integrante di un più lungo programma di performance musicali, durato un’intera giornata, che si rifaceva a “The 14 Hour Technicolor Dream”, concerto contro-culturale di raccolta fondi tenutosi nel 1967 all’Alexandra Palace di Londra. Il modo in cui Vitelli guarda e rielabora la tradizione artigianale italiana dell’alta maglieria, senza mai rinnegarne il lavoro collettivo che la rende possibile ma anzi innalzandolo a manifesto, è uno dei punti di vista più interessanti che Milano offre oggi, in particolare per i legami che ha con la scena creativa della città: se succedesse a Londra o a Parigi sarebbe già la cosa più giusta su tutti i giornali di settore ma, appunto, siamo in Italia. Anche A Better Mistake, marchio che collabora abitualmente con artisti e designer, ha scelto la formula della presentazione, modellando la collezione sui corpi di ballerini provenienti dalla Scala di Milano e dalle scene voguing e rave. Sunnei, invece, continua nella sua operazione di rottura del formato della sfilata tradizionale e manda in scena una performance dove il gioco era stabilire chi era colei o colui che avrebbe calcato la passerella (i modelli erano in parte “nascosti” tra il pubblico nei loro abiti normali, in parte nel backstage): un rompicapo divertente che ha creato reazioni di genuina ilarità nel pubblico.
Non è facile emergere in un calendario così denso di appuntamenti e grossi nomi, perciò fa piacere vedere il supporto di Valentino e Pierpaolo Piccioli a Luca Lin e Galib Gassanof di Act N°1, che continuano nella loro personale riflessione sull’identità culturale e dimostrano di essere capaci di un decorativismo fresco (bellissimo l’abito con i Casio vintage) e intelligente. Era una riflessione sulla maternità, invece, la collezione di Jezabelle Cormio, che all’interno di Villa de Ponti Martesana ha ricreato lo spazio privato e caotico di una famiglia, invaso dai giochi per bambini fin quasi al soffocamento, a significare l’esperienza ambigua dell’essere genitori, e dell’essere genitori Millennial in Italia, cresciuti con i Polly Pocket, come quelli dell’invito, e il jingle di Casa Vianello, che ha chiuso la sfilata, genitori che hanno amici senza figli che guardano con terrore reverenziale, e un certo malcelato sollievo, a quello di cui sono capaci i pargoli in età prescolare. La scritta Live Laugh Love campeggia ossessiva su T-shirt e vestiti, le ciabatte glitter sono l’unica opzione possibile e il pigiama il vero passe-partout, mentre la voce di Giorgia, quella Giorgia, irrompe nella colonna sonora di una radio impazzita, probabilmente manovrata da qualche diabolico treenne. Zuccherosa e intellettuale: la donna di Cormio somiglia molto agli avatar digitali delle ragazze su TikTok, è la loro sorella maggiore, è una delle tante incarnazioni della femminilità in divenire di una generazione che ogni giorno tenta di ridefinire, o forse capire, cosa significa essere adulti.
Couture sovversive, storie di gemelli e abiti impeccabilmente belli
Se, infine, Kim Kardashian da Dolce & Gabbana rappresentava l’apice massimo dell’hyperfemininity qui discussa – lei che i sacrifici per raggiungere il corpo ideale non li hai mai nascosti e che ormai sembra aver definitivamente rinunciato alle curve per riabbracciare la cara vecchia magrezza – ci sono stati poi show dove la riflessione sul femminile era puntata in altre direzioni. A cominciare dalla collezione di Prada, che era anch’essa rinchiusa in una casa, di carta nera, nella scenografia opprimente realizzata da Nicolas Winding Refn in collaborazione con AMO, una sublimazione della sfera domestica che non aveva niente di rassicurante. Come nelle precedenti stagioni, Miuccia Prada e Raf Simons lavorano sugli opposti, riproponendo negli abiti l’effetto della carta con speciali lavorazioni, imprimendo pieghe studiatissime nei tessuti e mescolando workwear e couture: i cappotti eleganti si fondono con le giacche di pelle, la sartoria prende in prestito strascichi di tessuto, in una serie di rimandi che gli appassionati potranno divertirsi a sbrogliare (qui un thread con alcune delle meta citazioni). Persino le sottane da notte, insospettabilmente romantiche, diventano trench, mentre compaiono delle rose primitive a tenere ferme le stole e a offrire decori su borse e giacche, un classico elemento di graziosità qui opportunamente sbeffeggiato. Controcorrente, sempre, checché se ne dica.
Alla sua seconda prova da Bottega Veneta, Matthieu Blazy ha invece pienamente dimostrato di aver sviluppato tutti gli spunti lanciati nella sua collezione d’esordio. La Primavera Estate 2023 è infatti un esercizio che rasenta la perfezione di una certa eleganza che sembrava mancare da molto tempo sulle passerelle: ispirandosi al design giocoso di Gaetano Pesce e ai suoi colori, che per l’occasione aveva allestito il set della sfilata con una speciale installazione, Blazy ha ricordato a tutt* di cosa sono fatti i vestiti veramente belli, che valgono la parola lusso: abilità sartoriale, ma soprattutto lavorazioni e materiali preziosissimi. Lo show più emotivo, nel senso migliore del termine, è stato poi quello di Alessandro Michele da Gucci, tornato, questa stagione, a raccontare una storia personalissima – quella di sua madre e della sua sorella gemella, con cui è cresciuto: ne aveva parlato anche nella nostra intervista – e a farlo nella maniera spettacolare e intima che solo lui sa costruire. Sessantotto coppie di gemelli, inizialmente divisi da una barriera, si sono ricongiunte in passerella prendendosi per mano e sfilando insieme fino a lasciarsi nuovamente. Tra le uscite, oltre a un tailoring sovversivo fatto di pantaloni tagliati dall’inguine alla coscia, c’era anche un omaggio al FUORI!!!, il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano che lo scorso anno ha compiuto cinquant’anni. Un omaggio a un’Italia che si immaginava diversa e che, sembra dirci Alessandro Michele, c’è sempre stata e sempre ci sarà.