Cultura | Dal numero

Dialogo tra Alessandro Borghi e Alessandro Michele

Una conversazione intima fra Alessandro Borghi, curatore del numero 45 di Rivista Studio, e il designer più celebrato di questi anni, quello che con Gucci ha rivoluzionato la moda così come la conoscevamo. Un incontro fatto di ricordi di infanzia, considerazioni sul mondo, la bellezza, il futuro, la natura. E un confronto importante sul cinema.

di Alessandro Borghi

Alessandro Borghi: Vorrei cominciare parlando dell’origine di Alessandro Michele, non come professionista ma come essere umano, qualche ricordo che hai della tua infanzia, legato a un’immagine. A me succede molto spesso di avere dei flash di me stesso da bambino, con mia madre che mi mette una coperta addosso piuttosto che un albero della casa in campagna. A te?

Alessandro Michele: Ho un ricordo bellissimo, particolarmente nitido, di me bambino, credo che facessi la prima elementare o qualcosa del genere, forse l’ultimo anno dell’asilo, vivevamo a Monte Sacro Vecchio. In una giornata sai di quelle romane – Roma secondo me ha di quelle giornate primaverili, di quelle situazioni climatiche che alle volte sono come delle benedizioni divine e tu percepisci di essere un privilegiato. Io già da bambino questa cosa la sentivo, e c’è un momento che infatti mi torna alla mente in maniera nitida, quando vedo quelle giornate: uscivo da scuola, una scuola cattolica vicino casa, credo mi fossero venute a prendere le gemelle, mia mamma e sua sorella, vivevamo in due appartamenti comunicanti all’epoca. Io torno con il panierino porta pranzo di quando ero piccolo. Mi ricordo questa giornata di sole, era già iniziata la primavera, e io avevo sempre voglia di scoprirmi, andavo sempre da mia madre tutto mezzo nudo perché mi toglievo maglie e magliettine. Esco e trovo le gemelle, che erano spesso vestite uguali solo in variante di colore, sedute a un tavolo che prendevano il caffè e ridevano tantissimo, con questa luce pazzesca, ed è un’immagine che mi è rimasta in testa. Un’immagine di donne, quanto fossero complici. In verità la vera famiglia erano loro due, era un matriarcato, i maschi erano completamente soggiogati da queste due maghe Circe, ma anche io eh! Mi ricordo il sole, le vedo tutte e due con questo chemisier, una in rosa e una in celeste, che ridevano come delle pazze. È un’immagine che mi è rimasta, l’immagine che dice che la vita è stare a fare delle chiacchiere a un bar, in una giornata di sole, tanto siamo destinati meravigliosamente a morire, e siamo meravigliosamente vivi. Io da bambino sono stato molto felice, in una famiglia allargata, formata da due mamme, da vari uomini e da una cugina che era una sorella. Forse mi è rimasta impressa questa immagine perché, come dico sempre, io sono un cuor contento.

AB. Poi, a un certo punto, hai deciso di andartene. Lo hai fatto perché avevi realmente la percezione che restando lì non avresti potuto raggiungere quello che avevi in testa, o è stata una cosa dettata da altre necessità? E soprattutto, a un certo punto, quanto è stato importante ritornare? Cioè, quanto è importante andarsene e quanto poi ritornare da dove si è partiti, quando invece si potrebbe sopravvivere altrove?

AM. Io avevo due motivi per andare. Uno, è che sentivo di essere un bambino speciale. Poi ce ne saranno tanti di bambini speciali, probabilmente lo siamo stati tutti, ma sentivo che dal posto dove stavo, crescendo, dovevo allontanarmi. È stato un allontanamento dal quale non ho potuto esimermi, l’essere diverso in quegli ambienti lì delle periferie romane è difficile, da un lato c’era una grande umanità, perché ho incontrato anche delle persone meravigliose, oserei dire anche dei maschi alfa meravigliosi, che mi avevano già capito, ma non tutti avevano questa apertura. Il secondo motivo è che io ero un sognatore. Ho sognato finché ho potuto, poi i sogni non erano più sufficienti, dovevo concretizzarli, e quindi ho fatto la valigia. È stato difficile andare via. Ero abbastanza giovane, me ne sono andato in un’altra città e ci sono stato finché ho potuto. Poi una volta che ti sei formato spesso avverti la necessità di ritrovare i luoghi a cui sei appartenuto. Adesso ogni tanto sento un gran bisogno di parlare con un cugino, di ritrovare una strada. Sai cos’è? Credo sia capitato anche a te: quando la tua persona si comincia a spezzettare in un milione di frammenti, diventi un po’ popolare e molti sanno chi sei, il tuo cognome e il tuo nome messi insieme quasi si svalorizzano, non hanno più senso. Non sei più solo Alessandro. Ma Alessandro è stato Alessandro che era sotto casa a giocare a basket, poi Alessandro è diventato Alessandro Michele, un nome che detto così quasi se ne vola via. Allora tornare da dove vengo mi serve a riafferrare questo nome. Io sono Ale, sono Alessandro, sono stato un ragazzino, il mio nome l’ha scelto mio padre, capito?

Alessandro Michele, foto di Giovanni Attili

AB. Ti capisco. Io vivo ancora nel quartiere dove sono cresciuto, camminando è un continuo susseguirsi di “questa è la strada che facevo per andare a scuola”, “questo è il posto dove ho incontrato…”, tutto mi riporta subito in una dimensione che aiuta tantissimo a ricordarmi da dove sono venuto e chi era Alessandro, appunto, che nel mio caso giocava a calcetto alla parrocchia. Mi piace moltissimo ricollegare a te l’idea delle immagini, condividiamo una relazione con il cinema che è imprescindibile, per me perché è diventato con gli anni il mio lavoro, per te perché mi sembra sia sempre più una parte fondamentale del tuo modo di raccontare quello che fai. Ma del cinema parliamo dopo. Mi dici prima se c’è un incontro che ha cambiato la tua percezione delle cose?

AM. Ne citerei due. Uno è stato quello con Giulio Argan, lo storico dell’arte, conosciuto quando frequentavo il liceo. È venuto a parlare a scuola, io sono stato sempre un grande appassionato d’arte, la mia passione per l’immagine è nata da bambino, credo, ma quando ho sentito parlare Argan, quello che gli ho sentito dire quel giorno, mi ha affascinato totalmente. Uscii da scuola pensando che quella cosa chiamata arte era di fatto una forma di religione; un incontro fondamentale. L’altro che citerei è Piero Tosi, il grande costumista. Incontrandolo, ho capito la gentilezza della passione, la bellezza e la semplicità della complicazione di essere. Lui era una persona complessa, deve aver avuto una testa incredibile, ma aveva un cuore così gentile. Ero un ragazzino, mi ricordo che arrivò questo piccolo uomo elegantissimo, con questa giacca di grisaglia che guardava noi giovanissimi che eravamo nella sala, io mi sono emozionato, gli ho dato anche la mano. Da adulto poi l’ho conosciuto, sono andato a casa sua a prendere un caffè, lui è morto l’anno dopo. Tosi è stato quello che mi ha fatto capire che i vestiti erano importanti perché dentro c’era l’umano. I vestiti, senza quel mucchio di atomi e di cellule che siamo noi, non hanno senso di esistere. Da lì ho iniziato a capire che relazione strettissima c’era tra loro e chi li indossava, la forma che conteneva quell’umanità. Sono cresciuto con una mamma cinematografara, avrò visto La rosa tatuata cento volte, I soliti ignoti pure, credo di saperli a memoria. I ragazzini vedevano Jeeg Robot, io vedevo la Magnani. Mamma sognava un pezzo di vita attraverso i film, praticamente ha fatto la psicanalisi con il cinema, le ha riempito tutti quei vuoti. Diciamo che io, crescendo, ho messo un piede in quel mondo, ma attraverso i vestiti. Poi, che ti devo dire, ho conosciuto tante persone che mi hanno fatto cambiare idea, ancora oggi conosco delle persone che mi fanno cambiare idea. Sono un chiacchierone, ma lo sono perché mi piacciono anche le chiacchiere degli altri. E ne sono influenzato, continuamente. Mi auguro di continuare ad esserlo, da quello che succede, dalle persone che incontro, dai caffè che prendo, dalle cene e dai pranzi. Tipo da questa nostra chiacchierata, come dalla prima che abbiamo fatto dopo che avevo visto un tuo film. Gli incontri che ho fatto mi hanno cambiato la vita.

«È un’immagine che mi è rimasta, l’immagine che dice che la vita è stare a fare delle chiacchiere a un bar, in una giornata di sole, tanto siamo destinati meravigliosamente a morire, e siamo meravigliosamente vivi»

AB. C’è una cosa che ti imbarazza?

AM. Come si dice a Monte Sacro Vecchio, mi imbarazza quando mi mettono in mezzo. Ho ancora un problema col fatto di essere al centro dell’attenzione, è l’unica cosa del mio lavoro che mi ha imbarazzato e che mi imbarazza tuttora. Per il resto non ho grandi problemi a riguardo, sono autoironico, non ho paura di risultare ridicolo, sono uno che si mette in gioco. In più ho la fortuna di aver imparato a non temere di sbagliare. Anzi, ci tengo molto ai miei errori, me li voglio coccolare, me li voglio permettere.

AB. Capisco. Mi piace molto parlare con te perché alcune volte mi sembra di sentire me stesso. Quando inizi un percorso, c’è questa ossessione di voler fare le cose per forza meglio degli altri. Poi ti rendi conto di dover far pace col fatto di essere te stesso, e cominciare a preoccuparti di meno, di non voler per forza ricercare la perfezione, accogliendo gli errori come una fase necessaria. Senti, hai mai pensato di cambiare lavoro o percorso? Cosa faresti se ora non fossi Alessandro Michele?

AM. Ultimamente sono appassionato di terra. Mi piace molto la terra, sento molto il richiamo della campagna, quindi ho restipulato un grande accordo con la natura e con il mondo rurale, che poi è il mondo da dove vengo. Potrei dedicarmici, ma credo che adesso forse la cosa che farei se non facessi questo lavoro, sarebbe il cinema. Ho fatto da poco questo esperimento con Gus Van Sant, la co-regia con lui di “Ouverture of Something That Never Ended”, la serie con cui abbiamo presentato la nuova collezione di Gucci. Ovviamente l’ho fatto in punta di piedi, lui è un grandissimo visionario, e quindi io mi sono messo in un angolo, anche solo per dialogare e permettermi di dire le cose che vedevo in modo diverso; averle condivise con lui per me è stato un grande esperimento. Alla fine ho fatto il garzone di Gus Van Sant, però intanto ho un po’ spiato, e ho capito quanto mi piacciono queste immagini in movimento, portarle a un’altra frequenza rispetto a quanto faccio di solito – io ho sempre lavorato con Glen Luchford su video musicali, dove c’era una narrativa diversa. Avendo adesso rallentato il ritmo delle immagini, avendo provato la poesia della telecamera, ti direi che io un esperimento nel cinema, anche solo per farmi dare dell’asino, se non avessi da fare, lo proverei. Gioco in casa con te, lo so, ma il cinema ha davvero qualcosa di misterioso e di affascinante. Mi ci metterei anche solo per permettermi il lusso di averci provato. Sarà che esco da un mare magnum di immagini, giorni e giorni entrando e uscendo dal van col monitor, al freddo, per strada. Faticosissimo, fra l’altro. Non avevo mai fatto una cosa così faticosa. Io mi chiedo te, voi, come fate. Ho pensato a tutti gli amici attori, che vita. Stimo moltissimo chi riesce a fare e produrre questa cosa che è il cinema, una macchina veramente impressionante.

La copertina del numero 45 di Rivista Studio

AB. Credo che l’unica cosa che ti consenta di farlo in una determinata maniera sia la necessità che hai di raccontare quella storia. Quanta voglia hai di portare a termine questo racconto? Tutto dipende da questo, perché sennò al primo freddo, alle prime tredici ore di set, al primo bagno nell’acqua gelata, sembrerà sempre di non avere abbastanza in cambio. Senti, visto che siamo in tema, prendiamoci un attimo per parlare meglio di questo progetto con Gus Van Sant.

AM. Lo dicevi prima, sento il bisogno di raccontare, sono figlio di un raccontatore, mio papà, credo sia una cosa importante. Nasce da questo l’idea, ma è una gestazione che è durata anni. Ci sta poi che la pandemia mi abbia portato a riflessioni di altro tipo, abbia accelerato un processo, ma era un po’ che dialogavo con Gus, è stato una grande icona della mia giovinezza. A un certo punto mi ricordo di aver pensato: “Chissà dov’è e cosa fa”, e così l’ho cercato e abbiamo iniziato una conversazione. Tutto è nato perché ho immaginato di raccontare quello che chiamo il pellegrinare dei vestiti, la storia dell’umano che li indossa, il tempo che passa lento. Stando fermo, poi, ho scoperto come è bella la routine, come sono belli i gesti di quando camminiamo, di quando ci alziamo la mattina, le cose lente che facciamo tutti i giorni. Ho rallentato tutto, anche le persone; è un racconto dove non succede niente. L’idea è nata da me, quella di seguire una persona e le cose che le acca- dono e che non per forza portano a qualcosa. Al contrario di quello che succede nel cinema, che invece ha la necessità di arrivare a un punto. Ho preso il format meraviglioso delle serie televisive, e l’ho interpretato a modo mio, ma con Gus Van Sant, che già abbracciava un po’ questa mia maniera di vedere le cose, ho chiamato lui per quello. In questa storia c’è dentro un pezzo di vita apparentemente congelato, è un po’ come io sto vivendo questo momento, un respiro di sollievo nonostante ci sia un’oppressione, ho pensato a quante piccole cose succedono apparentemente e involontariamente. La definirei una narrazione poetica di un guardone che osserva una ragazza, e che la fa interagire con dei personaggi in maniera onirica e surreale, dando vita anche a dei dialoghi impossibili, quelli di cui sono piene le nostre vite. Soprattutto, ho utilizzato un po’ di miei amici, essendo fortunato ad aver un bacino largo da cui pescare. Qualcuno la serie la amerà, qualcuno no, io trovo che sia sincera e anche coraggiosa, qualcuno si chiederà cosa abbiamo combinato, cioè probabilmente a Gus Van Sant lo diranno meno, essendosi guadagnato una rispettabilità nel cinema che io sicuramente non ho. Da lui ho scoperto che si può essere grandissimi in una maniera così poeticamente semplice. Nonostante sia chi è, Gus Van Sant ascolta quello che dici, impressionante. Questo è stato il progetto. Sette episodi che sono un inno alla lentezza, una preghiera ai gesti, ai movimenti, alle facce belle, alle facce strane, al cinema che ha sempre decantato l’umano.

«Alessandro è stato Alessandro che era sotto casa a giocare a basket, poi Alessandro è diventato Alessandro Michele, un nome che detto così quasi se ne vola via. Allora tornare da dove vengo mi serve a riafferrare questo nome»

AB. Lentezza che è un po’ la trasfigurazione del momento storico che stiamo vivendo. A proposito di momento storico, siamo in un’epoca in cui, un po’ per la globalizzazione, un po’ per l’esplodere dei social network, tutti possono esprimere la propria opinione su tutto. Io su questo sono molto combattuto: quanto ne abbiamo bisogno davvero? Quanto bisogno c’è di ascoltare le idee di tutti su tutto?

AM. È un pensiero che faccio molto spesso, perché ovviamente a me non interessano le opinioni di tutti. È una cosa umana: a noi interessano alcune opinioni, altre non ci piacciono, non le vorremmo sentire. Quello che penso è che siamo in un periodo di grande transizione, dove ci sono paure enormi. Inconsciamente, non sappiamo se questo pianeta ci sarà, non sappiamo se sopravvivremo, adesso poi siamo tutti chiusi in casa, la morte ci è venuta a bussare alla porta. Io penso che siamo anche un po’ repressi, ci sono state comunità a cui non è stata data voce, persone che sono state invisibili, come se non fossero esistite. Al di là di quello che succede in questi mesi, io credo che stiamo transitando da anni; dall’epoca vittoriana, dalla rivoluzione industriale, ci siamo evoluti certo, ma i modelli e il mondo sono praticamente rimasti gli stessi. Sono partito da così lontano per dirti che, in un momento di grande transizione e incertezza come questo, tutti hanno necessità di parlare. È come durante le rivoluzioni: le persone non hanno parlato per molto tempo, e quindi guai a non dare voce a qualcuno, anche se dice cose profondamente sbagliate, o che non ci piacciono. Questa grande conversazione globale, che ormai avviene sui social network, passa anche attraverso la voce di quello che secondo noi sbaglia, perché per reazione ci porta a formulare pensieri utili, costruttivi. Dobbiamo essere meno egoisti, non dobbiamo parlare per forza solamente con noi e di noi, è un passaggio obbligato di questa transizione. Arriverà probabilmente un momento in cui avremo esaurito questa specie di manifestazione permanente dove tutti vogliono parlare perché prima non potevano. E dobbiamo solo lavorare perché la transizione sia verso un posto migliore. Io sono ottimista, dobbiamo transitare e portare tanta pazienza. Anche per quelli che verranno dopo.

AB. Sai che mi hai quasi convinto.

AM. Sui social io sono stato massacrato, sono stato adorato, e alla fine ho capito che purtroppo, se ci vuoi stare, è cosi. In questa fase non esiste più l’areopago, non è più oligarchica la storia, non è più per pochi. I pochi, noi, che pensavamo di essere i parlanti, in verità siamo bene o male come gli altri. Il tutto andrebbe sicuramente regolamentato, perché poi ci sono dei momenti in cui in cui si scade nella prevaricazione; è ovvio che non va bene l’insulto, non va bene il dire cose gravi e sconvenienti, però è pure vero che se zittisci uno potenzialmente zittisci tutti. Dobbiamo essere molto attenti, sarebbe come dire che siccome in tv o sulla stampa vengono dette anche cose sbagliate, allora chiudiamo la tv e la stampa.

«Sui social io sono stato massacrato, sono stato adorato, e alla fine ho capito che purtroppo, se ci vuoi stare, è così. In questa fase non esiste più l’areopago, non è più oligarchica la storia, non è più per pochi»

AB. Usando una citazione ti dirò che “mi avevi già convinto al ciao”. Torniamo un attimo indietro: prima, quando ti ho fatto la domanda sulle opinioni di tutti, mi hai raccontato la tua visione sull’epoca che stiamo vivendo. Mi viene in mente che, per esempio, ultimamente ho iniziato a interessarmi molto di più a tutta la questione del cambiamento climatico, una cosa che mi spaventa molto. La domanda che mi e che ti faccio, che poi tutte le domande che ti sto facendo sono domande che mi faccio spesso da solo, è questa: quando ti capita di pensare a come sarà il mondo, pensi che sarà inevitabile adattarci o credi ancora fermamente che la volontà del singolo sia essenziale per cambiare il corso delle cose?

AM. Tutte e due. Credo che la volontà del singolo conti sempre in natura: quella di una sola ape contribuisce al futuro di un pezzettino di mondo, di un prato. Quel prato diventa uno spazio più grande, diventa un territorio, uno Stato. Quindi sì, io credo che il singolo, la sua forza, siano l’essenza della politica. Poi è ovvio che ci dobbiamo adattare. Nel senso, a me ieri è andata via la luce a casa; mi sono incazzato da morire, non puoi capire. Oggi avevo una giornata impegnativa, dovevo collegarmi con molte persone nel mondo. Ero nervoso. Va via la luce. Dieci meno venti. La riattaccano alle due di notte. Io con la candela. Stavo finendo di lavorare, dovevo finire di guardare dei sottotitoli.

AB. Comunque è un’immagine estremamente romantica, devo dire!

AM. Mio padre avrebbe ripetuto quel che mi diceva da bambino: «Spegni la luce, non ce n’è bisogno, accendi la candela che sprechi energia». Adattarsi vuol dire questo, rallentare quando è necessario fare un passo indietro. Sta a noi farlo diventare anche una cosa bella: passare un giorno su una coperta a prendere il sole, fare una grande chiacchiera con altri amici, in questo momento ci sembra un adattarci al ribasso rispetto a tutto quello che vorremmo fare, però in sé non è mica una cosa brutta. Se va via il sole accendo una candela, così se un giorno ci sarà richiesto per necessità, di stare un po’ più fermi, sapremo come stare fermi, no? È ovvio che il modo in cui ci siamo dovuti fermare è stato una cosa violentissima, drammatica. Però tu mi hai chiesto se ci si può adattare, beh, io mi sono adattato, tu ti sei adattato. Allora mi viene da pensare che in futuro potremmo cercare di trovare una via di mezzo, potremmo rimetterci in ascolto del pianeta, accarezzarlo un po’, volergli bene. Come fanno gli altri animali, no? Perché abbiamo pensato di essere meglio e abbiamo fatto un disastro. Siamo degli animali folli, i più folli di tutti, e quindi dico che dobbiamo essere bravi ad adattarci, perché l’adattamento sarà meraviglioso. Quando potremo di nuovo passeggiare, camminare, senza la mascherina, tu pensa quanto capiremo di tutta questa storia! Poi singolarmente ognuno di noi dovrà fare dei piccoli gesti, ci dovremo osservare di più; faremo delle cose grandiose, però dobbiamo non essere presuntuosi. Un grande presuntuoso l’abbiamo mandato a casa a novembre, un folle presuntuoso. È stato un grande gesto per tutti, che sposta l’ago della bilancia, per me è un grande punto di ripartenza. Sono molto ottimista perché l’uomo, come tutti gli animali, ha sempre avuto la capacità di trovare nuove strade, e noi questa strada oggi la dobbiamo trovare. E la troveremo.

AB. Adesso ti imbarazzerai per quello che sto per dire, però te la devi prendere e portare a casa. Tu in questi anni hai completamente rimodulato il concetto di bellezza. Lo hai fatto in una maniera talmente elegante, intelligente e profonda che non tutti sono riusciti a capirlo. E questo è il risvolto della medaglia di fare le cose a un certo livello. In un’intervista in un video che c’è su internet e che si può vedere, dici così: «Strano è bello. Più strano sei, più diventi bello». Ed è una cosa che io trovo meravigliosa. C’è stato un momento particolare in cui hai avvertito questa cosa per la prima volta? Magari anche senza poi immaginare che sarebbe stata alla base di tutto quello che stai costruendo in questi anni.

AM. Non lo so. Io ho un rapporto intimo e molto profondo con la bellezza, nel senso che l’ho dovuta cercare anche in posti dove apparentemente non c’era; il luogo dove sono cresciuto viene universalmente bollato come brutto. Eppure ho visto delle grandi bocche che parlavano, delle facce bellissime, delle ragazze che avevano fatto la seconda elementare ma che avevano una cultura della strada meravigliosa, facevano delle battute che sembravano uscite dal cinema, occhi belli; amichette che si schiarivano i capelli, si mettevano l’ossigeno in testa ed erano bellissime. Io l’ho sempre rintracciata e ricercata la bellezza. Una volta Maria Luisa Frisa, la curatrice di moda che è anche un’amica, mi ha detto che ho un rapporto molto conflittuale con la simmetria. Forse perché sono cresciuto in una città in cui la simmetria ha a che fare con le brutture e le storture, a Roma è nato l’ordine degli ordini di tutte le architetture che arrivano fino alla Casa Bianca. La colonna che sta da una parte, sta anche dall’altra. Tutto è simmetrico, tutto è perfetto. Poi dopo però ci sono un sacco di cose storte, è pieno di schifezze vicino a queste cose meravigliose. Mi viene in mente la Magliana: ci sono delle chiese romaniche pazzesche, e poi vicino ci sta, che ne so, uno sfascia carrozze. Questo mi ha insegnato che la bellezza è una cosa misteriosa. Su di me, che non sono più lo stesso di quando avevo vent’anni, qualcuno potrebbe dire: “Quanto è brutto questo”, invece io mi guardo allo specchio e mi dico: “Che fatica essere diventati belli essendo così diversi”. Credo di aver avuto un dono da bambino, e cioè la necessità di cercare la bellezza per sopravvivere. Ci ho ragionato tanto anche perché è una cosa di cui non volevo diventare schiavo, volevo smettere di pensare che casa mia non fosse abbastanza bella, per dire. Adesso se ci ripenso invece dico che sono stato bravo perché ho ricostruito tutto un apparato di bellezza in un posto dove qualcuno diceva “là è tutto brutto”. È come quel tuo film, Non essere cattivo: non è vero che siccome racconti un certo tipo di cose allora è tutto brutto. No. È tutto bellissimo! Conversazioni bellissime, facce, cose, parole tutte storte, bellissime, tutte dette male, c’è tutto lo sgrammaticato che esce fuori da certi posti dove sono cresciuto io. E mi fa venire i brividi. Perché poi la bellezza è nascosta anche in delle cose terribili, purtroppo. Credo di poter dire di avere un rapporto anche conflittuale con essa. Ma è una conversazione che non chiudo, voglio capire se la ritrovo in altri posti, non farla esaurire mai.

«Ho ancora un problema col fatto di essere al centro dell’attenzione, è l’unica cosa del mio lavoro che mi ha imbarazzato e che mi imbarazza tuttora. Per il resto non ho grandi problemi a riguardo, sono autoironico, non ho paura di risultare ridicolo, sono uno che si mette in gioco»

AB. A proposito, quando io ho fatto Non essere cattivo, tu eri direttore creativo di Gucci da otto mesi, ci siamo quasi accompagnati. Se tu dovessi riguardare a questi anni, trovi nel tuo percorso un tema ricorrente?

AM. Di ricorrente trovo la voglia di dare vita a dialoghi impossibili, di far incontrare cose che non si incontrerebbero normalmente. Ad esempio nella serie c’è Achille Bonito Oliva che parla con Harry Styles. Quando mai Achille Bonito Oliva avrebbe potuto parlare con Harry Styles? La conversazione tra mondi impossibili resta una delle mie costanti. Anche con i vestiti creo conversazioni apparentemente folli tra il mondo del pop, Paperino per esempio, e le scarpe della professoressa. Harry fa musica pop e vive tra Londra e Los Angeles. Apparentemente non avrebbe nulla a che fare con uno che fa il critico d’arte. Quando comincio a lavorare, cerco sempre una cosa, un elemento che, entrando, mi aiuti a rompere, perché sennò questa conversazione tra vestiti, tra colori, è una noia. Che mondo sarebbe se non arrivasse qualcuno, a un certo punto, a mandare a quel paese tutto?

AB. Questa intervista verrà letta da un po’ di persone e quindi mi piacerebbe che la usassimo anche per dare spazio a qualcuno che magari di solito ne ha di meno. C’è una persona che hai incontrato negli ultimi anni o che già conoscevi che ci consigli di tenere d’occhio?

AM. Una sola è un po’ complicato, anche perché io mi circondo di persone che tengo d’occhio. Quando ho conosciuto Harry Styles, per esempio, lui veniva da una boy band, quanto di più banalizzante potesse esistere nel mondo del pop. Eppure io ho avvertito altro da subito, quando ho visto lui ho capito che esistevano uomini diversi, uomini che erano molto più in contatto con la loro parte femminile. Mi ricordo quando si è presentato, con questa aura un po’ da James Dean, una specie di Apollo, così britannico, con questa voce che sembrava un doppiatore, e che però mi parlava dei suoi vestiti, di come li conservava. Mi è sembrato da subito un animale stranissimo, mi ricordo di essere tornato in ufficio e aver pensato che avrebbe fatto cose esagerate. Mi è successo con tanti in questi anni; penso a Florence Welch, penso alla sera in cui ho conosciuto te e Jared Leto e via dicendo. Avete poi tutti fatto cose incredibili. La verità è che non solo sono delle persone note e hanno prodotto dal punto di vista creativo delle cose fantastiche, ma sono proprio le loro vite che si sono evolute in maniera incredibile.

AB. Se posso dirtelo, una delle cose più belle che hai è che chiacchieriamo da un’ora e hai sempre parlato degli altri, ti ho praticamente dovuto costringere a dire qualcosa di te.

AM. Per me gli altri sono fonte di vita. Io sono un grande ladrone, senza gli altri non esisto.

«Io ho un rapporto intimo e molto profondo con la bellezza, nel senso che l’ho dovuta cercare anche in posti dove apparentemente non c’era; il luogo dove sono cresciuto viene universalmente bollato come brutto»

AB. Ed è per questo che sei quello che sei e noi siamo molto fortunati, io in particolare. AB. Quindi ti voglio dire che ti voglio molto bene. Grazie per il tuo tempo, per il tuo talento, per la tua amicizia. Spero davvero il prima possibile di poterti abbracciare di nuovo molto forte.

AM. Anch’io ti dico due cose prima che ci lasciamo. Uno, che mi mancano i tuoi abbraccioni quelli forti forti, e poi che sto vedendo Suburra, sono alla terza puntata, lo guardo lentamente per paura che finisca troppo presto. Devo dire che è molto bello. È stata un’operazione grandiosa, perché non si è sgonfiato per niente, siete stati gli unici ad aver cotto di nuovo il ciambellone senza che si sgonfiasse. Credo sia difficilissimo.

AB. Lo è!

AM. Fantastico. Ti ho mandato quel messaggio quando ero sul set, perché era pieno di inglesi, e tutti erano contenti che il giorno dopo uscisse la nuova stagione di Suburra, si sono poi chiusi dentro al Grand Hotel, nelle camere, per vederlo. Mi hanno detto che il più grande regalo che potessi fare loro era portarli a cena con te, e anche con Benedetta Porcaroli, che pure Baby non sai come se lo vedono. Ma poi sai cos’è? Mi viene in mentre Chris Simmons, col suo studio in periferia a Londra, con tutte le riviste alternative, tutti quei fotografi che in pochi conoscono, la Londra quella lì underground dei produttori di immagini, quella che noi diciamo “succede solo a Londra”. Ebbene sì, questi stanno lì al chiodo a vedere Suburra, mi sembra una cosa bellissima.

AB. Sì, sembra quasi che in questo momento storico tutti parlino la stessa lingua, speriamo non sia solo una sensazione. Grazie amico mio, a presto.