Attualità

Che anno è stato il 2017 per la moda

Quali marchi hanno venduto di più, quali hanno dominato i social, quali i temi di discussione e le previsioni per il nuovo anno.

di Silvia Schirinzi

Il 2017 è stato un anno di passaggio per la moda, se non altro perché ha segnato una leggera ripresa generale degli affari, che uno studio di Business of Fashion e McKinsey aveva calcolato tra il 2,5 e i 3,5% nelle sue previsioni annuali, ma ha confermato anche la crisi di interi comparti, soprattutto quello del commercio al dettaglio, come segnalato da un rapporto di Credit Suisse sul mercato americano, risalente allo scorso marzo. I radicali processi di trasformazione che abbiamo visto avviarsi negli ultimi anni e che hanno coinvolto tutti i settori dell’industria, dai grandi magazzini alle sfilate, dal fast-fashion ai marchi del lusso, dalle riviste specializzate alle piattaforme social, nel 2017 sembrano essere giunti a una prima concretizzazione. Molti esperimenti sono stati abbandonati (il defunto più celebre: il modello see-now/buy-now, ma pure le fashion week non se la passano benissimo), mentre le strategie commerciali si sono fatte più diversificate e insidiose, anche da quelle parti dove le cose continuano ad andare piuttosto bene, vedi l’operazione di riposizionamento di H&M o il piano di rilancio delle Nike Cortez. Ecco di cosa abbiamo discusso nell’ultimo anno, quali i risultati raggiunti e quali le prospettive aperte, dall’effetto Amazon a quello Rihanna, che non sono poi così diversi fra loro.

 La crisi del retail e il futuro dell’e-commerce

Nel 2017 molti grandi magazzini americani (come Macy’s, Target e JcPenney) sono entrati ufficialmente in crisi, confermando il trend negativo inaugurato l’anno precedente da catene popolari come American Apparel e Abercrombie&Fitch. Sono falliti anche marchi nati online nel segno del futuro come Nasty Gal, mentre case di moda storiche come Lanvin continuano a navigare in pessime acque, a dimostrazione di come oggi più che mai, pur con tutte le differenze esistenti tra i casi sopracitati, un’unica formula per affrontare con successo il mercato del fashion sia praticamente impensabile. Allo stesso tempo anche i grandi del fast-fashion come Zara e H&M, che registrano ancora numeri da capogiro, si sono impegnati nella razionalizzazione della loro catena di negozi, chiudendo alcuni punti vendita e puntando su spazi che assumono sempre più la forma di luoghi destinati al lifestyle che al solo abbigliamento (vedi Arket). L’e-commerce, dal canto suo, non è quel felice contraltare che uno potrebbe immaginare: vendere vestiti online è un business rischioso, anche perché ci si scontra con le aspettative dei clienti abituati all’efficienza del modello Amazon. Tra servizi personalizzati, tecnologie di profilazione e consegne in giornata, sulle liste dei desideri si gioca infatti una partita importante del futuro. Particolare attenzione, poi, va riservata nel 2018 al mercato cinese del lusso, dove secondo le stime già il 72% dei consumatori compra online.

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L’era del consumismo “responsabile”

Quest’anno abbiamo parlato molto anche di minacce climatiche e consumismo “responsabile”, ovvero di come i nostri acquisti possono impattare positivamente il mondo in cui viviamo. Se da una parte l’espressione sembra più che altro un ossimoro, dall’altro il successo di marchi che hanno puntato prima degli altri sulla sostenibilità (uno per tutti: Patagonia) e ne hanno fatto il proprio vessillo, conferma la rinnovata attitudine dei consumatori Millennial a quello che una volta chiamavamo acquisto politico, con tutte le contraddizioni del caso. Vero è che il problema dell’inquinamento dell’industria tessile è mai come oggi reale ed è dovere di ognuno chiedersi quali modifiche apportare al proprio stile di vita per contribuire al cambiamento dello status quo. Il fast-fashion ci ha abituato a un guardaroba mai così pieno di scelte, mentre le consegne super veloci ci fanno guardare con diffidenza a chi impiega quattro giorni a farci arrivare a casa quello di cui abbiamo bisogno: in un’epoca che è veloce in maniera trasversale, però, non possiamo dichiararci ignari di ciò che i nostri acquisti comportano, perché ci sbatte in faccia gli effetti che essi provocano.

I best-seller dell’anno e l’influencer marketing

Le classifiche di fine anno hanno incoronato ancora un volta Gucci e Balenciaga, seguito a ruota da Vetements, come i marchi più in vista dell’anno. Quello guidato da Alessandro Michele, nello specifico, si riconferma il brand che meglio riesce a veicolare la propria comunicazione social e a trasformarla in best-seller: secondo la classifica stilata dall’e-commerce Lyst, ad esempio, la Marmont Bag è la borsa più venduta dell’anno sulla piattaforma internazionale, come confermato anche dagli esperti interpellati da Vogue.com. Si tratta di una combinazione piuttosto difficile da ottenere, in termini di visibilità e risultati economici, che racconta di una strategia sapientemente costruita attraverso lo scouting di nuove forme di comunicazione e di “influencer” alternativi capaci di catturare il gusto del momento. E proprio quello degli influencer è stato un altro grande topos dell’anno che si sta per concludere: recentemente abbiamo fatto il punto della legislazione in materia e delle sfide di un mercato che, secondo gli analisti, nel 2019 si attesterà tra i 2 e i 2,3 miliardi di dollari.

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Tra slogan, copycat e appropriazione

E sempre a proposito di Gucci, nel 2017 ha raggiunto il picco la discussione attorno ai temi dell’appropriazione culturale, la copia e l’omaggio, iniziata qualche anno fa. Quando abbiamo parlato dell’account @DietPrada, che “denuncia” su Instagram i copycat indebiti di molti marchi, avevamo sottolineato come questa nuova forma di critica, seppur utilissima a riconoscere chi influenza chi nell’industria, manca del tutto della complessità necessaria a cogliere il movimento continuo dell’oggetto di moda, che per definizione non è mai fermo, ma che al contrario vive di incessanti riattivazioni stilistiche. La copia può essere più o meno ben orchestrata, ma ci dice qualcosa anche quando è palesemente fake o quando inverte il meccanismo (Balenciaga che si ispira a Ikea), ancor di più in un momento come questo in cui la moda guarda ad altri microcosmi per ristrutturarsi. Basti pensare all’influenza che negli ultimi anni ha esercitato su di essa lo streetwear, di cui sono stati copiati (spesso pedissequamente) estetica e modelli di business, fino al cortocircuito del 2017, l’anno in cui Supreme ha venduto il 50% delle sue azioni al fondo Carlyle, stimando così il valore complessivo dell’azienda di James Jebbia intorno al miliardo di dollari. L’alto e il basso non sono mai stati così vicini e gli oggetti di moda mai così imprevedibili.

L’effetto Rihanna e la bolla del beauty

Se c’è poi un nome, nell’universo dei personaggi dello spettacolo prestati all’attivismo e al self-branding, che più di tutti è in grado di generare interesse al limite del fanatismo, beh, è quello di Rihanna. È suo il post su Instagram più rilevante dell’anno modaiolo: è la foto che la ritrae con la calzamaglia di cristalli firmata Gucci, come segnalato nella sopracitata ricerca di Lyst. È sua la linea di make-up più di successo dell’ultimo anno, Fenty Beauty, le cui quaranta tonalità di fondotinta sono andate immediatamente sold-out e hanno contribuito a focalizzare il fenomeno del beauty e più in generale del self-care, della cura di se stessi, argomento tra l’altro che, come rilevato dal primo report annuale di Facebook IQ, è stato anche uno fra i più discussi su Facebook e Instagram. Di “effetto Rihanna” se ne parla da un po’, ma il 2017 è stato l’anno della definitiva consacrazione: anche nel suo caso, il successo (sui social e sul mercato, che qui sembrano andare di pari passo) è frutto di un raro mix tra culto della propria personalità, capacità di intuire i trend, interpretarli e farsi portavoce del messaggio giusto al momento giusto. Una formula, appunto, che riesce a lei e a pochi altri.

In evidenza: Rihanna in Gucci a Coachella. Nel testo: lo store Arket a Copenaghen; Demna Gvasalia (Vetements e Balenciaga)