Arriva su Netflix Girlboss: la complicata vicenda di Sophia Amoruso, dove personal branding, imprenditoria femminile e startup si intrecciano, inceppandosi.
Che cos’è Girlboss? «Inizierò con il dire quello che non è. Non è un libro, anche se ho scritto un libro intitolato Girlboss. E non è una serie prodotta da Netflix, anche se c’è uno show molto divertente che debutterà il 21 aprile con lo stesso titolo. Girlboss è più un sentimento, una filosofia. È un modo per le donne di costruire il proprio successo come vogliono loro, per la prima volta nella storia». Dietro questa affascinante (e nebulosa) definizione c’è Sophia Amoruso, la fondatrice di Nasty Gal, nato come un vintage shop su e-Bay nel 2006 ed evolutosi poi in un marchio vero e proprio, con tanto di sito e negozi fisici. La citazione viene da un evento tenutosi lo scorso 4 marzo a Los Angeles: si trattava del primo Girlboss Rally, che ha visto la partecipazione pagante (e piuttosto entusiasta, come racconta Molly Creeden su Racked) di più di cinquecento imprenditrici o aspiranti tali, arrivate da ogni parte d’America, qualcuna addirittura da più lontano. Erano tutte lì per ascoltare le molte donne di successo invitate da Amoruso a raccontare la loro esperienza: c’erano Emily Weiss di Into The Gloss, la scrittrice e lifecoach Gabrielle Bernstein, Whitney Wolfe di Bumble e Amel Monsur di Vice Media,fra le altre.
Ci sono poi due elementi interessanti da considerare a margine di questo racconto: il modello à la Silicon Valley, che può anche funzionare nel settore della tecnologia – sebbene sia sempre più chiaro come da quelle parti ci sia un problema bello grosso – sembra arrancare faticosamente in altri campi, dimostrando di non essere un paradigma di facile applicazione. Il secondo elemento riguarda, invece, il personal branding, la costruzione della propria identità pubblica figlia anch’essa di una certa cultura californiana, quella hollywoodiana delle celebrity. A nuocere più di tutto a Nasty Gal, inutile negarlo, è stato il progressivo allontanamento di Sophia Amoruso, che dopo dieci anni passati a fare inventari ha giustamente deciso di passare alla fase successiva della sua vita, reiventandosi mentore e boss delle ragazze.
D’altronde, la “nasty gal” della serie di Netflix, prodotta nientemeno che da Charlize Theron e interpretata da Britt Robertson, altri non è che un alter ego della stessa Amoruso, una personalità alternativa che ha funzionato oltre ogni rosea aspettativa, spedendola di diritto nella classifica di Forbes dei giovani milionari e consolidandone il semi-incrollabile status di chi ce l’ha fatta. Il successo del suo sito, infatti, è sempre stato strettamente legato alla sua personale interpretazione del guardaroba della ragazza un po’ hippie un po’ indie-rock, molto simile a quelle che abbiamo visto sfilare a frotte al Coachella. Nonostante alcune cause intentate da ex dipendenti e il sostanziale fallimento dell’azienda da lei fondata, insomma, l’immagine della Amoruso come #Girlboss rimane positiva, come hanno raccontatoaltri ex dipendenti a Hilary Milnes su Glossy: «[Sophia Amoruso] ha fatto la cosa giusta a lasciare che persone più esperte di lei prendessero il controllo ma da quel momento in poi l’azienda ha imboccato la strada sbagliata». Certo, se si pensa alla disastrosa esperienza di Miki Agrawal e Thinx, curioso caso di azienda nata come un’utopia femminista e finita poi sotto accusa a causa del suo ambiente lavorativo tossico, la storia della self-made woman Amoruso sembra possedere un elemento gattopardiano in più. Non ci rimane che aspettare di assistere alla prossima trasformazione: politica, maybe?
Immagini Getty Images
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