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Il blackout dei social ha dimostrato che stiamo peggio di quanto pensassimo

Il malfunzionamento di Facebook, WhatsApp e Instagram di 7 ore ha generato molte riflessioni esistenziali (soprattutto su Twitter), poi tutto è ricominciato uguale.

di Clara Mazzoleni

C’è un meme a cui penso sempre da quando l’ho visto ed è quello con due cerchi che si intersecano: in uno c’è scritto “apocalisse” nell’altro “dover continuare ad andare al lavoro”. Nella mia mente l’ho un po’ modificato e nel secondo cerchio c’è scritto “continuare a postare meme”. Il Titanic affonda e i musicisti continuano a suonare. Forse, come diceva qui William Gibson, a differenza di quanto crediamo, l’apocalisse non si verificherà con un avvenimento improvviso e letale, ma sarà un processo graduale e lunghissimo. È difficile togliersi dalla testa l’impressione che quel processo sia già cominciato. E i social hanno tutta l’aria di essere una delle piaghe, al pari delle pandemie e del riscaldamento globale. Non lo dico solo io, che ho tre follower e faccio la volpe con l’uva: lo dice chi ne ha milioni, lo dicono i rapporti prodotti dagli stessi social e tenuti nascosti, finché qualcuno non canta, come ha fatto la whistleblower ex product manager di Facebook Francis Haugen, che ha detto che Faceboook dovrebbe dichiarare “bancarotta morale“. Lo dice chi grazie ai social ha svoltato la sua vita. Gli influencer sono esauriti, le popstar sono esaurite, gli adolescenti sono esauriti.

Ma a rendere l’esaurimento doloroso, è l’esistenza di chi, invece, non si esaurisce per niente, e continua sereno a postare senza che tutto questo, apparentemente, intacchi la sua salute mentale. Basta, smettetela di usare i social con serenità! Avete idea di quante persone fate soffrire con il vostro equilibrio e i vostri sorrisi e la vostra soddisfazione? Non sarebbe meglio se impazzissimo tutti? Tutti esauriti, via, toglieteci i social, cancellateli, ci fanno male. Perché non ce ne andiamo? Perché non è ancora nato un movimento #addiosocial in cui tutti ci eliminiamo dai social? Siamo stati capaci di metterci d’accordo per non uscire di casa e smettere di andare al lavoro. Non siamo capaci, però, di eliminare i nostri profili.

Immaginare una vita senza social appare ancora più assurdo di immaginare una vita senza stringersi la mano. Niente Instagram, Facebook, Twitter, TikTok, WhatsApp. Sarebbe come ritrovarsi muti, tutto crollerebbe. Chi perderebbe il lavoro, chi non riuscirebbe più a vendere i libri che scrive (e dire che Elena Ferrante, Sally Rooney, Ottessa Moshfegh e Donna Tartt non ne hanno bisogno: nessuna di loro è sui social), per non parlare dei giornali, che fine farebbero? Edicole prese d’assalto? Se il lockdown ci aveva totalmente rincoglionito (rincoglionimento che si manifestava via social), come reagiremmo a un improvviso e irreversibile blackout dei social, con l’aggravante di non poterne parlare sui social?

L’abbiamo scoperto il 4 ottobre, durante l’interruzione momentanea del funzionamento della trinità di Zuckerberg, un assaggio del silenzio profetizzato da Don DeLillo in The Silence. Come sarebbe stato bello se invece di riversarci su Twitter ci fossimo messi a fissare il cielo nero fuori dalla finestra in preda allo sgomento. E invece eccoci riuniti a sghignazzare su un’altra piattaforma,pieni di battute geniali su quello che stava succedendo. Totalmente pazzi, gongolavamo dei problemi dei tre social su un altro social. Bello Twitter che ci ha accolto con quel tweet, belli i meme con Kim Kardashian al Met Gala (la regina dei social che rappresenta il blackout dei social). Qualcuno faceva notare che la cover nera di Donda era una profezia del blackout, qualcun altro rispondeva che il vero profeta è Demna Gvasalia. Toglieteci tutto, fate accadere qualsiasi cosa, basta che ci sia la possibilità di commentare in qualche modo quello che sta succedendo, e non con le persone vicine a noi, ma con “tutti”, perché ormai ragioniamo per frammenti e per moltitudini.

Qualche disertore c’è: l’11 settembre Lana Del Rey si è cancellata da Instagram, dicendo ciao ciao ai suoi milioni di follower. Anche Michaela Coel, nello speech dei Grammy diventato virale, suggeriva di sparire per un po’: «In un mondo che ci invita a sfogliare le vite degli altri per aiutarci a stabilire meglio come ci sentiamo e a sentire a nostra volta il bisogno di essere costantemente visibili – poiché la visibilità di questi tempi sembra in qualche modo equivalere al successo – non abbiate paura di scomparire per un po’. E vedere cosa arriva nel silenzio».

Al di là di Twitter, il fatto che un buio di 7 ore abbia generato dubbi e riflessioni esistenziali è la dimostrazione che siamo messi peggio di quanto pensassimo. Quando Instagram ha ricominciato a funzionare, diversi attivisti hanno condiviso dei post in cui interrogavano i follower sull’attivismo fuori dai social: «Se Instagram non tornasse mai più a funzionare, come si manifesterebbe il tuo anti-razzismo?». Altri hanno iniziato a bombardare di storie in cui spiegavano cos’era appena successo, collegandolo alle testimonianze di Francis Haugen, sviluppando teorie e riportando dati drammatici sulla pericolosità di Instagram e sui danni provocati dalla digital addiction. Più egoisticamente, molte persone si sono ritrovate a interrogarsi sulla loro identità e sui loro introiti (spesso le due cose coincidono). Chi sarebbe Chiara Ferragni senza il suo profilo? È la domanda del secolo, a cui lei ha prontamente risposto su Vogue: «Da un lato ho gioito che venisse zittito, dall’altro ho pensato: possono toglierti tutto in un secondo». In tanti sono rimasti male quando WhatsApp ha ripreso a funzionare e gli sms hanno smesso di arrivare. Un po’ come quegli antisociali che amavano segretamente il lockdown. Ma datemi qualche mese ancora per scrollare e rifletterci su, seduta sul divano, con l’iPhone in mano.