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Anche gli influencer sono esauriti

Dai breakdown pubblici alla continua ricerca di polemiche per restare rilevanti, l’economia dei “creator” sembra attraversare un momento di profonda ridefinizione di sé stessa.

di Silvia Schirinzi

Charli D'Amelio si sfoga su TikTok (il video è stato poi cancellato)

Chiara Ferragni non ha mai ceduto. Nonostante i commenti di odio e i boicottaggi la investano sin da quando si chiamava ancora The Blond Salad e la sua agenda non era ancora astutamente politica come quella di oggi, non ha mai affrontato quella fase di crollo nervoso, rigorosamente pubblico, d’obbligo per tutte le celebrità più esposte, al contrario ha incassato e continuato a trasmettere la versione editata e corretta della sua vita familiare e lavorativa. A guardarla oggi, potremmo dire che è fatta della portentosa corazza dei primi blogger – un altro inossidabile è Bryanboy – e cioè quelli che eroicamente hanno sfidato il sistema una decina di anni fa e oggi hanno superato i trenta, più o meno in serenità (il loro privato resta imperscrutabile, questo almeno l’abbiamo capito) nonostante le polemiche e i tentativi di cancellazione prima che venissero etichettati come tali. Non ne sono rimasti molti, la maggior parte è sparita perché non ha saputo comprendere e pianificare strategicamente il passaggio dai blog a Instagram, da YouTube a Instagram e da Instagram al proprio brand, alla tv, alle cronache rosa, allo stato di semi-celebrità che è associato ai creator digitali, come si chiamano adesso, infine da Instagram alle nuove piattaforme, TikTok, Twitch, Discord, qualsiasi altra app o non luogo vada di moda tra i ragazzi più giovani in questo momento. Ci sono quelli che raggiungono il gradino più alto, insomma, e poi tutti gli altri, niente di nuovo, nemmeno per una new economy che ha ribaltato intere industrie, a cominciare da quelle della moda e dell’intrattenimento.

Considerando la velocità con cui il settore si evolve, però, non sorprende che oggi ne vediamo gli effetti in un lasso di tempo drasticamente più breve rispetto a quello del ribaltamento precedente: se ci abbiamo messo quasi una decade a capire Instagram, per TikTok ci sono “bastati” due anni e una pandemia, che ha ulteriormente accelerato processi che di per sé andavano già spediti e ci mette ora di fronte alla grande crisi attraversata dagli influencer. Proprio così. Come riportava a fine maggio su Vox Rebecca Jennings, sono sempre di più i giovani creator che si dichiarano in burnout, lamentando gli effetti sulla loro stabilità emotiva che il produrre contenuti sulla piattaforma comporta. C’è chi si prende una pausa dal postare, denunciando i ritmi imposti dall’algoritmo per continuare ad apparire nella pagina dei suggerimenti e mantenere così un engagement alto, chi si registra durante una crisi nervosa e piange in diretta streaming, chi, come Charli D’Amelio (una delle creator più seguite su TikTok, ora impegnata in un improbabile reality a cui partecipa tutta la sua famiglia), dichiara che, effettivamente, è difficile stare su queste piattaforme quando si è soggetti al pubblico scrutinio e, più di ogni cosa, al pubblico odio. È qualcosa di diverso dai drammi di YouTube che ci intrattenevano qualche anno fa o dalle polemiche montate ad arte nelle Stories, anche a fronte del legittimo dubbio che questi sfoghi siano preparati, soprattutto perché quella pressione, almeno in parte, la sentiamo tutti. A leggere le loro testimonianze – a questo proposito è particolarmente utile “The Anxiety of Influencers”, il saggio uscito su Harper’s Magazine e scritto da Barrett Swanson, che ha passato cinque giorni in una casa di giovani TikToker a Los Angeles – e a guardare i loro video, sarebbe facile etichettare quelle esternazioni come l’ennesima debolezza generazionale, la dimostrazione che dai Millennial in giù ci siamo infiacchiti, depressi, disciolti nel nostro individualismo.

In realtà, il cortocircuito che si è innescato nell’economia degli influencer rispecchia, ci piaccia o meno, molte delle problematiche del mondo del lavoro contemporaneo, sempre più parcellizzato e precario, anche quando si fatturano ottime cifre grazie agli sponsor e si conduce una vita che fa invidia a chi sta dall’altra parte dello schermo. Questi giovanissimi imprenditori digitali, che in realtà imprenditori non sono perché il più delle volte sono seguiti dai loro genitori che si improvvisano manager o da agenzie che spesso si rivelano predatorie, ci dimostrano da una parte quanto è facile oggi raggiungere il successo sulle piattaforme tecnologiche – basta una trovata che faccia ridere un numero adeguatamente alto di persone e la spinta dell’algoritmo fa il resto – dall’altra quanto sia effimero quel successo, incredibilmente più effimero di quanto in passato fosse la carriera di una popstar, di un giovane attore, di qualsiasi personaggio pubblico. Rimproveriamo loro di essere sempre online, mentre ne consumiamo i contenuti e li scartiamo quando le loro trovate divertenti invecchiano, sempre più velocemente, sostituendoli al ritmo dello scrolling infinito. Poco male, ci diciamo, in fondo guadagnano bene anche se per brevi periodi di tempo, c’è chi guarda e chi viene guardato, sai che novità, non tutti sono coriacei come Ferragni: la loro preoccupazione più grande rimane il futuro, sennò che giovani sarebbero, in mezzo c’è anche il dubbio che i loro genitori o mentori li abbiano esposti a qualcosa che non sapevano controllare, comunque sia questo, alla fine, è il prodotto più concreto dell’autenticità fasulla da social: si sono esauriti pure loro, come tutti noi.