Attualità | Ucraina
La guerra dell’attenzione
L'invasione dell'Ucraina sta già scivolando via dai nostri pensieri? Cosa ci insegnano la pandemia e la crisi climatica sul modo in cui i social hanno trasformato il nostro cervello.

Un membro del Congresso americano segue sul telefono il discorso del Presidente Zelensky (Foto di Drew Angerer/POOL/AFP via Getty Images)
Alla fine della quarta settimana, la guerra ci sta già scivolando via dalla mente. Non per gli eventi sul campo, che sembrano correre verso una fase acuta, ma perché noi siamo limitati e abbiamo troppe notifiche da gestire. Questa invasione rischia di mostrare come il nostro span di attenzione collettivo sia anche una debolezza geopolitica. Su Axios c’è un grafico che è un elettrocardiogramma della nostra mente da osservatori lontani della guerra, un’elaborazione con dati di Newswhip, il cui business è, dicono loro, «real time monitoring», cioè misurare i bip della nostra distrazione. Il picco degli articoli e delle interazioni social globali in lingua inglese sull’invasione in Ucraina aveva raggiunto il massimo il 25 febbraio, il giorno dopo l’invasione, da lì in poi è già tutto declino. Nel grafico si vede che la quantità di informazione prova a resistere prima di cedere, va su e giù fino alla seconda settimana di marzo, quella delle interazioni social crolla in verticale, giorno dopo giorno, senza scampo: oggi sono meno della metà di quante erano all’inizio della guerra.
I governi occidentali, non potendo fare molto altro che accogliere profughi e inviare armi, contano sul fatto che l’esercito di Putin si impantani nel fango primaverile delle campagne ucraine e che le sanzioni, nel frattempo, diventino insostenibili: a un certo punto la Russia si stancherà, rimarrà senza margini di azione militare e sociale e dovrà cercare una via di uscita onorevole. Speriamo, però si parla pochissimo del fatto che Putin ha fatto lo stesso calcolo sulla nostra capacità di concentrazione. I massacri sulle città ucraine servono a spezzare la resistenza ma anche a desensibilizzare noi. Il supporto esterno all’Ucraina in lotta disperata per continuare a esistere è composto da democrazie, a loro volte sostenute dal consenso, dall’orrore e dall’empatia che questa guerra ci ha provocato. E c’è una cosa in cui questo dittatore ventennale ex spia ha dimostrato di essere un maestro: capire le debolezze delle democrazie. Sa benissimo quanta fatica facciamo a rimanere concentrati per un lungo periodo di tempo sulla stessa cosa, fosse anche una guerra dentro i confini dell’Europa. Putin lo sa che ci stancheremo, lo sa che ci stiamo già stancando. Diciamo spesso che Volodymyr Zelensky sta vincendo la guerra della comunicazione, e non c’è dubbio, è vero, ma il punto è se saprà vincere anche la guerra dell’attenzione.
«Viviamo in una tremenda crisi dell’attenzione, che ha enormi implicazioni su come viviamo», scrive Yohann Hari nel suo libro Stolen Focus: Why You Can’t Pay Attention, un cui estratto pubblicato sul Guardian è stato molto condiviso per qualche ora, a gennaio. Hari cita una ricerca sugli studenti universitari, in grado di eseguire un compito solo per 65 secondi consecutivi. O su un gruppo di impiegati, la cui durata media del focus è di tre minuti. Gli algoritmi, scrive, ci hanno rubato la capacità di fare meglio di così. Secondo le parole di un’esperta che Hari ha intervistato per il libro «è impossibile avere un cervello normale oggi». Un cervello normale è atterrito dal bombardamento di un ospedale, ed è atterrito venti volte di più da venti bombardamenti di ospedali. Il cervello fratturato che possediamo oggi al ventesimo bombardamento di ospedale cercherà semplicemente altro, perché ormai la notizia non sarà più in grado di offrire quella scarica di dopamina necessaria a tenere dietro lo tsunami di modifiche dentro gli oggetti che usiamo che farci un’idea sul mondo. Il tour di interventi di Zelensky nei parlamenti occidentali, col format studiato di localizzazione del contenuto, ha soprattutto un significato: vi prego, non vi distraete, non guardate altrove, ci stanno ammazzando anche se siete stanchi di sentirvelo dire, ci stanno ammazzando anche quando non è più una notizia che tiene l’engagement alto.
È un dramma in tre atti. Prima ci siamo convinti che la storia fosse finita e che non ci fosse più niente da vedere, poi alcune aziende hanno scoperto come monetizzare la distrazione e hanno smantellato la nostra attenzione, poi la storia non solo non era finita (Francis Fukuyama non finirà mai di scusarsi con noi), ma è diventata una competizione tra crisi acute. Questo è un mondo in cui essere attenti è la cosa più importante in assoluto, ma noi non ne siamo più capaci. In agosto per tre giorni si è parlato di Afghanistan più di quanto se ne fosse parlato in vent’anni, poi la finestra si è chiusa e le persone afghane sono tornate ad avere bisogni invisibili. La guerra in Ucraina è scoppiata quando la pandemia sembrava stesse per svanire, ma − come ha detto Guia Soncini in un’intervista a questa testata − «non riusciamo a occuparci di due cose alla volta, non abbiamo spazio mentale, non abbiamo concentrazione, non abbiamo abbastanza cuoricini per due guai alla volta». Non aiuta il modo di processare la realtà che abbiamo a disposizione, anche quella è ingegneria minore della nostra distrazione, un circo itinerante che segue le crisi, piazza le tende, trucca i trapezisti e in due giorni è pronto. C’è una nuova Maratona Mentana, le chat dei no vax diventano pro Putin, i talk show trovano i possessori di licenza per opinioni assurde sulla materia in questione, si assegnano le fazioni, arrivano le infografiche su Instagram e i link per aiutare le popolazioni colpite, spuntano nuovi parlamentari che non avevamo mai sentito nominare e che per anni avevano coltivato il grottesco in attesa dell’intervista freak su un quotidiano.
Don’t Look Up era un film mediocre ma la metafora era brillante, non ce la facciamo a guardare con serietà niente, perché non abbiamo più un cervello normale. Nella prima settimana di guerra è uscito anche un rapporto dell’Onu sulla cometa più grande di tutte, la prospettiva che tra due decenni avremo un pianeta inabitabile. Il segretario generale dell’Onu lo ha definito «un atlante della sofferenza umana». Pessime notizie e pessimo tempismo, non ha nemmeno trovato uno spazio per i talk show, il circo masticava altro e poi quella non è una crisi acuta, è troppo lenta, non supera mai la soglia di allarme, Mentana non farà mai una maratona sull’aumento della temperatura globale. Come ha scritto il leader dell’ambientalismo americano Bill McKibben, un giornalismo fondato sul raccontare solo quello che è nuovo non riesce a interessarsi a qualcosa che avviene sulla scala della geologia, i cambiamenti climatici di oggi sono gli stessi della settimana scorsa. Perdere un clima stabile è l’evento più drammatico nella storia del genere umano, ma non è mai la storia più importante di quello specifico giorno. «È inesorabile e l’inesorabilità è difficile da raccontare». E così il nostro cervello è così rotto che non riesce a interessarsi a due mesi di fila di bombardamenti di ospedali, perché gli hashtag vanno rinnovati, e nemmeno al collasso del pianeta, che è troppo lento anche solo per diventarlo, un hashtag.