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Vendersi sui social secondo Guia Soncini

Influencer, marchette e guerre culturali: intervista alla giornalista e scrittrice di cui è appena uscito L'economia del sé. Breve storia dei nuovi esibizionismi.

di Arnaldo Greco

«In principio fu il prosciutto, e a vendercelo fu l’ultima delle dive, l’immagine dell’Italia nel mondo, la napoletana col nome da americana. Era il 1992, e con “Accattatevill’”, Sophia Loren non ci stava solo vendendo un prosciutto: stava dando forma al futuro. A un mondo al quale mancavano tra i dieci e i vent’anni, e che sarebbe stato popolato da una mutazione antropologica in seguito alla quale siamo sia la Loren sia il prosciutto».

Questa del “prosciutto” è una delle immagini centrali in L’economia del sé. Breve storia dei nuovi esibizionismi (Marsilio), il nuovo saggio di Guia Soncini, e queste parole sulla mutazione antropologica in atto condensano bene il senso della sua tesi. Poco alla volta l’ansia di apparire, di essere protagonisti e di contare nelle vite degli altri ha forzato molti a mettersi sul mercato, esponendosi con foto, battute, opere e opinioni come merce al commento e al giudizio dei consumatori. A trasformarsi non solo in venditori di prosciutti, proprio come Sophia o Mike Bongiorno o Christian De Sica, testimonial di altrettante storiche reclame, ma proprio a diventare allo stesso tempo sia testimonial che merce in vendita. E quindi a decidere di raccontare le proprie vite, le passioni, i dispiaceri – a inventarseli perfino, se necessario – e poi a celebrare i propri consumi (culturali e non), a litigare, a discutere, ad avere opinioni su tutto pur di ottenere il potere di significare qualcosa e, chissà, magari influenzare gli altri. E usare quel potere dandogli un valore economico. Ha letto il libro consigliato da me, ho ottenuto cento like parlando di quella serie tv, i cuori con la foto di mio figlio con quel pantalone di Benetton. Per paradosso proprio mentre le scienze sociali ci aprivano gli occhi sui pericoli della mercificazione e sullo strapotere delle marche, molti hanno cominciato ad affannarsi alla ricerca di aziende che potessero trasformare l’apparire in una professione. (Al punto che oggi, spesso, pare che le marche siano – e solo per i più fortunati − una garanzia della possibilità di esprimere un’opinione più sicura di un editore). O anche solo, più semplicemente, hanno rinunciato alla discrezione per potersi mettere in mostra, in vetrina, nella speranza che se non il grande pubblico, almeno qualche intenditore voglia comprarli. Loro, come il loro prosciutto (che sia un libro o una linea di smalti fa lo stesso).

Questo non è un buon momento per vendere il prosciutto perché sta accadendo qualcosa che cattura l’attenzione di tutti.
Quando ho scoperto il concetto di “economia dell’attenzione”, mi sono chiesta perché non fosse un concetto utilizzato di continuo; mi sembra la chiave fondamentale di comprensione del tempo in cui siamo: è arrivata la guerra e non c’è più la pandemia. Non riusciamo a occuparci di due cose alla volta, non abbiamo spazio mentale, non abbiamo concentrazione, non abbiamo abbastanza cuoricini per due guai alla volta.

Però, in breve, perfino la guerra è diventata parte del discorso. Gli ospedali abbattuti dalle bombe, ma anche Povia, il tg che fa lo strafalcione su Odessa, tutto sullo stesso piano.
Era già successo, in qualche modo, con Black Lives Matter e con il #MeToo. I grandi eventi vengono assorbiti e le persone che di mestiere vendono prosciutti riescono a creare quello che era il sogno proibito di Freccero per la televisione, e cioè un flusso perfetto in cui non c’è nessuna soluzione di continuità fra “questo è il video di mio figlio che mangia la sua prima pappa”, “questa è la mia dolenza per la guerra”, “questi sono i miei ombretti che vi dovete comprare”, “questo è il video dell’ospedale bombardato”, “queste sono le borsette che mi hanno regalato”. In questa cosa la guerra è entrata con una certa naturalezza, anche se con ostentato imbarazzo.

Tu parli molto di economia e mercato del sé. Chi riesce a vendersi sui social come trova poi il modo di vendere anche il proprio prodotto?
Non è un passaggio automatico come sembra. Nelle scorse settimane, un’influencer che ha circa mezzo milione di follower ha pubblicato un romanzo che in due settimane ha venduto meno di trecento copie. Perfino io che sono la più accanita spettatrice dei video della Franchi e della Ferragni, non mi comprerei mai i vestiti che fanno Elisabetta Franchi e Chiara Ferragni.

Dov’è che ha sbagliato questa influencer?
Per saperlo ci vuole la sfera magica. Una citazione che ho fatto un milione di volte nella mia vita e credo che continuerò a fare è quella di William Goldman, lo sceneggiatore del Maratoneta e di Butch Cassidy, che ha scritto anche alcuni libri su come funzionava Hollywood e che, quando gli chiedevano “come si fa a sapere se un film funziona?”, rispondeva: «Nobody knows anything». Nessuno sa niente. Per il commercio è sempre così, altrimenti esisterebbero solo i successi. Oltretutto ormai gli influencer vengono venduti a pacchetti. Tu piazzi i libri di dieci influencer, ti fai il segno della croce e speri che uno di questi venda. È un po’ come pescare con le bombe. Anche perché c’è un altro mistero insondabile: o vendono un botto o non vendono niente.

Nessuno sa niente, ma c’è comunque un sacco di gente che studia, guadagna e gira attorno a questi mercati.
Dopo le sfilate di Parigi, Chiara Ferragni ha postato alcuni screenshot di dati sulla risonanza della sua presenza elaborati da questi che fanno quei lavori che prima non esistevano. C’è una frase nel libro di Yasmina Reza che dice che una volta, quando non si capiva che lavoro facessero le persone, si parlava di import/export, mentre adesso si dice “fare le consulenze”. Per me tutto è cominciato quando abbiamo iniziato a dire “manager”, perché è da quando abbiamo cominciato a usare “manager” che sono nati dei lavori misteriosi. E con internet questi lavori misteriosi si sono moltiplicati e molti di questi lavori misteriosi ruotano proprio attorno all’”engagement” e al modo con cui scavalcare il “nobody knows anything”. Ovviamente è tutto un bluff. Secondo me sono proprio loro i primi a saperlo.

Allora su cosa si regge tutto?
Nella moda campano tutti sui rossetti o sui portachiavi o sugli accessori da poco. Quindi tu fai andare Chiara Ferragni alla sfilata dell’haute couture, anche se sai che nessuna delle sue follower comprerà il vestito da trecentomila euro che fotograferà lei, però compreranno la bustina di nylon come Holly Golightly comprava la cosa che costava meno da Tiffany: per avere anche loro il marchio Dior che hanno visto nelle storie di Chiara Ferragni. Questo in un’ipotesi ottimista, cioè prendendo per buono che il fatto che la si citi molto su Instagram significhi che ci si affida a lei per i consigli per gli acquisti, e che l’engagement non sia fuffa.

Questa cosa che chiamiamo “engagement” funzionava anche prima che la chiamassimo così. I video con gli ospiti litigiosi dei talk che finiscono sui quotidiani online e di cui si parla su ogni social, ma poi se guardi i dati Auditel ti accorgi che non c’è alcun nesso tra ascolti e chiacchiere che se ne fanno su.
Questo riguarda anche l’enorme mole di roba che guardiamo e commentiamo solo perché ci fa schifo.

Tu ripeti spesso che non esiste la cattiva pubblicità. Secondo te quanto “gli antipatici” sanno di ottenere seguito per questa ragione? Quanto la controllano?
Io penso sempre che tutti sappiano a cosa vanno incontro quando provocano un tamponamento a catena su internet, o fanno una cosa che sembra fatta apposta per diventare meme (è una parola orribile, ma non me ne viene una migliore). Cristina Fogazzi mi dice sempre che dovrei ideare delle lezioni su come non restarci male quando ti insultano su internet e, quando me lo dice, mi racconta di Tizio, Caio e Sempronio che piangono perché gli hanno detto: “sei uno stronzo perché hai fatto la tal cosa” o “sei una schifosa perché hai fatto l’altra cosa”. Io resto attonita, è forse l’unico momento della vita in cui mi sento più equilibrata rispetto agli altri, perché non riesco a capire come possa fregartene qualcosa se uno sconosciuto ti dice qualcosa.

Non volevo arrivare qui. Però è evidente che tu abbia trovato un modo personale per gestire certe polemiche.
Certi mi fanno ridere, altri non mi fanno ridere, certe volte ho tempo di accanirmici, altre no. Ma tutto è molto casuale. Poi capisco che per @brocco75 il punto più alto della giornata è “ho fatto piangere Soncini perché mi ha risposto”: per lui se gli rispondo è perché ha toccato un punto nevralgico, e non vuol mai dire che magari Soncini in quel momento non ha niente da fare, sta aspettando il taxi, ha trovato una notifica a caso e mi ha risposto… Vuol sempre dire che mi hai fatto del male e che hai colpito nel segno. Capisco benissimo che tutti si sentano speciali, nel senso che il loro caso sia unico, ma la realtà è che è tutto molto casuale.

Un aspetto che mi interessa molto è che quasi tutti quelli che hanno del “prosciutto” da vendere poi contribuiscano a demolire gli ultimi quotidiani o riviste o programmi tv, cioè le ultime “salumerie” che ci sono. Fuori dalla tua metafora, gli ultimi disposti a pagare per produrre e vendere opinioni.
Rispetto ai giornali a me ha fatto molta impressione quando all’inizio della pandemia, non so se ti ricordi, c’era un sacco di gente, ma non persone che incontravo nel mio quartiere, parlo di gente che vive grazie alla stampa, secondo cui era una vergogna che il Corriere avesse il paywall, perché le notizie devono essere a disposizione di tutti. Che è come dire che le notizie possono essere a pagamento, tranne quelle che ci interessa leggere. Tra l’altro queste sono le stesse persone che poi si lamentano perché, signora mia, non abbiamo più i contratti che aveva Giorgio Bocca.

Non mi spiego perché l’influencer impegnato che su Instagram fa tutti i giorni storie zeppe di opinioni sulla qualunque ed è chiaro che non vede l’ora di poter dire la sua a pagamento, poi non perda occasione per dire che i giornali sono spazzatura, che la tv è morta e via dicendo.
Ogni tanto mi viene il sospetto che ci sia anche la sindrome di quello che ti tira le trecce perché non sa come farti una dichiarazione d’amore, cioè, tentano di farsi notare dai giornali in questo modo. E forse può anche funzionare: mi viene in mente qualche esempio di persone che hanno ottenuto contratti parlando male del giornale, secondo il principio “pur di tenerla buona la faccio lavorare”.

Torniamo al punto di prima, mentre su Instagram succedeva quello che descrivi, il giornalista televisivo doveva cambiare tono, prendere qualche secondo di pausa, cambiare telecamera e dire una cosa tipo “cambiamo decisamente argomento”.
C’è stato un piccolo passaggio intermedio dopo il “voltare pagina”, che erano… ti ricordi quei nessi improbabili che trovava Mentana per passare da una notizia all’altra? Ma poi abbiamo deciso che non ci servivano più i “nessi” e abbiamo deciso pure che non c’è più il contesto. Io credo sia proprio una questione innanzitutto fisica, materiale, nel senso che ci hanno messo una telecamera in tasca e la telecamera non è più quella cosa estranea che era una volta.

Vedi un punto di saturazione all’orizzonte?
Al di là del fatto che le previsioni sono sempre tutte sbagliate, potrebbe chiudere Instagram. Ti ricorderai che l’altroieri il futuro era Clubhouse, dieci anni fa il futuro era Myspace, quindici anni fa il futuro era Second life, adesso magari sbaglio gli anni, ma ci siamo capiti, e quindi tutta questa roba può essere sostituita. Ma il fatto di avere una telecamera in tasca, quella secondo me è una cosa da cui non si torna indietro. Mi sembra il vero scatto. Non i social, ma la telecamera.

Sono uno di quelli che, quando hanno messo la prima fotocamera sui telefonini, hanno pensato che fosse un’idea del cazzo e che non avrebbe mai funzionato. Pensavo avrebbe vinto l’imbarazzo. Invece l’imbarazzo è saltato del tutto…
Il mondo non è mai stato così diverso rispetto a cinquant’anni prima come lo è adesso. Nemmeno quando è stata inventata l’elettricità.

Fino a poco tempo fa l’idea di mercificare una persona ci sembrava la cosa peggiore che si potesse fare. Adesso invece è assolutamente naturale non solo mercificare qualcuno, ma mercificare innanzitutto se stessi. Come spieghi che sia accaduto?
Forse questa cosa non la capiamo anche perché non ci siamo nati dentro, mentre per le nuove generazioni è del tutto naturale. Oggi guardavo un quotidiano e in prima pagina, dove normalmente c’è il quadratino di pubblicità dei libri, c’era la pubblicità di un prodotto per la prostata. Forse, bisogna entrare nell’ordine che se parli sui giornali parli solo con persone a cui può rivolgersi quella pubblicità.

Sai che mi è capitato di riascoltare “Tra palco e realtà” di Ligabue e mi è sembrato che quella doppia identità di cui cantava lui ormai ce l’abbiamo tutti.
Anni fa ho chiesto a un cantante se si vedeva ancora sul palco a settant’anni, come Mick Jagger, perché mi sembrava che Jagger fosse ridicolo. La sua risposta fu: «Non fai questo mestiere se hai il senso del ridicolo». Aveva a tal punto ragione lui che oggi quasi tutti ci comportiamo come se fossimo delle popstar, nonostante quasi nessuno di noi lo sia.

Fino a pochi anni fa sembrava a tutti di gran lunga preferibile guadagnare vendendo le proprie opinioni a un editore o a un produttore piuttosto che a una marca per farle pubblicità. Ma non di poco, non ci sarebbe proprio stato paragone! Vendersi a una multinazionale?! Giammai. Invece adesso viene più naturale guadagnare facendo l’adv su IG a un assorbente che scrivendo.
Nel libro c’è una persona – che cito di sfuggita e senza nominarla e non la nomineremo neanche qui – che a un certo punto è stata condivisa da Chiara Ferragni come punto di riferimento del femminismo attuale, e le si sono decuplicati i follower e la prima cosa che ha fatto è stata farsi dare dei soldi da una ditta di prontomoda, cioè di vestiti da poco, di quelli comprati dalle masse e prodotti non esattamente in modi sostenibili. Avrà indossato la giacca con il suo bravo tag in cambio, non so, di diecimila euro? Ovviamente sono immediatamente arrivati i commentatori che le dicevano di vergognarsi perché parla tanto di diritti e questi sfruttano i lavoratori. Perché poi è un lavoro complicatissimo, nel senso che devi tenere assieme cento cose, no? Quindi non è che puoi promuovere Hermès, che vende borse a quindicimila euro, perché chiaramente le tue borse le disgraziate che ti cuoricinano non se le comprano, e poi Hermès non paga l’influencer per usare le sue borse, nemmeno gliele manda in omaggio e se quella le vuole usare se le deve comprare. Devi pubblicare una cosa che vada bene per il tuo pubblico, e però se poi metti la cosa che va bene per il tuo pubblico, allora il tuo pubblico ti fa la morale. È una vita d’inferno. Si meritano tutti i soldi che guadagnano, ne sono convinta, è un lavoro usurante.