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Nella moda stiamo solo discutendo di immagini?

Dalla sfilata di The Row, dove le gemelle Olsen hanno bandito telefoni e post sui social media, al dibattito sull’uso dell'intelligenza artificiale, sembra non esserci mai stata così tanta distanza, nella moda, tra immagini e oggetti.

di Silvia Schirinzi

In una serie di tweet, la critica di moda del New York Times Vanessa Friedman ha espresso la sua frustrazione nei confronti della regola imposta durante lo show di The Row che si è tenuto lo scorso 28 febbraio a Parigi: niente telefoni durante la sfilata e soprattutto niente post sui social media dopo. A chi le chiedeva quali reazioni le avesse provocato questa insolita richiesta del brand, Friedman ha risposto: «Frustrazione. Non credo che scattare qualche fotografia durante uno show intacchi la mia capacità di valutare quello che sto vedendo. Sono adulta abbastanza da decidere per me stessa». Non è stata l’unica a reagire in questo modo, sia tra gli addetti ai lavori sia tra chi commenta la moda online, anche se era una delle relativamente poche persone a essere fisicamente presenti allo show, che lei stessa ha definito «ottimo». Il dibattito è quindi partito su X e TikTok, dove in tanti si sono chiesti se avesse senso o meno che The Row bannasse la diffusione delle immagini sui social media. Il marchio che Ashley e Mary Kate Olsen hanno lanciato nel 2006 è d’altra parte l’eccezione quando si tratta di celebrity brand: «Con estrema discrezione, hanno scantonato Kanye West, messo all’angolo Victoria Beckham, e non possono neanche essere paragonate alle altre avventure dei famosi nel mondo della moda, Rihanna compresa, perché il loro The Row è un marchio che ce l’ha fatta», scrivevamo su Rivista Studio nel 2021. Sin dagli esordi, il marchio ha puntato su un modello che nel 2023 avremmo definito quiet luxury ma che in realtà è luxury e basta, inteso alla vecchia maniera. Lookbook in analogico, un profilo Instagram che funziona più da mooboard che da account “commerciale”, pochissime interviste e altrettanti pochi negozi: The Row nasce come un club esclusivo.

Dal loro punto di vista, ha molto senso non permettere che le immagini dello show siano ribloggate all’infinito, considerando come il cliente di riferimento sia quello che oggi ha un impatto sempre più rilevante sul mercato del lusso: basti pensare che secondo una ricerca pubblicata in questi giorni da Business of Fashion e che riporta i dati raccolti da Bain & Company, nel 2022 il 2 per cento degli acquirenti di articoli di lusso rappresentava il 40 per cento delle vendite dell’intero settore. La moda che vediamo sulle passerelle è sempre più un affare per pochi, scrivevo alla fine della settimana della moda di Milano e l’aumento dei prezzi degli ultimi anni è stato l’indicatore più chiaro del fenomeno: perché allora assecondare il gioco dei social media quando il business reale non sembra averne bisogno ma anzi può risentirne?

Gli «ultra-wealthy» che oggi possono permettersi marchi come The Row probabilmente non sono su Twitter o TikTok a chiedersi che fine ha fatto la democratizzazione dell’industria avviata da internet: negli ultimi dieci anni (o poco più) in cui gli atelier hanno aperto le loro porte, almeno virtualmente, a una moltitudine di persone che non sarebbero mai stati consumatori finali, ma ciononostante il valore del “discorso” online intorno ai brand è stato sempre inseguito, ricercato, apprezzato. Almeno fino a questo momento. Va specificato che The Row rappresenta una nicchia privilegiata e magari le sorelle Olsen, come ha scritto Rian Phin, volevano solo offrire un’esperienza ai propri ospiti che ricordasse quella dei saloni di moda di una volta, senza necessariamente voler proiettare quell’«idea di superiorità» con cui internet sembra ossessionato.

 

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Eppure in un momento in cui sempre più marchi cercano di riposizionarsi in quella fetta di mercato frequentata dai ricchissimi, la discussione attorno al divieto dei telefoni è particolarmente interessante. Non solo per via delle logiche del mercato e dello stato stesso in cui versa l’industria, in bilico tra la necessità di esprimere una guardaroba realistico e inarrivabile allo stesso tempo – la necessità di esserci e quella di immaginarsi – ma anche per il rapporto che la moda stringe con la società che vuole rappresentare. In un momento in cui discutiamo animatamente degli effetti dell’intelligenza artificiale sui campi creativi e in particolare sulla produzione di immagini, sembra non esserci mai stata una distanza così siderale tra gli oggetti che la moda produce e le immagini di quegli stessi oggetti che poi distribuisce in rete. Un altro esempio interessante di questo rapporto sempre più spinoso è stata la bella collezione che Andrea Adamo ha presentato durante la fashion week di Milano (che i nuovi brand di Milano scelgano di non sfilare, poi, è un altro problema di cui abbiamo discusso in altre sedi). Come si legge nella nota ufficiale, «il corpo femminile questa stagione è assente nella presentazione. La sua assenza esalta la centralità dei singoli abiti come oggetti, costruiti per fondersi con la tridimensionalità delle forme»: Adamo ha voluto infatti affidarsi all’occhio del fotografo Eamonn Zeel, che ha interpretato la collezione mescolando la fotografia classica e l’intelligenza artificiale: il risultato sono immagini che restituiscono con grande effetto il concetto di seconda pelle, da sempre centrale per il marchio.

Alcune delle immagini della presentazione sono state piuttosto dibattute online, tra chi era ammirato dalla finezza della lavorazione dei capi (in particolare da quella di questa giacca di pelle) e chi si è sentito deluso nell’apprendere che quelle immagini fossero state “generate” dall’AI, cosa non vera perché i capi sono stati scattati su modelle reali e poi rielaborati con l’intelligenza artificiale. Il percorso di creazione di quelle stesse immagini, insomma, era ben più complesso – e sì, la modella con la giacca di pelle è reale, ma l’AI ha “creato” anche modelle che non esistevano, come questa – e i dubbi che ha provocato in chi le ha viste circolare online sono un altro rompicapo per chi maneggia gli oggetti di moda. Come fare a rappresentarli al meglio? Quando abbiamo iniziato a chiederci se la formula della sfilata fosse ancora attuale, non avevamo ancora chiaro cosa sarebbe successo ai vestiti, agli accessori, ai gioielli e alle borse, e di conseguenza ai corpi che tutti quegli oggetti li indossano. Forse ingenuamente abbiamo pensato che il problema principale fosse lo show, nella sua formula ristretta che si è andata poi popolando sempre più di celebrity e influencer, e certamente lo è. Ma se abbiamo rinunciato alla democratizzazione, qualunque cosa significasse in un mondo che è sempre stato esclusivo, e ci ritroviamo ora di fronte ai soli vestiti, cosa succede quando quei vestiti non possono essere fotografati o sono fotografati in una maniera che la fretta social non riesce ad apprezzare e giudicare? Le immagini sono sempre state il principale vettore di influenza della moda, ma c’è una differenza sostanziale tra quelle che una volta riempivano i giornali di settore e quelle che oggi scorrono sui feed: è in quella frattura, in quel glitch, che la moda deve trovare la sua rilevanza, sebbene non sappia ancora come.