Hype ↓
23:38 sabato 6 dicembre 2025
Quentin Tarantino ha detto che Paul Dano è un attore scarso e i colleghi di Paul Dano hanno detto che Quentin Tarantino farebbe meglio a starsene zitto Tarantino lo ha accusato di aver “rovinato” Il petroliere, definendolo «un tipo debole e poco interessante».
Già quattro Paesi hanno annunciato il boicottaggio dell’Eurovision 2026 dopo la conferma della partecipazione di Israele Spagna, Paesi Bassi, Irlanda e Slovenia hanno annunciato la loro intenzione di boicottare questa edizione se davvero a Israele verrà permesso di partecipare.
Pantone è stata accusata di sostenere il suprematismo bianco perché ha scelto per la prima volta il bianco come colore dell’anno L'azienda ha spiegato che dietro la scelta non c'è nessuna intenzione politica né sociale, ma ormai è troppo tardi, la polemica è esplosa.
L’acquisizione di Warner Bros. da parte di Netflix sta mandando nel panico tutta l’industria dell’intrattenimento La geografia del cinema e dalla tv mondiale cambierà per sempre, dopo questo accordo da 83 miliardi di dollari.
Lily Allen distribuirà il suo nuovo album anche in delle chiavette usb a forma di plug anale Un riferimento a "Pussy Palace", canzone più chiacchierata di West End Girl, in cui racconta come ha scoperto i tradimenti dell'ex marito, l'attore David Harbour.
Dario Vitale lascia Versace, appena nove mesi dopo esserne diventato direttore creativo Era stato nominato chief creative officer del brand, appena acquisito dal gruppo Prada, a marzo di quest'anno.
L’unica tappa italiana del tour di Rosalìa sarà a Milano, il 25 marzo Sono uscite le date del tour di Lux: partirà il 16 marzo 2026 da Lione e si chiuderà il 3 settembre a Portorico.
Secondo una ricerca, l’inasprimento delle leggi sull’immigrazione in Europa sta facendo aumentare e arricchire i trafficanti di essere umani Il Mixed Migration Centre ha pubblicato un ampio studio in cui dimostra che le politiche anti immigrazione stanno solo aggravando il problema che avrebbero dovuto risolvere.

A Hollywood hanno scoperto la “complessità”

Oppenheimer, La zona d’interesse, Anatomia di una caduta, American Fiction: gli Oscar 2024 sono l'inizio di una nuova tendenza, il ritorno al successo dei film difficili da fare e pure da guardare?

Se nelle prime 48 ore che seguono la cerimonia degli Oscar è doveroso abbandonare il proprio sguardo all’etere divino e lasciare che si posi su tutto ciò che luccica nella grande macchina dello spettacolo – abiti, danze, conduzione, acconciature, pose d’attore, primi piani sul cane attore dagli occhi celesti che applaude, persino le trovate trash alla John Cena che alimentano i meme sui social – a partire dal terzo giorno è meglio resuscitare dallo stordimento, e osservare con più attenzione i chiaroscuri, il palco spento e le poltrone vuote del Dolby Theatre di Los Angeles.

Cosa ci dicono gli Oscar 2024 attraverso il loro linguaggio meno vacuo, cioè quello dei film premiati, se li analizziamo al netto delle logiche tare ambientali e culturali? Ci dicono che è stata una stagione di cinema vero, scritto, coraggioso, e che chi vorrà in futuro competere nel campionato dei migliori – e mi riferisco soprattutto al cinema nostrano – dovrà necessariamente rinnovare il proprio approccio al processo creativo, che nel cinema non può che andare a braccetto con quello produttivo.

La complessità. Parola ormai esaltata o rinnegata a seconda dei propri fini strumentali, nell’anno di cinema passato è stata la vera musa ispiratrice. Oppenheimer, La zona d’interesse, Anatomia di una caduta, American Fiction: i quattro film che hanno vinto i premi autoriali (Miglior film e Miglior regia, Miglior film internazionale, Migliore sceneggiatura originale, Migliore sceneggiatura non originale), sebbene diversissimi hanno in comune un fattore: sono film complessi, fondati su scritture complesse, figurate, vibranti, estremamente originali. Anzi due: hanno ricevuto e stanno ricevendo anche un ottimo riscontro di pubblico, e i premi li rilanceranno.

Christopher Nolan, con Oppenheimer, ha adeguato alla complessità della scrittura la propria filosofia cinematografica – spendere tantissimo per guadagnare moltissimo – e anzi ne ha fatto la sua pietra filosofale, ricercando una sintesi perfetta tra autorialità e massima diffusione commerciale. Il risultato è un film mastodontico e ambizioso, in cui i piani temporali s’intrecciano e si fondono quasi come fossero due film diversi, che finiscono per intersecarsi in uno straziante e forse irrisolvibile conflitto etico, lasciando a noi spettatori l’onere e l’onore dell’immedesimazione.

Con La zona d’interesse, Jonathan Glazer, ispirandosi al libro di Martin Amis, ha messo in scena un altrove caramellato eppure gelido, nel quale l’ambizione a forgiare una macchina di morte perfettamente organizzata sovrasta i muri di cinta del lager Auschwitz ed entra nella vita della famiglia Höss, in una quotidianità sporcata solo dagli insopprimibili rumori dell’eliminazione di massa. E con un grande film ci racconta la disumanizzazione per assenza, attraverso il rigore ritmico, stilistico e formale di una scrittura (visiva, fotografica, di montaggio) asciutta ma chirurgica. Tutto il contrario di Anatomia di una caduta, girato da Justine Triet e scritto dalla stessa regista con suo marito Arthur Harari, che della scrittura romanzata al cinema è forse il vero e proprio totem, visto che l’impianto registico – nell’opera che più di tutte ha segnato l’annata del grande schermo vincendo una quantità esorbitante di premi – è totalmente a servizio di una sceneggiatura fluviale. Un fiume in piena che rischia di esondare gli argini, per via di una scrittura talmente stratificata e complessa (sì, ribadiamolo ancora) da poter competere con la vita vera. Realismo puro, che sfuma i ruoli di vittima e carnefice, che differenzia la verità esistenziale da quella processuale, e racconta l’umanità nella sua essenza più profonda, quella in cui gli estremi non si polarizzano, ma convivono. Proprio come accade in American Fiction di Cord Jefferson, regista al primo film dopo aver diretto soprattutto episodi sparsi di serie televisive, e che per il suo esordio ha scelto di mettere in scena il romanzo Cancellazione di Percival Everett, a giorni di nuovo in libreria con la Nave di Teseo, scrittore americano che l’attenzione su di sé ha dovuto sudarsela non poco, e che trasmette al film un’ampiezza di codici e intenzioni nell’analisi del circo contemporaneo fatto di opportunismo, di ipocrisia, di grandi e piccole imposture con indiscutibile brillantezza.

Ma se la scrittura con S maiuscola ha vinto, chi è che ha perso? Ha perso lo schema, la scrittura semplificata, quella più favolistica. Ha perso Barbie, soprattutto Barbie di Greta Gerwig, ma hanno perso anche Io Capitano di Matteo Garrone, e in definitiva, Povere creature! di Yorgos Lanthimos. Sconfitte relative, s’intende: sono film di valore che hanno ricevuto premi importanti ed elogi planetari, hanno goduto dell plauso del mainstream, Barbie e Povere Creature! hanno anche ottenuto incassi stratosferici, ma nel tempio del cinema mondiale hanno dovuto cedere il passo a opere drammaturgicamente più sofisticate. Infatti, sebbene diversissimi, anche nel trio dei film perdenti è possibile rintracciare un minimo comune denominatore: la semplificazione.

Barbie, definito in diretta Rai da Claudio Santamaria «un film di povertà intellettuale incredibile», ha fondato il suo successo su una grande messa in scena e sull’evocazione di un femminismo da zona aurea, spensierato e autoironico, e su una lettura del presente fondata sull’osmosi tra lamentela soft e consumo, uno schema così perfetto da rientrare nel concetto che il filosofo smart Byung-Chul Han chiama democrazia degli spettatori.

Alla fruibilità su larga scala ha pensato anche Matteo Garrone, autore di un film notevole e coraggiosissimo in quanto a lavoro sul campo, pittorico e incentrato su uno dei fenomeni più rilevanti della contemporaneità (la migrazione). In Io capitano ha scelto, drammaturgicamente, di replicare il viaggio dell’eroe da manuale, sì, proprio quello di Christopher Vogler pubblicato in Italia da Dino Audino, con i tre atti e i dodici passaggi, con l’effetto di affievolire il drama con il fiabesco, e il poetico con la poetizzazione. Non gli è bastato.

Così come non è bastato a Yorgos Lanthimos concepire uno spettacolo visivo sontuoso, fantasioso, premiato con un tris di Oscar visuali, scenografia, trucco e costumi (oltre a miglior attrice protagonista con Emma Stone), ma trascurato nei premi più ambiti, forse a causa di una sceneggiatura (tratta dal romanzo omonimo di Alasdair Gray del 1992), firmata da Tony McNamara (già autore di Crudelia e La Favorita) che non riesce a tenere il passo della messa in scena, a causa di alcune ridondanze, un arco narrativo in fin dei conti elementare e una certa voglia, nemmeno troppo celata, di piacere alla gente che piace – per citare un vecchio e celebre claim della Y10 – cavalcando la zona di confine, molto mainstream, in cui le trovate strane (anche riuscite) vengono scambiate per genialità.

Si tratta di dettagli, ma significativi, in una scala di qualità comunque molto alta. Quel che è certo, per aggiungere un tassello, è che il tipo di cinema premiato (e non) agli Oscar va in netta controtendenza rispetto alle scelte delle piattaforme – worldwide ma in Italia di più – che, con qualche eccezione concessa ai battitori liberi (come la recente The Gentleman di Guy Ritchie su Netflix) sembrano ripiegare su prodotti conservativi e conformisti, per pasta tecnica e scrittura: docuserie modulari, serie tv che si somigliano tutte. Si pensi ai problemi di Disney+ o ai flop degli ultimi Marvel. Sono tendenze o parliamo di una sintomatologia del giovedì mattina, come diceva Umberto Eco? Difficile dirlo, forse una scalata a una maggior qualità trainata dagli Oscar è l’utopia di un sognatore, ma se è vero che nel mondo contemporaneo sono le narrazioni a creare una realtà che non è mai univoca, tanto vale iniziare a proporre quelle più liberatorie per l’arte migliore.

Articoli Suggeriti
L’età dell’oro del cinema italiano non sarebbe stata la stessa senza le fotografie di Tazio Secchiaroli

Del leggendario fotografo abbiamo parlato con il figlio Davide, in occasione dell'inaugurazione della mostra dedicata a suo padre al Festival del Cinema di Porretta Terme.

La leggendaria collezione d’arte di Ileana Sonnabend è arrivata a Mantova

Ha aperto nel Palazzo della Ragione un nuovo museo dedicato a una delle collezioni private più importanti del Novecento: 94 opere che hanno cambiato la storia dell'arte.

Leggi anche ↓
L’età dell’oro del cinema italiano non sarebbe stata la stessa senza le fotografie di Tazio Secchiaroli

Del leggendario fotografo abbiamo parlato con il figlio Davide, in occasione dell'inaugurazione della mostra dedicata a suo padre al Festival del Cinema di Porretta Terme.

La leggendaria collezione d’arte di Ileana Sonnabend è arrivata a Mantova

Ha aperto nel Palazzo della Ragione un nuovo museo dedicato a una delle collezioni private più importanti del Novecento: 94 opere che hanno cambiato la storia dell'arte.

L’acquisizione di Warner Bros. da parte di Netflix sta mandando nel panico tutta l’industria dell’intrattenimento

La geografia del cinema e dalla tv mondiale cambierà per sempre, dopo questo accordo da 83 miliardi di dollari.

Arabella, un film, due amiche

Carolina Cavalli e Benedetta Porcaroli, rispettivamente regista e attrice de Il rapimento di Arabella, al cinema dal 5 dicembre, sono le protagoniste della nostra nuova digital cover.

L’unica tappa italiana del tour di Rosalìa sarà a Milano, il 25 marzo

Sono uscite le date del tour di Lux: partirà il 16 marzo 2026 da Lione e si chiuderà il 3 settembre a Portorico.

Fontaines D.C., Kneecap e molti altri musicisti hanno fondato un’alleanza di artisti per contrastare l’estrema destra

Si chiama Together e ha già indetto una grande manifestazione per il 28 marzo a Londra.