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A Venezia ha vinto Yorgos Lanthimos ma anche Alasdair Gray

Tra i meriti del film c'è anche quello di aver fatto riscoprire il romanzo dello scrittore scozzese, una delle opere più strane, divertenti e sperimentali degli ultimi trent'anni.

di Francesco Gerardi

Che il Leone d’oro per il Miglior film lo avrebbe vinto Poor Things di Yorgos Lanthimos lo si è capito subito dopo la fine della prima. Ovviamente c’entra la bravura alla regia di Lanthimos, l’interpretazione a detta di tutti eccezionale di Emma Stone, la scrittura di Tony McNamara (che con il regista aveva già lavorato su La favorita), i costumi di Holly Waddington, la fotografia di Robbie Ryan. Ma c’entra soprattutto la stranezza, la diversità, l’unicità della storia, pregi per i quali bisogna ringraziare il suo inventore: lo scrittore scozzese Alasdair Gray. Prima di diventare un film Leone d’oro, Poor Things è stato un romanzo, ora edito anche in Italia per Safarà. Uno stranissimo, diversissimo romanzo pubblicato nel 1992 da uno scrittore all’epoca già leggendario grazie a Lanark, quattro tomi finiti nell’arco di trent’anni che valsero a Gray l’appellativo di Walter Scott della sua generazione. Già in Lanark c’era tutto quello che poi ci sarebbe stato di nuovo dieci anni dopo – Lanark esce nel 1981 – in Povere creature: il mescolarsi di realismo e fantasia, l’incrocio tra letteratura di genere e satira sociale-culturale-politica, la fissazione di Gray per la tipografia e le illustrazioni (Gray aveva frequentato l’Accademia di belle arti e il suo primo mestiere era stato proprio quello di illustratore, i suoi libri sono pieni di illustrazioni meravigliose, Povere creature è reso ancora più bello dai disegni che omaggiano le anatomie di Henry Gray), l’amore per la città natale Glasgow, la passione per i classici di Kafka, Orwell, Borges, Calvino, solo per citare le ispirazioni più evidenti. Soprattutto, già in Lanark c’era tutto lo stile, per comodità e pigrizia definito postmoderno, che ne farà la «cosa più vicina all’Ulisse mai fatta da uno scozzese», come lo definì Irvine Welsh, che a Gray deve la decisione di fare il mestiere dello scrittore.

Se Lanark è Ulisse, Povere creature allora è Frankenstein. L’eroina Bella Baxter è una giovane donna morta annegata che viene riportata in vita da Godwin Baxter, prodigio della chirurgia che decide per una volta di mettere il suo talento a disposizione della vita: prende il cervello della creatura che Bella portava in grembo al momento della morte, lo trapianta nella madre e realizza così il suo, di Godwin, desiderio più grande: avere una famiglia, moglie e figlia unite in un’unica e incestuosa e inquietante fantasia realizzata. I rimandi al Prometeo moderno di Mary Shelley sono evidenti, tanto che è la stessa Bella a sottolinearli: nella parte di romanzo in cui tocca finalmente a lei raccontare di sé, la donna si lamenta esplicitamente di come la sua storia sembri una pastiche di tutti i più tediosi cliché della letteratura vittoriana: lei è il mostro di Frankenstein, il suo padre-creatore-spasimante represso è sia dottor Jekyll che mister Hyde – la mostruosa bruttezza di Godwin viene continuamente sottolineata e mai veramente descritta, proprio come fa Stevenson con il suo, di mostro – le avventure raccontate nelle pagine che hanno preceduto la sua diretta testimonianza sono un plagio di quelle di Alice che attraversa lo specchio. Questo dell’autosmascheramento/autodenuncia è uno dei giochi ai quali Gray si dedica con maggiore delizia: Bella fa un elenco esaustivo di tutte le scopiazzature di cui è fatta la sua storia: Confessioni di un peccatore eletto di Hogg, La razza futura di Edward Bulwer-Lytton, La donna eterna di Rider Haggard, Pigmalione di George Bernard Shaw, Dracula di Bram  Stoker, e poi Wells, Poe, Trilby.

È un gioco ma anche il senso del romanzo di Gray, questo: Bella si lamenta di una delle drammatiche condizioni che vengono con l’umanità, quella di dover assistere come spettatori mentre altri costruiscono la nostra identità. Proprio come lei è fatta (anche) del corpo di un altro, pure i libri sono fatti di pagine già scritte da altri, insinua Gray nella parte più metaletteraria di un romanzo assai metaletterario: l’identità non esiste, c’è solo l’ispirazione. L’originalità non esiste, c’è solo la riconoscenza. L’individuo non esiste, c’è solo l’esperienza, sembra essere il messaggio di Gray. E Povere creature è in effetti un romanzo di esperienze, di viaggi e di sesso prima, di studi e di lotte poi: Bella è sia Lolita che Siddharta, vive in un mondo che sembra scritto da Carroll e lo attraversa con l’entusiasmo e l’ingenuità dei personaggi di Verne, poi diventa una Martin Eden animata dal Furore operaista di Steinbeck. Gray racconta tutto con i mezzi che per secoli abbiamo usato per raccontare le esperienze: il diario e la lettera. Solo che, per ribadire il discorso sull’identità, buonissima parte di questi diari e di queste lettere è scritta da altri, da persone che non sono Bella e che da Bella sono ossessionate. Da padri putativi e mariti mediocri, spasimanti segreti e amanti insoddisfacenti. Potrebbe essere un saggio sul narratore inaffidabile, Povere creature. Gray ci si diverte un mondo, a mettere in dubbio la percezione della realtà del lettore, a verificare i limiti della sua sospensione dell’incredulità. Nel romanzo si mescolano fatti storici realmente accaduti eppure così oscuri da sembrare inventati e citazioni letterarie così verosimili eppure altrettanto false. In un raffinatissimo gioco di specchi, alla fine il lettore non può che vedersi riflesso nell’immagine di Bella e fare anche lui quello che fa lei: andare a controllare di persona, scoprire cosa è vero e cosa no, cosa è fatto realmente accaduto e cosa è frutto della fantasia altrui. Uscire dalla storia che un altro, degli altri stanno raccontando.

Povere creature è la storia giusta per l’epoca in cui stiamo cercando una nuova definizione di identità. Perché è una storia che ci ricorda che l’identità è appunto questo: solo una tra le altre storie che ci raccontiamo. Bella trova il suo posto nel mondo dopo averlo esperito tutto e in tutti i modi e in tutti i sensi, e aver capito che l’identità si trova al di fuori di sé. Lei la trova nella sfida ai valori vittoriani, nei socialisti, nella medicina, nelle suffragette, nella sfida agli uomini che all’inizio della sua vita chiamava scherzosamente ma neanche tanto “God” e “candle”, Dio e candela, la Chiesa e lo Stato, la religione e la famiglia, incarnazioni dell’affettazione e dell’ipocrisia vittoriana di cui a quel punto si è già ampiamente lamentata. Alla fine del suo viaggio, Bella torna a casa per reclamare se stessa, rinnegare il Dio e spegnere la candela, forte di tutto quello che ormai sa. Che è la stessa missione che Gray aveva dato a se stesso una volta deciso di fare i romanzi. Scrivere personaggi che contenessero «tutto quello che so», aveva detto in un’intervista a Paris Review, una delle sue ultime (morirà nel 2019): come Ulisse nell’Odissea, come Dante nella Divina Commedia, come il mostro in Frankenstein, come Stephen Dedalus nell’Ulisse. E come Bella Baxter in Povere creature.