Cultura | Cinema
Oppenheimer, un film fondamentale sull’uomo più ambiguo della storia
Arriva oggi nelle sale italiane il nuovo film di Christopher Nolan, un'opera d'arte imponente e contraddittoria, proprio come la storia del suo protagonista.
«È contraddittorio ma è vero», spiega J. Robert Oppenheimer accogliendo il primo studente iscrittosi al suo corso di fisica teorica all’università di Berkeley. Parla della luce e della sua doppia natura, sia ondulatoria che corpuscolare, sia particella che onda. L’esempio serve a Oppenheimer a spiegare al giovane allievo un principio fondamentale, forse il principio fondamentale, della fisica quantistica: una cosa può essere se stessa e anche qualcos’altro, nello stesso momento, nelle stesse condizioni. Serve anche a Nolan, l’esempio, per spiegare Oppenheimer, sia l’uomo che il film: in un’intervista al New York Times il regista ha detto che Oppie, come lo chiamavano gli amici e come ora lo chiama anche lui, è stato sia l’uomo più importante che la persona più ingenua mai esistita. «È contraddittorio ma è vero», e quindi la stessa persona (Oppenheimer) può essere nello stesso momento, nelle stesse condizioni, sia un eroe che un criminale di guerra, e lo stesso regista (Nolan) può essere nello stesso momento, nelle stesse condizioni, sia un apologeta che un giudice.
Da ragazzino Nolan era terrorizzato dalla bomba: era l’Inghilterra degli anni Ottanta, Campaign for Nuclear Disarmament, di cui Bertrand Russell era stato presidente, tornava rilevante; un gruppo di 32 donne cominciava la protesta attorno alla base della Raf di Greenham Common, un protesta che sarebbe poi diventata uno dei più grandi gruppi-movimenti pacifisti del Paese; Sting faceva uscire il singolo “Russians”, in cui cantava di Oppenheimer e dei suoi «deadly toys». Il ragazzino Nolan guardava e ascoltava e pensava, chiedendosi come mai tutta quella paura non producesse arte adeguata, cultura proporzionata. Decise che prima o poi avrebbe fatto lui quello che nessuno aveva mai fatto prima – forse è con questo piglio pionieristico che si spiega davvero l’attrazione per Oppenheimer – che presto o tardi sarebbe stato lui a raccontare il giocattolaio folle e i giocattoli mortali che avevano creato il mondo per come lo conosceva. Ci sono voluti quasi cinquant’anni, nel frattempo Nolan ha letto un libro che gli ha spiegato che Oppenheimer è stato il Prometeo americano (si intitola così, American Prometheus, la biografia dalla quale ha tratto il film) e il mondo ha riscoperto la paura sopita ma mai superata dalla Russia, della bomba, della mutually assured destruction.
Ed è così che probabilmente si spiega il successo di Oppenheimer, che nel mese trascorso dall’uscita nelle sale americane ha accumulato tutta una serie di record che confermano come le cose possano essere contraddittorie ma vere. Negli Usa il film è uscito il 21 luglio, da quel giorno a questo è diventato il film sulla Seconda guerra mondiale ad aver incassato più soldi al botteghino internazionale – precedente detentore del record: Dunkirk, e se è vero che due indizi fanno una prova allora è vero che anche Nolan ha il suo genere prediletto – e anche il blockbuster che ha incassato più soldi senza mai arrivare in cima alla classifica dei film più visti della settimana (per un mese intero quel posto lo ha occupato Barbie). Sono dettagli minori che però rimandano al discorso sul «contraddittorio ma vero». Perché Oppenheimer non è né un film sulla Seconda guerra mondiale in senso stretto né un blockbuster propriamente detto. Nolan è stato criticato per non aver “mostrato” la guerra, per non aver fatto vedere al pubblico la terra bruciata dal fuoco che il Prometeo americano ha donato all’umanità: Hiroshima e Nagasaki non si vedono nemmeno e se ne parla a malapena, ha detto e scritto una parte della critica americana. E si sapeva che osservazioni del genere sarebbero arrivate, perché viviamo nell’epoca in cui le cose esistono solo se esposte.
Non ci sono in Oppenheimer immagini di Hiroshima e Nagasaki, nessuna scena di finzione né filmato d’archivio, è vero. C’è però il volto di Cillian Murphy – finalmente giunto all’interpretazione che rende giustizia al suo talento – le rughe da contrizione, il pallore malaticcio, la magrezza ansiogena che a esso si aggiungono negli anni successivi a Hiroshima e Nagasaki, quelli in cui Oppenheimer è nello stesso momento sia “il padre della bomba atomica” che il leader del movimento mondiale contro la proliferazione della stessa (e per il disarmo generale). Non è nemmeno un blockbuster, Oppenheimer. Non lo è per come lo intendiamo oggi, non lo è per la ragione per la quale Logan Paul ha abbandonato la sala nel mezzo del film lamentandosi poi sui social che «qui tutti parlano e nessuno fa niente». Ha ragione lui, ovviamente: Oppenheimer è per tantissimi aspetti quello che un tempo si sarebbe definito “polpettone”, un film lungo tre ore, un quarto bignami di fisica teorica, un quarto lettura di atti giudiziari e un quarto resoconto di udienze parlamentari (le parti in cui spiccano i “comprimari” Robert Downey Jr., Matt Damon, Florence Pugh, Emily Blunt). Resta l’ultima parte, il quarto finale, ma anche in questo non succede niente. Almeno, non nel senso in cui se lo aspettano (lo pretendono) quelli come Logan Paul. La parte del film che racconta la bomba racconta soprattutto come non farla esplodere e perché non dovrebbe esplodere. E in questo pezzo di film Nolan compie il suo vero capolavoro (con la preziosissima collaborazione del direttore della fotografia Hoyte van Hoytema e della musica di Ludwig Göransson), riscrivendo a livello subatomico e su scala apocalittica la definizione di suspence fatta da Hitchcock: c’è una bomba sotto il tavolo, il pubblico sa che esploderà, la bomba esplode. E quando succede la detonazione è forte tanto quanto l’impressione che fino a quel momento non stesse succedendo niente, appunto.
Oppenheimer non è un film sulla Seconda guerra mondiale né un moderno blockbuster. Non è un film sulla bomba né su tutte le altre cose che ci abbiamo trovato, ci stiamo trovando e ci troveremo dentro: il pacifismo come massima espressione (e illusione) della cultura umana, le tendenze totalitarie delle democrazie, le armi come male necessario, l’eccezionalismo americano, l’anticomunismo, l’antisemitismo e la lista potrebbe allungarsi all’infinito. Oppenheimer è un film sulla grandezza e sul suo doppio: l’ambiguità. In questo sta il vero messaggio del film, indirizzato a coloro che vivono nell’epoca in cui dai grandi si pretende anche l’opposto dell’ambiguità: la purezza. Da ragazzo, J. Robert Oppenheimer era ossessionato dai mondi reali ma invisibili, veri ma inverosimili che la fisica gli aveva mostrato permettendogli di andare oltre i limiti dei sensi. Gli stessi mondi, lui credeva, che per altre vie avevano esplorato anche scrittori come T.S. Eliot, pittori come Picasso, compositori come Stravinsky (all’inizio c’è una scena in cui Oppenheimer legge La terra desolata, ascolta la musica della Sagra della primavera, osserva la “Donna con le braccia incrociate”).
Nolan insinua che è inseguendo questa stessa grandezza – «riesci a sentire la musica?», chiede Niels Bohr a un giovanissimo Oppie, cercando di fargli capire cosa sia davvero la fisica teorica – che Oppenheimer supera tutti loro e arriva al limite ultimo, inevitabile di ogni umana ricerca: la fine del mondo, l’annientamento, l’apocalisse. La sua storia è una tragedia e la tragedia si basa sui doppi, contraddittori ma veri: la conoscenza è arroganza, la scoperta è dannazione. E a quel punto, dopo aver visto con i suoi occhi «la paura in un pugno di polvere», Oppenheimer torna indietro, cercando disperatamente di salvare se stesso e l’umanità alla quale ha regalato il fuoco, beccandosi anche del piagnone dal Presidente degli Stati Uniti, che lo caccerà in malo modo dallo Studio Ovale rivendicando la superiorità di chi il bottone lo preme rispetto a chi lo costruisce, negandogli persino la penitenza eterna, quindi la redenzione, che spetta a ogni Prometeo che voglia davvero dirsi tale.
Molto più che in quella citazione del Bhagavad Gita, «sono diventato Morte, il distruttore di mondi», l’Oppenheimer di Nolan sta in un altro verso di Eliot: «Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine». Le rovine dell’uomo che, ancora oggi, non possiamo sapere se ha distrutto il mondo o lo ha salvato, se ha iniziato la guerra mondiale che porrà fine all’umanità o ha posto fine all’ultima guerra mondiale. Un uomo ancora oggi così indecifrabile che i suoi stessi eredi non hanno nessun problema con il titolo di “padre della bomba atomica” ma non accettano che nel film ci sia una scena in cui si suggerisce che Oppenheimer, ai tempi in cui era studente a Cambridge, avesse cercato di uccidere un odiatissimo professore lasciandogli sulla scrivania una mela avvelenata. L’uomo più ambiguo della storia. «E, per questo, il più grande», ha detto Nolan.