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Gli Oscar 2024 hanno realizzato tutti i sogni di Christopher Nolan

Sette statuette per Oppenheimer, che si conferma così il film dell'anno al termine di una cerimonia prevedibile come spesso è successo ma noiosa come capitato in poche altre occasioni.

di Francesco Gerardi

E così passa alla storia anche la 96esima edizione degli Academy of Motion Picture Arts and Sciences Awards, dai più conosciuti con il nome di premi Oscar, quest’anno noti anche come l’ultimo capitolo del Barbenheimer. È finito l’evento cinematografico di cui abbiamo cominciato a parlare all’inizio della scorsa estate, quando i primi trailer di Barbie di Greta Gerwig e di Oppenheimer di Christopher Nolan furono cuciti assieme da quello scienziato pazzo che talvolta internet riesce ancora a essere, anche se sempre più raramente. Il risultato è stato uno dei più rilevanti eventi pop culturali degli anni Duemila e una delle più efficaci campagne di guerrilla marketing della storia della pubblicità, della quale hanno approfittato anche gli svogliatissimi autori di questa edizione degli Oscar.

In una serata in cui si è assistito a siparietti che farebbero arrossire pure gli autori di Sanremo – il peggiore: «See? He’s not such a bad bunny», dice The Rock, presentando il premio per il Miglior film internazionale assieme a Bad Bunny, siamo nello stesso territorio di Amadeus che dice che all’ingresso del Teatro Ariston non si pass se non hai il pass – l’unico momento di minima brillantezza è stato quello in cui Emily Blunt e Ryan Gosling hanno portato sul palco del Dolby Theatre la rivalità tra Oppenheimer e Barbie che da mesi prosegue sui social. Rivalità ormai finita e vinta dal film di Nolan: sette Oscar, Miglior film, Miglior regia, Miglior attore protagonista, Miglior attore non protagonista, Miglior fotografia, Miglior montaggio. Un successo che ha scalfito persino la corazza robotica che Nolan mostra sempre nelle pubbliche apparizioni: durante il discorso i suoi occhi vagavano nello spazio attorno ma inevitabilmente tornavano a fissarsi sul punto dorato che gli brillava tra le mani.

Il trionfo di Oppenheimer, dunque. Soprattutto del suo regista, riuscito a mettere e realizzare tutte le sue ambizioni personali in un unico film che ora sì possiamo considerare un magnum opus. Con Oppenheimer Nolan ha dimostrato (ancora una volta) che il grande cinema può esserlo sia in senso commerciale che in senso autoriale, che i registi come lui lavorano per funzioni esponenziali: spendono centinaia di milioni di dollari per realizzare film che poi ne incassano miliardi che poi hanno un impatto, esercitano un’influenza che va oltre i numeri. Ma non solo: con Oppenheimer Nolan ha compiuto la (autoassegnatasi) missione di salvare il cinema come luogo, di restaurare la sala come chiesa e di rimettere questa chiesa al centro del villaggio del cinema. Se in questi mesi abbiamo parlato e scritto di un “ritorno” del cinema come posto speciale ed esperienza specifica, è anche grazie a Oppenheimer. E ancora: Nolan è il regista che ha consacrato Cillian Murphy, «proud Irish man» come si è definito lui stesso, araldo di una generazione d’oro i cui membri vedremo salire spesso su quel palcoscenico negli anni a venire; Nolan è anche il regista che ha restituito a Robert Downey Jr., il più grande talento attoriale della sua generazione, per decenni il più grande spreco di potenziale della storia di Hollywood, la rilevanza che gli spetta. Nel suo discorso, Downey Jr. ha ringraziato le tre “presenze” che alla fine ne hanno fatto uno dei grandi attori americani: la sua «infanzia di merda», sua moglie e il suo stylist.

E l’altra metà del Barbenheimer? «Ve la state cavando bene in questa stagione dei premi», ha detto una cattivissima Emily Blunt durante l’omaggio che lei e Ryan Gosling hanno fatto agli stunt man, categoria che nei prossimi anni avrà quasi sicuramente e molto giustamente un premio dedicato. Tornando a Barbie: non la più entusiasmante né ricca stagione dei premi, in effetti. Billie Eilish vince il premio Oscar per la Miglior canzone originale con “What Was I Made For?” e diventa la più giovane due volte vincitrice della statuetta nella storia dell’Academy. Tutto qui l’oro di Barbie, una vittoria soltanto e una celebrazione del successo che ancora una volta prende il volto e la voce e il corpo e le movenze e i vestiti di Ryan Gosling. In una divertente reinterpretazione di “I’m Just Ken”, l’attore riempie il palco del Dolby Theatre di maschi e diventa ancora una volta lo strumento della crudele ironia che ha perseguitato Barbie lungo tutta la stagione dei premi, la stessa crudele ironia che tutti avevano sottolineato al momento della mancata nomination di Greta Gerwig alla Migliore regia e di Margot Robbie tra le migliori attrici protagoniste. Povere creature, hanno detto in tantissimi, coinvolte nella loro stessa festa solo nel momento in cui Gosling si è ricordato di passare da loro per farle contribuire con un verso all’esibizione di Ken che cantava di Ken circondato da altri Ken.

A proposito di Povere creature!: l’unica vera sorpresa della serata è stata la vittoria dell’Oscar per la Migliore attrice protagonista di Emma Stone. Lily Gladstone era favorita e la sorpresa si è vista tutta nel volto di Stone al momento dell’annuncio. Commossa, emozionata, mortificata per aver maldestramente distrutto la cerniera che le chiudeva l’abito Louis Vuitton attorno alla schiena, Stone ha vinto il quarto dei quattro Oscar di Povere Creature!: Migliori costumi (Holly Waddington), Migliore scenografia (James Price, Shoha Heath, Zsuzsa Mihalek), Miglior trucco e acconciatura (Nadia Stacey, Mark Coulier, Josh Weston) gli altri tre. Sorprese a metà sono invece le vittorie di Cord Jefferson, premiato come autore della Migliore sceneggiatura non originale per American Fiction, e di Arthur Harari e Justine Triet, vincitori della statuetta per la Miglior sceneggiatura originale con Anatomia di una caduta. Di questo film abbiamo parlato tantissimo, è la vittoria più meritata di questa edizione, è ammirevole il contegno con il quale Triet si è trattenuta dallo spernacchiare in mondovisione la commissione che aveva deciso che il suo film non era bello abbastanza per rappresentare degnamente la Francia nella categoria Miglior film internazionale (preferendo un film, La Passion de Dodin Bouffant, il cui senso si può riassumere in “che buona la cucina francese”).

Categoria, quest’ultima, nella quale ha prevedibilmente vinto La zona d’interesse di Jonathan Glazer, che a dieci anni dal disastro di Under the Skin – film bellissimo fatto ingiustamente a pezzi sia dalla critica che dal pubblico – si prende la rivincita grazie a uno dei film più coraggiosi e inquietanti della storia recente. Nel suo discorso, uno dei due accenni a questioni geopolitiche fatti nel corso di tutta la cerimonia – l’altro lo ha fatto Mstyslav Černov, regista di 20 Days in Mariupol, vincitore nella categoria Miglior documentario, che ha detto che cederebbe volentieri il suo Oscar in cambio di un mondo in cui i soldati russi non hanno mai superato il confine tra la Federazione e l’Ucraina – Glazer, voce e mani tremanti, ha parlato di «deumanizzazione», del 7 ottobre in Israele e di quello che sta succedendo nella Striscia di Gaza dal giorno successivo. Applausi timidi, anche da parte di quelli che avevano sfilato sul red carpet indossando una spilla rossa, simbolo della richiesta di cessate il fuoco. Spilla poi rimossa all’ingresso del Dolby Theatre.

Breve digressione giapponese. Il ragazzo e l’airone vince l’Oscar per il Miglior film d’animazione, il primo vincitore in 2D da 21 anni a questa parte, dalla vittoria della Città incantata nel 2003, regista sempre Hayao Miyazaki, che nel tempo trascorso tra una vittoria e l’altra ha annunciato e ritirato l’autopensionamento almeno tre volte e salvato l’animazione giapponese altrettante volte. La vittoria nella categoria Migliori effetti speciali a Godzilla Minus One è la conferma di uno dei casi cinematografici degli ultimi anni – 100 milioni di dollari incassati in tutto il mondo, il terzo maggiore incasso per un film straniero al botteghino americano, più di Parasite e di Hero – oltre che il momento più kawaii della serata (nonostante la durissima competizione posta dal cane Messi di Anatomia di una caduta) con il regista Takashi Yamazaki che non sa cosa tenere in mano tra la statuetta dell’Oscar e quella di un Golden Godzilla realizzato per l’occasione.

Una cerimonia prevedibile come ce ne sono state tante nella storia degli Oscar, insomma. Ma noiosa come poche altre negli ultimi anni: Jimmy Kimmel, protagonista di uno dei più tediosi monologhi d’apertura che si ricordino (a chi fa ancora ridere la battuta sui film che sono diventati troppo lunghi?) salvato soltanto dalla reazione isterica di Donald Trump su Truth, John Cena nudo sul palco come Gianni Morandi durante quella leggendaria puntata di Uno di noi, Becky G che si produce in un’esibizione che ricorda i “Supereroi” di Mr. Rain a Sanremo 2023. Il disastro di Joe Koy ai Golden Globe quindi non era un incidente di percorso ma l’indizio di una tendenza: gli americani non sanno più fare entertainment? Dovremo abituarci a un mondo in cui più degli Oscar ci intrattiene la diretta sugli Oscar di Rai1, protagonista un Claudio Santamaria che all’improvviso parte con una velenosissima tirata contro Barbie per la gioia di un fin lì scoglionatissimo Gabriele Muccino? Gli Oscar sono diventati la più grande vetrina cinematografica del mondo ma hanno smesso di essere un evento come solo gli Stati Uniti intendono un evento? Chissà, con tutti questi evidenti rimandi sanremesi forse l’Academy ci sta dando un indizio: magari l’anno prossimo la direzione artistica dei premi Oscar sarà affidata ad Amadeus. A questo punto, speriamo.