Attualità | Coronavirus

Buone notizie da una pandemia

Tra chi si è abituato alla "nuova" realtà e chi cede alle lusinghe delle teorie complottiste, ci metteremo ancora molto a decifrare come e quanto la pandemia ci ha cambiati.

di Letizia Muratori

Foto di ALEXANDER NEMENOV/AFP via Getty Images

Quando sfoltiscono la chioma a un pino e certi rametti vengono giù verticali, puoi ancora sperare che lo stiano solo potando. Ma se, dopo la chioma, cominciano ad amputare i rami grossi lungo il fusto, allora ti allarmi. Non ci sono più dubbi, quando sezionano il tronco, lo fanno a pezzi come in un vecchio numero di illusionismo. In questo atto criminale non c’è quel trucco che alla fine ci riconsegna il pino intero. Purtroppo non lo vediamo venir fuori agile e pieno di lustrini da una scatola col doppio fondo. Sono diventata, mio malgrado, un’esperta del massacro dei pini mediterranei. Solo nella strada in cui vivo ne hanno fatti fuori sei nel giro di due anni. L’ultimo, ieri. Così ha riaperto un grande cantiere edile: abbattendo il settimo pino.

Alla domanda, un po’ oziosa, che ci si faceva all’inizio della quarantena: «Ne usciremo migliori?» oggi risponderei con questa scena di amputazione, ennesima quanto inaugurale. Ecco, uscire per me non è il verbo giusto e rivendico i diritti opachi dei convalescenti. Un virus non dà lezioni di vita, ma la sua comparsa impone una qualche azione difensiva, dunque di ragionare, spesso di scontrarsi, su come proteggersi. In Vizio di forma di Primo Levi c’è un racconto che si intitola proprio “Protezione”. Bisogna leggerlo per farsi un’idea di cosa comporti difendersi, anzi, corazzarsi. Ai personaggi del racconto è stato imposto, come a tutti gli altri cittadini, di mettersi al riparo da una pioggia di micro meteoriti indossando uno scafandro. La prevenzione va avanti da vent’anni. Alcuni lasciano intendere che il tutto sia stato orchestrato per controllare la società, aleggia il sospetto di un complotto industriale, finché nell’automatico ripasso delle varie dietrologie non si fa largo una voce femminile, perfino un po’ oca, che confessa: lei nella corazza ci sta bene, ha bisogno di proteggersi non solo dalle schegge, probabilmente inventate, ma da tutto il resto. Il candore con cui questo personaggio si dichiara comodo nella corazza, spaventato alla sola idea di sfilarsela, dà al racconto quella cifra di ambiguità che è il punto cui l’autore intende arrivare. Difendersi, perfino dalla vita stessa, è un riflesso di specie che non implica né una condanna né l’assoluzione. Forse bisognerebbe guardare a Primo Levi in questa fase di convalescenza. In qualche modo gli fanno eco certe dichiarazioni di infermiere che, al momento, si sentono a loro agio solo in macchina: non più a casa, né in ospedale. Non è bello corazzarsi, ma il bisogno di protezione non va censurato, soprattutto non ne va censurata la tristezza. Eppure ci sono persone, intelligenti e non sprovvedute, che negano il disagio. E così finiscono con il non distinguersi troppo dalle posizioni del generale Pappalardo.

Tra Primo Levi e la caricatura di un golpista che sembra uscito da “Alto gradimento” (qui chiedo ai più giovani la cortesia di documentarsi) personalmente non avrei dubbi.    

In questi giorni si parla molto di infodemia. L’Unione Europea lancia allarmi. C’è un pericolo in agguato, antidemocratico, che uccide disinformando, e va controllato. Per quel che vale, già alla metà di marzo mi venne riportato un racconto di terza mano che allora mi appariva assurdo, oggi meno. Un moscovita, residente all’estero da anni, chiamava i suoi parenti in patria per avere notizie, ma quelli reagivano: «Perché, è vero? Il Coronavirus non è tutto un piano dei democratici per far fuori Trump?». Potrebbe essere che i parenti del moscovita fossero un tantino fantasiosi, ottimisti, forse ubriachi, ma potrebbe anche essere un segnale infodemico.

Detto questo, l’inquinamento dell’informazione non è nato certo con questa emergenza sanitaria. Sono anni che affligge il mondo in varie forme, pseudo ufficiali, filo e antigovernative, sotterranee e più o meno pappalardiche. Affligge alcuni, però ne seduce molti altri. Non si tratta delle fake news in sé, ma della cupa sit-com che le contiene, il cui motore è l’escapismo, come si diceva nei Settanta, la fuga dalla realtà nella fiction. Nella pessima fiction, quella che collassa sul finale. Ricordo Severino Cesari – editor che non snobbava i generi letterari – scuotere la testa di fronte a certi manoscritti che da un “onesto plot” viravano al complotto. Si sfarinavano in un piano orchestrato dalla solita Spectre o, peggio ancora, da un’eminenza grigia. La fine di questi romanzi non era un finale, ma l’inizio di qualcosa che lo scrittore stesso non sentiva più il dovere di raccontare, perché lo sanno tutti, avanti, che dietro ogni possibile incidente cospira un manipolo di pupari. Severino, che amava la fiction e ne rispettava i lettori, detestava le eminenze grigie. Allora non capivo quanto avesse ragione e quanto questa pigra scappatoia minacciasse non solo la riuscita di un libro, ma la capacità stessa di leggere la realtà. Quando qualcuno rimproverava a Severino di essersi messo a corteggiare un vasto pubblico, di bocca buona – a volergli fare un complimento, un pubblico extra letterario – sottovalutava la sua ferma indifferenza alle lusinghe commerciali di certe trame complottiste che attraggono e hanno una platea enorme. Le eminenze grigie piacciono, eccome. Piace pensare che il mistero sia sempre nascosto, remoto, quando è nell’evidenza che bisogna mettersi a scavare.   

Non c’è bisogno di elencare tutte le storiacce con pupari subdoli che sono in circolazione da anni: Soros, la Hillary Clinton del Pizza Gate. Chi volesse farsene un’idea aggiornata, legga il pezzo di Adrienne LaFrance sull’Atlantic, desta grandissimo interesse, oltre che allarme. Più che un sottobosco, si tratta di una foresta di trovate folli. È la solita polpetta avvelenata di antisemitismo, di rancore, riproposta all’infinito nel piatto vuoto delle crisi. Però l’impasto recente è un po’ diverso: individualista, solitario. È vero che questi soggetti possono riunirsi, fondare movimenti, manifestare in piazza, ma il parametro è: uno –io– contro tutti. Un ego smisurato, meglio ancora se anonimo, rigorosamente senza piani, deputato solo a smascherare quelli potentissimi e malefici altrui.   

Il grande interprete, detonatore, e filtro di queste pulsioni asimmetriche è Donald Trump. Ha sia precedenti che imitatori, ma lasciamoli perdere. Mentre accade quello che sta accadendo in queste ore negli Stati Uniti, Trump si occupa di un settantenne scaraventato a terra dalla polizia, e sospetta che sia uno stuntman. Che dietro quella caduta ci sia un complottino Antifa. Sempre meglio un complottino Antifa che affrontare l’evidenza. Ma a chi si rivolge, Trump?  Forse più a nessuno, il presidente è arrivato alla fase bunker. In ogni caso l’ascolta il suo pubblico di fedelissimi, la sua setta, perché gli altri, i repubblicani, lo hanno abbandonato? Non cantiamo vittoria, manca ancora del tempo alle elezioni.   

I segnali di un possibile riscatto popolare in campo democratico però ci sono, e pazienza se qualche scettico sospetta che le strade si siano riempite di orfani del Coachella e che l’ondata di protesta potrebbe non reggere al confronto con un’effettiva riforma del sistema che va a toccare i privilegi dei bianchi. Essere orfani del Coachella non è il male assoluto, ma l’inizio di un onesto plot, per dirla con Cesari, che va seguito.  «Finirà come il Me Too…» già dicono alcuni, ad esempio chi non si fida della furia retroattiva che butta giù le statue. Non piacciono nemmeno a me, gli abbattimenti, lo si sarà capito dall’incipit di questo pezzo. Però il Me Too non ha solo messo all’indice qualche artista di genio, peraltro temporaneamente, ha reso non più condonabili certi assalti sessuali ritenuti normali, incidenti di percorso nella vita di una donna. E se, anche in questo caso, si arrivasse a non digerire più gli atti violenti della polizia, non sarebbe male. Augurando l’eterno riposo alla serie “Cops” che ormai agonizzava davanti a quattro gatti. Non mi indignerei per il taglio di “Cops” dai palinsesti, si è trattato di eutanasia. Il problema semmai è cancellarla dalla testa di chi prende le decisioni e ci è cresciuto davanti.   

Non so se ne usciremo migliori, peggiori o uguali, ma forse c’è una buona notizia. Il virus ci ha spiazzati e rinchiusi, comodi o scomodi che fossimo nelle nostre corazze, è successo davvero qualcosa di distopico. L’ingresso della finzione nel nostro quotidiano, di un genere peraltro così popolare, ha esasperato i complottismi, al tempo stesso potrebbe averli disinnescati. È la fine delle eminenze grigie? Certo, attribuire la complessità del presente al solito raggiro di potere, subdolo, che agisce dietro le quinte, appare una minestra riscaldata. Come si fa a scappare nella fiction, quando è entrata nella realtà? I complottisti potrebbero aver perso la bussola, non sapere più dove andare a sbattere.