Attualità | Coronavirus

La pandemia vista da New York

Solo un mese fa Trump scherniva il problema, ora invece in America è arrivato il panico: ecco cos'è successo negli ultimi giorni.

di Simona Siri

Una copia del New York Magazine in un'edicola di New York, 15 marzo 2020. Foto di Cindy Ord/Getty Images

È il 28 febbraio quando durante un comizio elettorale in South Carolina, Donald Trump si rivolge alla sua folla parlando per la prima volta del Coronavirus o, con parole sue, «la nuova bufala inventata dai democratici per far fuori il presidente». È il 14 marzo quando alle undici di mattina Donald Trump entra in casa mia attraverso la tv e annuncia di essersi sottoposto al test per vedere se ha contratto il COVID-19  (il risultato arriva il giorno dopo: negativo). Il giorno prima, circondato da esperti, aveva parlato dal Rose Garden della Casa Bianca per annunciare che il Coronavirus, lo stesso virus che neanche un mese prima aveva bollato come una sciocchezza, aveva messo gli Stati Uniti in una situazione di emergenza nazionale. Neanche un mese per non solo cambiare idea (o magari non cambiarla, magari dentro di sé lui è davvero convinto che il Coronavirus sia una banale influenza), ma per cambiare completamente l’approccio degli Stati Uniti alla prima pandemia dell’epoca moderna.

Questa è l’America oggi, un Paese in confusione, con un leader che continua a contraddirsi quando non a mentire spudoratamente. Un paese che in tre giorni è passato da “no panic” a “ok, panic” con tutto quello che ne consegue: persino nella flemmatica e abituata a tutto Manhattan, sabato 13 marzo c’erano le file fuori da supermercati come Trader Joe’s, per non parlare del fatto che su Amazon il disinfettante per le mani è ormai introvabile così come qualsiasi prodotto per la disinfezione della casa. Il primo marzo, il giorno dopo l’annuncio della prima morte per coronavirus negli Stati Uniti, i fratelli Matt e Noah Colvin, sono partiti in direzione Chattanooga, Tennessee, a fare incetta di salviettine antibatteriche, gel per le mani, mascherine, guanti. Dopo aver svuotato praticamente ogni negozio della regione, hanno trasformato il loro garage in un magazzino e si sono messi a vendere i prodotti su Amazon a cifre fuori mercato: una boccettina di disinfettante per le mani poteva costare anche 70 dollari, contro i tre, quattro che ne costa di solito. «It was crazy money» ha detto al New York Times che lo intervistava Matt Colvin, senza neanche il dubbio di passare per uno di quelli che si stanno approfittando della sciagura altrui. È comunque durata poco: accortasi del proliferare di gente che stava guadagnando dalla pandemia, Amazon ha bloccato i loro account, ripulendo in siti di un bel po’ di loro e mettendo un limite a persona per chi vuole acquistare prodotti per la pulizia.

È l’America bellezza, verrebbe da dire, un Paese che in questo momento di crisi sanitaria mondiale sta mostrando tutti i suoi limiti strutturali. Trump a parte, la difficoltà e la lentezza con cui gli Usa si stanno muovendo è la diretta conseguenza del (brutto) rapporto dei cittadini con il loro sistema sanitario privato, un sistema che ti porta a chiederti, prima di qualunque altra cosa: sì, ma se poi l’assicurazione non mi rimborsa, io che faccio? Nonostante le promesse del presidente («Un milione di test!») e l’annuncio – subito smentito dagli interessati – che Google stava mettendo su un sito in cui ciascun cittadino avrebbe potuto registrarsi e trovare il “testing corner” più vicino a casa, la possibilità di testare e quindi di tenere una stima dei pazienti affetti da Coronavirus è ancora oggi bassa: 1629 casi confermati, 41 morti (dati dal sito ufficiale del governo).

Chi invece si è mosso presto e bene, sono stati i governi locali. Washington – 457 casi, 31 morti – è stato uno dei primi a rispondere in modo adeguato chiudendo scuole, uffici pubblici e proibendo l’assembramento di persone grazie all’azione del governatore Jay Inslee. A New York – 524 casi, due morti – il governatore Andrew Cuomo e il sindaco di New York City Bill de Blasio sono riusciti a mettere da parte le antipatie e i rispettivi ego per agire insieme in modo efficace. Pur non essendo blindata del tutto, nella settimana dal 9 al 14 marzo Manhattan ha visto diminuire la popolazione per le strade di un milione secco secco. La metropolitana ancora funziona – è una fissa newyorkese ed è anche il motivo per cui ammodernarla e ripararla è complicato: la metro a NYC non si ferma mai – ma i vagoni sono quasi vuoti. Broadway dal 12 marzo ha sospeso tutti gli spettacoli fino al 12 aprile, un mese esatto. Il Metropolitan Museum, il Whitney, il MOMA, il Guggenheim, il Metropolitan Opera, la Carnegie Hall e la New York Philharmonic sono tutti chiusi, e prima di loro avevano chiuso le istituzioni culturali di San Francisco e Seattle. Il sindaco de Blasio ha cancellato sia la mezza maratona prevista per il 15 marzo che la famosa parata del giorno di San Patrizio, una vera e propria istituzione newyorkese che ogni anno riversa sulle strade due milioni di persone. «È come cancellare il Natale», ha detto un deluso proprietario di pub irlandese al sito Eater. Ristoranti e negozi ancora resistono, ognuno a modo suo. C’è chi diminuisce il numero di tavoli, per favorire la distanza tra i commensali, c’è chi chiude del tutto. Gli Apple Store sono chiusi in tutti gli Usa dal 14 marzo fino a sicuramente il 27 e poi si vedrà. I cinema nel momento in cui scrivo sono ancora aperti, ma mezzi vuoti. Le messe sono proibite, le sinagoghe chiuse. Lo sport si è fermato tutto, ed è forse il momento in cui gli americani si sono davvero resi conto della gravità, quando i giocatori dell’NBA sono risultati positivi.

Sabato 14 marzo il sindaco di Hoboken nel New Jersey ha dichiarato il coprifuoco. Succederà anche nei cinque distretti di New York City, un’area con  oltre otto milioni di cittadini? Il 12 marzo il sindaco de Blasio ha smentito – prima in tv, poi su Twitter – l’ipotesi di ricorrere a una misura così drastica. «Chiunque stia mettendo in giro questa voce deve smetterla», ha urlato (ovvero ha scritto tutto maiuscolo). «I newyorkesi possono continuare a fare la loro vita», aveva detto in televisione il giorno prima. Not really, verrebbe da dire. Si può negare finché si vuole, ma considerato che la vita dei newyorkesi è fatta per il 70% di ristoranti, cinema, teatri, spettacoli, sport (Madison Square Garden e Barclays Center sono chiusi) quella di adesso non è certo una vita normale. Fino a oggi la cosa che più di tutte mi ha risparmiato il panico e la corsa all’ammasso di scatolette, è la certezza che parti di questa città non chiuderanno mai. Se venerdì scorso da Trader’s Joe la carta igienica era finita, bastava andare dalla botega del pakistano all’angolo per trovare tutto. A prezzi più cari, certo, come fanno d’altronde tutto l’anno, ma c’era tutto. Non solo, comprare da lui invece che da una grande catena, dà l’idea che si sta facendo qualcosa di buono e utile: per sostenere i piccoli commercianti c’è addirittura un giorno apposta. Si chiama Small Business Saturday ed è generalmente l’ultimo sabato di novembre. Vorrà dire che per il 2020 si avranno più sabati per la spesa nei piccoli negozi, invece che solo uno. Il pakistano all’angolo che oggi mi salva dalla penuria di carta igienica, avrà per sempre la mia gratitudine.

Insomma, ci si adatta. Lo fanno tutti, in tutto al mondo. Lo fanno perfino gli spacciatori. Da un po’ di giorni i ragazzi che consegnano a domicilio marijuana ai newyorkesi stanno mandando in giro messaggi di questo genere: non più pagamento in contanti, ma solo tramite Venmo per evitare mani che si toccano. E un luogo al sicuro dove poter lasciare la merce. Safety first, anche in questi casi.