Cultura | Liste
Le cose migliori viste nel 2021
I film e le serie tv dell'anno secondo la redazione di Rivista Studio.
Dune, Succession, È stata la mano di Dio
Delle megaproduzioni che dovevano salvare i cinema dalla depressione pandemica, credo mi manchi al momento solo F9. Ho visto Tenet, al tempo, e su quel film secondo me è molto saggio non esprimersi affatto, poi, a stretto giro, Dune e l’ultimo Spiderman, su cui per affetto vorrei trovare un giudizio meno tranchant di “baracconata”. Però ecco il Dune di Villeneuve, da cui ero già pronto a farmi deludere, anche perché, nonostante la fede villeneuviana, il cui picco era stato raggiunto da quel capolavoro che è Sicario, eravamo reduci dal totale fallimento di Blade Runner 2049 e mi aspettavo un altro remake, o reboot, fatto di splendida fotografia e inconsistenza, non mi ha deluso, anzi, Dune è il film del 2021, un film in cui tutto funziona – la scrittura, l’immagine, gli attori – e che agisce come un profumo persistente che non vuoi dimenticare, per quanto un pezzo del merito sia sicuramente dell’ammaliante immaginario prodotto da Frank Herbert, ma che per l’appunto (Lynch docet) non era per niente scontato rappresentare. Resistendo alla tentazione un po’ provocatoria di inserire Pig, il film in cui un Nicolas Cage ridotto male interpreta un ex cuoco cacciatore di tartufi e da cui non mi aspettavo niente e che invece ho trovato forte, per quanto imperfetto, con sbavature e cazzate qua e là, però alla fine bello, delle restanti due scelte, una la darei alla terza stagione di Succession, che Squid Game permettendo, è la serie meglio scritta, recitata, etc. degli ultimi anni, credo non solo secondo me; non che negli ultimi anni ci siano state chissà quali grandi perle, però ecco Jesse Armstrong è ritornato intelligentemente alle origini della serialità, puntando tutto, più che sulla trama strana, molto in voga in un certo momento di decadenza dell’impero seriale, sul vecchio binomio Scrittura & Attori (e grande sigla).
La terza scelta va con convinzione al Sorrentino netflixiano di È stata la mano di Dio. Sono sicuro che dentro ci sia una componente personale, la Napoli degli anni ’80 e ’90 che ho vissuto anche io, il condominio vomerese, le vacanze in Costiera, i mondiali visti fuori al balcone, tappe suppergiù corrispondenti al mio coming of age di medio-borghese napoletano, ma sono altrettanto sicuro che quella del regista della Grande Bellezza sia stata anche un’inversione di rotta interessantissima: un po’ affogato dal suo stesso amore per le immagini, sembra essersi reso conto di dover vincere il suo freno nel “dire qualcosa” che non fosse soltanto una frase a effetto di Jep Gambardella, e per dire quel qualcosa sia dovuto tornare a Napoli, come il dialogo finale del film con il mentore Antonio Capuano fa capire bene. (Cristiano de Majo)
Succession, Squid Game, Hellbound
Dovendo scegliere tre cose, tra le tantissime che ho visto, che quest’anno mi sono piaciute di più, mi sono resa conto di non ricordare nessun film che mi abbia particolarmente coinvolto. Forse perché, in maniera un po’ romantica, associo ancora il cinema alla sala, e in sala nel 2021 ci sono andata, ahimè, solo una volta, per vedere Old di M. Night Shyamalan. Un film che mi ha molto divertito e che ho visto con piacere, ma che non metterei di certo nella lista dei miei preferiti. Non ho ancora visto né Dune né È stata la mano di Dio, perché in entrambi i casi non sono riuscita ad andare a vederli al cinema, rammaricandomene molto. Perché certi film non possono essere visti sul piccolo schermo, ma anche perché per chi come me ama la serialità – guardo più serie contemporaneamente, spesso dividendole a seconda del livello di attenzione che richiedono (c’è quella perfetta per la pausa pranzo, quella “comfort” per quando si è stanchi, quella per cui ci si deve concentrare) – il film in sala rimane un momento speciale, un qualcosa che non si può fare mentre si guarda il telefono o si cucina. Ma il fatto è che le cose che più ho amato quest’anno alla fine sono state tre serie tv. Una è Succession, ovviamente, che mi ha regalato screenshot da qui alla prossima stagione con la sua cinematografia perfetta e con le battute di Roman; quindi Squid Game, perché mi ha messo molta ansia e mi ha commosso allo stesso tempo, e infine Hellbound, che parla di sette religiose ma che in realtà scava nel nostro bisogno di conferme e nella nostra ossessione di fare gruppo, possibilmente contro qualcun altro. Nel 2022 andrò più spesso al cinema, ne ho bisogno. (Silvia Schirinzi)
First Cow, La persona peggiore del mondo, Shiva Baby
Cosa voglio oggi da un film? È una domanda che mi sono posto molte volte negli ultimi due anni, gli anni in cui la componente domestica della mia vita è stata la maggiore di sempre per cause che difficilmente dimenticheremo mai, e in cui “guardare qualcosa” a casa è diventato non più l’atto di qualcosa di speciale ma un’abitudine per non pensare a qualcosa oppure non pensare del tutto. È una domanda che è nata negli ultimi due anni perché sono anche gli anni che, paradossalmente, mi hanno più allontanato dallo schermo. Ho sviluppato una specie di allergia per le serie e i film da guardare “tanto per guardarli”, e ho faticato molto a trovare qualcosa che davvero mi catturasse. La risposta che mi sono dato nel 2021 è: qualcosa di molto intimo. Penso sia una risposta con echi evidenti in tre cose che mi sono piaciute estremamente. La prima è First Cow, che sarebbe del 2020 ma è stato distribuito in Italia, su Mubi, soltanto nel 2021. È un western dolcissimo, la storia di un’amicizia tra due outsider senza grandi colpi di scena, senza passioni lancinanti, ma semplicemente affettuosa, calda, confortevole. Se solo quella parola danese – hygge – fosse diventata di moda due anni dopo anziché nel 2016, sarebbe un buon modo per descrivere una certa atmosfera che regna in questo strano film della frontiera però molto tenero. Il secondo titolo che scelgo è La persona peggiore del mondo, una storia d’amore e di formazione sulla mia velleitarissima generazione che mi sembra un esempio più unico che raro di racconto appunto generazionale (proprio di noi trenta-quarantenni che vorremmo essere un sacco di cose confuse e non sappiamo fare bene niente) senza cliché né paternalismi. La persona peggiore del mondo del titolo sarebbe la splendida e talentuosa Renate Reinsve, trentaquattrenne disoccupata poi fotografa poi libraia poi non lo sa nemmeno lei che tenta di rimanere in equilibrio tra fallimenti amorosi e velleità, appunto, senza davvero riuscirci. E fa tenerezza, e paura, e mi ha fatto dire: meno male che non sono così. E poi mi ha fatto domandare: ma è vero? Infine, un’altra generazione, quella Z questa volta, è al centro di Shiva Baby. Un’incasinata novella di formazione, anzi, una “commedia cringe” di postadolescenti inadeguati, sesso, famiglie distrutte, ansia e disagio. La storia di fondo sarebbe quella piuttosto classica della famiglia disfunzionale che esplode a un funerale (ebraico: uno shiva) ma l’incomunicabilità intergenerazionale (Boomer vs Millennial/Zoomer, ovvero genitori vs figli) e il senso di inadeguatezza sono vividi come se li stessimo vivendo noi. Un’altra attrice straordinaria, che mi ha ricordato la protagonista di Il mio anno di riposo e oblio: la diva (anche di Instagram) Rachel Sennott. (Davide Coppo)
Succession, Squid Game, Framing Britney Spears
Ho avuto la fortuna di non aver mai guardato una puntata di Succession prima di un paio di mesi fa. E così, grazie alla mia pigrizia, mi ritrovo a far parte di quei pochi eletti che non hanno dovuto subire gli effetti della lunga pausa causata dalla pandemia, dimenticando scene cruciali delle prime due stagioni o assistendo all’inevitabile indebolimento del legame con i personaggi, e hanno invece potuto procedere fluidi di puntata in puntata, nottata dopo nottata, seguendo lo sviluppo di questo capolavoro come se fosse un unico prodigioso lunghissimo film. Il mio amore per Kendall non mi impedisce di essere follemente innamorata anche di Roman: spero che la quarta stagione mi aiuti a scegliere quale dei due amare di più. All’altra serie che ho divorato (quest’anno è stato così: o binge watching o niente) devo il merito di avermi fatto provare una sensazione che raramente nella vita ho avuto l’onore di assaporare: sentirmi normale. Come il resto della popolazione mondiale, ho adorato Squid Game, una favola perfetta, da qualsiasi lato la si guardi. Ora che ci penso, mi rendo conto che gli ingredienti che accomunano le cose che ho amato quest’anno sono gli stessi: giochi di potere, soldi, tradimenti, sfide. Di questo parla anche Framing Britney Spears, il bellissimo documentario del New York Times dedicato alla vita della popstar e all’interminabile questione della conservatorship, che però funziona molto meglio nei punti in cui analizza la violenza con cui i media hanno influito sulla vita della giovane Britney (è impressionante pensare che così come l’hanno distrutta prima, l’hanno salvata oggi: l’esito positivo del processo è anche merito dei documentari – ce n’è un altro, su Netflix, bruttissimo – e dell’attenzione mediatica ricevuta dal movimento #freebritney). Da riguardare con più serenità durante le vacanze di Natale, ora che sappiamo che la storia di Britney Spears è una storia a lieto fine. (Clara Mazzoleni)
Il potere del cane, Pig, Midnight Mass
Ci sono due film usciti quest’anno che mi sono piaciuti moltissimo per la stessa ragione: stando alle premesse non avrebbero né dovuto né potuto funzionare e, invece, alla fine tutto si tiene in un equilibrio così precario e perfetto che nella mente di chi guarda si forma immediatamente la convinzione che quel particolare film poteva essere realizzato solo in quel modo. Il primo di questi due film è Il potere del cane di Jane Campion, opera spericolata in ogni sua parte, a cominciare dalla scelta di Benedict Cumberbatch per il ruolo del cowboy-maschio alfa-omosessuale represso, una parte in cui nessuno riusciva a immaginarselo (tranne Campion, che ha insistito per avere proprio lui, solo lui). Opera spericolata perché adatta allo stesso tempo fedelmente e liberamente il romanzo omonimo di Thomas Savage, tenendo intatto tutto quello che rende “difficile” un film in questo momento storico: il silenzio come luogo dell’ansia, dell’introspezione, dell’intesa profonda con il prossimo. L’altro film è Pig, che all’inizio era stato raccontato come una specie di scopiazzatura di John Wick: al protagonista rubano il maiale da tartufo invece che ammazzargli il cane ma per il resto siamo lì, il resto è la storia di lui che esige vendetta, questo si pensava a guardare trailer e poster promozionale. In realtà, no: Pig è un film sull’autenticità artistica e su ciò che rende sopportabili le infinite finzioni spacciate per raffinate verità del mondo in cui viviamo. Soprattutto, Pig è un film che ci ricorda perché Nicolas Cage non è “solo” un attore ma un vero e proprio «old troubadour», come lo ha definito il suo super-fan Ethan Hawke: non ha regole e non segue un metodo, Cage, e quindi solo lui può passare da interpretare un ex-chef inselvatichito e rancoroso ad accettare la parte di Dracula nel prossimo film di mostri della Universal. Per quanto riguarda le serie tv, dico Midnight Mass perché mi ha confermato una cosa che avevo pensato guardando The Haunting of Hill House e ripensato seguendo The Haunting of Bly Manor: Mike Flanagan appartiene a una generazione di talenti (assieme a Robert Eggers, Ari Aster, David Robert Mitchell e Jordan Peele) che sta cercando di riportare l’horror d’autore nel mainstream cinematografico e televisivo, dopo anni e anni di torture porn à la Saw, di remake, prequel e reboot senza senso. (Francesco Gerardi)