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Paura e delirio a Seul

Hellbound, il nuovo successo di Netflix, è un'altra opera costruita attorno a un delicatissimo equilibrio tra temi universali e critica della società sudcoreana.

di Francesco Gerardi

Hellbound tende la stessa trappola che tendeva Squid Game: di primo acchito sembra derivativo, impacchettato con i nastri e fiocchi adatti a far pensare al pubblico occidentale di avere davanti proprio il regalo che sperava di ricevere. Narrativamente, Squid Game stava tutto in quella scena in cui Gi-hun fa il regalo di compleanno alla figlia: la bambina scarta il pacco aspettandosi di trovarci dentro chissà che desiderio realizzato, e poi si ritrova tra le mani una pistola giocattolo che non è nemmeno una pistola giocattolo ma un accendino. Squid Game sembrava The Hunger Games, poi faceva pensare a Battle Royale (romanzo, manga, film live action) e alla fine era tutta un’altra cosa. Con Hellbound la conoscenza prosegue alla stessa maniera, e forse due indizi bastano già a fare una prova e a rivedere la nostra convinzione (nostra cioè di noi, il pubblico occidentale) che i sudcoreani si stiano mettendo d’impegno per raccontare storie che ci piacciono di sicuro o che conosciamo di già. I sudcoreani parlano con noi ma parlano di loro, e forse il successo dei loro film – Parasite è il titolo ovvio che viene in mente perché fresco nella memoria, ma la Trilogia della Vendetta di Park Chan-wook faceva capire già vent’anni fa molto di quello che stiamo vivendo adesso – è dovuto più che altro a una globalizzazione in fase ormai così avanzata che un sudcoreano che parla di sé parla anche per un italiano, per un americano, per un qualsiasi cittadino di quello che un tempo si chiamava Primo Mondo. È la “teoria della diga”, come la chiama Yeon Sang-ho, il regista della serie: negli ultimi dieci anni l’industria dell’intrattenimento sudcoreana ha lasciato tantissime ammaccature nella diga che la separava dal mercato e dal pubblico occidentale, ora quella diga è finalmente crollata e «stiamo inondando il mondo con i nostri prodotti».

Hellbound sembra derivativo ma, come Squid Game, non lo è perché troppo concentrato sull’attualità per poter costruire il suo discorso sulla citazione di precedenti. Non che manchino, le citazioni, ma sono apparenza negli occhi di chi guarda più che sostanza nelle intenzioni di chi racconta. Curiosamente, l’unica influenza che Yeon Sang-ho, il regista della serie, ha apertamente riconosciuto è una praticamente impossibile da cogliere guardando Hellbound: il manga 20th Century Boys di Naoki Urasawa, che il regista ha detto di aver letto negli anni dell’università e che ha definito «il principio di Hellbound». Non ci avrei mai pensato se non me lo avesse detto lui, ma ora che me lo ha detto non riesco a non pensare quanto sia ovvio. E tutti gli sforzi che avevo fatto per tracciare la mappa delle influenze, dei rimandi e delle citazioni ora mi sembrano inutili: il titolo Hellbound che fa pensare a Drag me to hell di Sam Raimi; la sinossi che sembra Death Note di Tusugumi Ōba e Takeshi Obata, la stessa storia raccontata però dal punto di vista del Culto di Kira invece che da quello di Light Yagami; tutto un elenco di minuzie e inezie che adesso sembrano, appunto, minuzie e inezie. Il regista della serie, come detto, è Yeon Sang-ho, quello di Train to Busan, un film che in questa metà del mondo ci è piaciuto talmente tanto che abbiamo sentito il dovere di farne un remake (Last train to New York è il titolo per ora confermato). A studiare i “demoni” di Hellbound, il trio di mostri inviati da non si sa chi, non si sa perché e non si sa come a eseguire le condanne degli “angeli”, si scoprono rimandi al golem dell’ebraismo, a Hulk della Marvel, a Swamp Thing della DC, a Nemesis della saga di Resident Evil, allo shinigami del folklore giapponese. Yeon ha detto che i mostri sono (ovviamente) allegorie: dell’inferno e del linciaggio, quest’ultima una parola per lui inevitabilmente orrorifica (ed è proprio per assumere questo significato che i mostri sono sempre e soltanto tre, perché il regista ha deciso che quello è il numero minimo di partecipanti richiesto per passare da pestaggio a linciaggio). I fan della serie – che sono già moltissimi in tantissimi Paesi, a giudicare da quel che dicono le classifiche Netflix – stanno già aggiungendo altri strati di significato alle misteriose creature: vivendo i tempi che stiamo vivendo, la teoria che va per la maggiore non poteva che essere quella che li vuole come una manifestazione dell’illogicità e crudeltà della malattia. Un’interpretazione che a Yeon pare star bene: ha già detto che non ha nessun interesse a raccontare l’origine dei demoni e degli angeli, perché quello che conta è «capire come le persone provano a razionalizzare l’inspiegabile, il sovrannaturale». Come con le malattie, d’altronde: possiamo capire come curarle e sapere come le affronteremo, ma la ragione per la quale la malattia esiste, probabilmente, resterà sempre nascosta nel nero dell’«orrore cosmico» che Yeon ha voluto raccontare in Hellbound.

«Capire come le persone provano a razionalizzare l’inspiegabile, il sovrannaturale». La risposta che Yeon dà in Hellbound è allo stesso tempo universale e quintessenzialmente sudcoreana: con il fanatismo cinico, crudele e interessato di una setta religiosa. Nella serie si chiama La Nuova Verità, un calco di quelle sette che compensano la scarsa capacità di penetrazione nella società sudcoreana (buddisti e atei restano l’amplissima maggioranza) con una tendenza al baccano che le fa sembrare più di una rumorosissima minoranza, attraente soprattutto per le élite. Che Yeon voglia in realtà parlare di questo – «in Hellbound ho messo quel che penso della società coreana», ha detto in un’intervista su Korea Herald – lo si capisce dalla quantità e qualità dei dettagli che impiega per raccontare questa setta, La Nuova Verità: il Giovanni Battista che ne è il fondatore (interpretato dal favoloso Yoo Ah-in, che a quanto pare faceva sul serio quando ha dichiarato di voler diventare quel tipo di attore «capace di interpretare qualsiasi personaggio»), il buffone in completo elegante e occhialoni scuri che ne diventa il presidente, le camicie gialle e le giacche a vento turchesi dei “diaconi” che ne compongono la nomenclatura, la violenza teppistica della sua emanazione armata, la Punta di Freccia. Che la Nuova Verità, una setta, sia la vera protagonista di una serie che nutre per sé altre ambizioni – «trattare questioni universali come vita e morte, delitti e pene, l’umanità», ha detto Yeon – conferma ancora una volta la tendenza dell’intrattenimento sudcoreano a essere attuale, cioè d’attualità, anche quando vorrebbe essere altro. Forse anche in questo sta la ragione, o una delle ragioni, del successo che il K-drama in senso lato sta ottenendo in questi anni: in un’epoca ossessionata dalla nostalgia e dall’omaggio-citazione-easter egg, tutto ciò che viene dalla Corea del Sud sembra parlare di quel che succede adesso (non è un caso che in Hellbound come in Squid Game ci siano dei vip mascherati disposti a pagare per assistere dalla prima fila al massacro dei poveracci).

Adesso (ma non da adesso) in Corea del Sud hanno un enorme problema con le sette religiose. Sono talmente tante che non si sa esattamente nemmeno quante siano, tant’è che spesso, per dare una dimensione al problema, si cita un pezzo di The Koreans: who they are, what they want, where their futures lies: in questo libro il giornalista del Korea Times Michael Breen racconta che negli anni Sessanta un prete scovò più di 70 coreani convinti di essere il Messia ritornato. Ognuno di loro aveva con sé dei seguaci e stava costruendo una dottrina incredibilmente “coreacentrica”: il coreano è la lingua del Nuovo Vangelo, i coreani sono il nuovo popolo eletto, la Corea è il luogo in cui Dio costruirà il suo regno, tutti questi messia e profeti condividevano questa traccia nazionalista le cui origini stavano probabilmente nel momento della conversione e radicalizzazione (momento che nella maggior parte dei casi era arrivato durante l’occupazione giapponese, durante la Guerra di Corea o sotto la dittatura militare). E che male fanno, si dirà. Senza addentrarci nelle raffinatezze della filosofia morale, stiamo all’agile definizione di “male” che si può ricavare dal codice penale: in Corea del Sud si è parlato di sette religiose quando si è parlato di battelli che affondavano lasciando in mare più di trecento cadaveri (“Il naufragio del Sewol“), di suicidi di massa, di lavaggio del cervello, di coercizione, di frode, di stupro, di reati contro la persona, il patrimonio, la morale, la società, le istituzioni. La Shincheonji Chiesa di Gesù fu il primo focolaio di Covid-19 in Corea del Sud. La seconda ondata sudcoreana cominciò con i 700 positivi tracciati dentro la Chiesa di Sarang Jeil. Di mercoledì scorso è la notizia che un nuovo, grosso focolaio si sarebbe scoperto tra gli appartenenti alla minuscola comunità di Cheonan: 427 abitanti, 241 positivi al Covid, tutti appartenenti a una setta (talmente piccola che non è nemmeno registrata come tale) il cui leader afferma di poter guarire gli infermi con l’imposizione delle mani sugli occhi.

Si capisce perché Hellbound affidi l’ultima linea di dialogo a un tassista appena comparso e mai più ripreso, insignito di onore e onere del commento sulla società sudcoreana: «Non so molto di Dio e nemmeno mi interessa. Ma una cosa la so bene, e cioè che questo mondo appartiene a noi. Spetta a noi risolvere i nostri problemi». Può sembrare un (semplice, banale) elogio dell’ateismo, ma in realtà il tassista riassume in pochissime parole l’orrore sottile che è il vero messaggio di questa serie: Dio esiste e vede il mondo come lo vediamo noi nella sigla di Hellbound (creata da Yeon perché Netflix ha l’abitudine di far decidere ai registi che sigla vogliono, mentre in Corea del Sud di solito il lavoro viene affidato a un’azienda esterna alla produzione), come un movimento di camera mortifero su degli ammassi di materia organica che sono gli esseri umani. Dio esiste ed è il nostro problema da risolvere, una visione disperante del divino che da un certo punto di vista ricorda quella di Mike Flanagan in Midnight Mass. «Anche se le nostre vite di tutti i giorni possono essere emozionanti e appassionanti, Dio potrebbe essere indifferente. Per far passare questa idea, mi sono inventato quella visione fluoroscopica dei corpi umani unita a quell’anonimo movimento di camera, ho pensato fosse appropriato. Sono contento che gli spettatori l’abbiano trovato intrigante», ha detto Yeon.