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Il potere del cane è la distruzione di un mito americano

Il nuovo film di Jane Campion, adattamento di un romanzo del 1967 di Thomas Savage, racconta la fine dell'epopea della frontiera e smonta la figura mitica del cowboy.

di Francesco Gerardi

Tutti i film possono essere ridotti a una scena che ne cattura il tema e il tono, l’essenza e il punto. Il potere del cane sta in Phil Burbank (Benedict Cumberbatch) che castra a mani nude un toro, una scena che dice questo ma soprattutto altro: Jane Campion ha voluto fare un film violento, senza guanti («perché non servono», dice Phil, coltello sporco di sangue tra i denti, a chi gli chiede perché non castra il bestiame usando almeno l’accortezza di proteggersi le mani), su un mito maschile americano che merita la stessa distruzione di tutti gli altri miti maschili americani: quella che avviene tramite lo smascheramento, il disvelamento. Il potere del cane sta al western come I Soprano stava al gangster movie, e Phil che dà di matto perché qualcuno ha venduto le sue pelli senza chiedergli il permesso è come Tony che scoppia a piangere perché le papere se ne sono andate dalla sua piscina senza che lui possa farci nulla.

Il potere del cane non è un western perché del Vecchio West racconta la fine, il momento in cui l’epopea della frontiera smette di essere il presente della storia americana. I cowboy che lo popolano sono nostalgici, tristi come un museo dedicato a un’epoca recente, tristi come il Grinta quando l’America dimostra di avere per il passato la gratitudine di chi chiude un vecchio pistolero dentro un circo assieme agli animali e ai pagliacci, tristi perché Campion li rende piccoli e irrilevanti con la sua predilezione per il campo lungo. Durante una cena elegante a casa Burbank, gli invitati insistono per vedere Phil con l’insistenza che si ha per i fenomeni da baraccone, lui però non si presenta perché gli è stato detto che puzza e la moglie di uno degli invitati ha il naso sensibile: alla fine è proprio lei quella che insiste più di tutti per incontrarlo. Phil e suo fratello George hanno un ranch in Montana, ma la prima volta che hanno spostato assieme la mandria era già il 1900 e il 1900 non è così lontano, non è poi tanto vecchio. George (Jesse Plemons, probabilmente l’attore più sottovalutato di Hollywood) lo ha capito, con la sua passione per la vasca da bagno e i completi in tre pezzi e le scampagnate in macchina e le cose dell’anno 1925. Quando suo fratello gli ricorda la loro prima volta alla testa della mandria, George risponde che «è passato tanto tempo». «Lo dici come se fosse troppo», ribatte Phil, che conosce e teme la differenza tra gli anni che passano e i tempi che cambiano.

Phil è un’imitazione convinta e convincente, ma pur sempre un’imitazione: le sue sigarette sono troppo dritte per essere le sigarette girate a mano da un vero cowboy; porta i chaps (il capo di abbigliamento che i mandriani portavano sopra i pantaloni per proteggere le gambe dai detriti alzati dagli zoccoli dei cavalli) con un piacere eccessivo per un uomo della frontiera; lascia che la pelle gli si unga di grasso con una meticolosità che non ha nulla a che vedere con i segni del lavoro; disegna la parola scritta con un tratto troppo elegante (ha preso una laurea in Lettere a Yale, e si vede nonostante gli sforzi) per essere lo zotico che si ascolta nella parola parlata. Il suo corpo è tempio e museo, altare e monumento: «Un uomo è fatto di pazienza e circostanze avverse», dice, mascherando la tristezza da lezione di vita. La tristezza e la vita gliele ha insegnate entrambe Bronco Henry, l’uomo che amava e che quindi può ricordare solo attraverso le maschere che la pazienza e le avversità gli concedono: quelle dell’idolo, del mentore, del salvatore. Il potere del cane è, d’altronde, l’adattamento del romanzo omonimo scritto da un uomo che passò tutta la vita tra pazienza e circostanze avverse: Thomas Savage era omosessuale, lo sapeva lui, lo sapeva sua moglie, lo sapeva sua figlia. Come Phil, anche lui aveva le sue maschere, che metteva dentro i suoi romanzi, spezzettando la sua identità in una miriade di personaggi e storie.

Jane Campion ha detto che questo film nasce da un incubo: lei, in sella a un cavallo che non conosce e che non riesce a controllare, che scende giù per una discesa ripidissima e strettissima. È un incubo ed è anche una scena del film, e a saperlo prima avrei capito subito chi era il protagonista della storia e che la storia era il trionfo suo, non la tragedia dell’altro. La mente agisce in modi misteriosi: è incredibile che un sogno del genere arrivi nella mente di una donna che tende alla nevrosi e che da quel sogno comincerà a lavorare al film più ambizioso e complesso, maschile – un fatto che a Campion pesa sempre e tanto, al punto da riequilibrare le cose spezzando il cuore al suo storico direttore della fotografia, Adam Arkapaw, escluso da questo film per far posto ad Ari Wegner – e sessuale della sua carriera. Campion ha detto più volte che girare Il potere del cane è stato (ovviamente) un incubo: pregava perché il tempo in Nuova Zelanda fosse buono e le permettesse di girare tutte le scene che aveva immaginato all’aperto, senza luci artificiali; sperava nel salto di qualità di Cumberbatch, messo in una parte che probabilmente gli varrà la nomination a “Miglior attore protagonista” ma che gli è costata tentativi su tentativi di castrazione di buoi.

L’incubo, si sa, è la paura, che porta con sé l’inevitabile monito. Campion lo ha messo nel titolo, nel potere del cane che fa «da avvertimento. Il potere del cane sta in tutti quei desideri, quelli profondi e incontrollabili, che prima o poi ci distruggono». Il verso viene dal Salmo 22, uno dei più poetici, violenti e angoscianti. Gesù soffre sulla croce e implora Dio «scampami dalla spada, dalle unghie del cane la mia vita» («deliver me from the sword, my precious life from the power of the dogs»). E ovviamente in ogni uomo che soffre per scelta c’è un che di cristologico: in Phil Burbank e pure in Thomas Savage, che di sé e di lui scriveva «aveva rifiutato il mondo prima che il mondo rifiutasse lui». E tutti quelli che a questa sofferenza sfuggono, tutti quelli che rifiutano la forgia della pazienza e delle avversità, paiono traditori come Giuda e deboli come Pietro: fratello George, che piange quando Rose (Kirsten Dunst) accetta di sposarlo perché, dice, «è così bello non essere più soli»; Rose, precipitata nell’alcolismo dalle angherie suonate al banjo di Phil (era dai tempi di un Un tranquillo weekend di paura che non vedevo una “banjo scene” angosciante come quella in cui Phil umilia Rose nell’esecuzione della “Marcia di Radeztky” di Strauss padre); Pete, interpretato da uno splendido Kodi Smit-McPhee, il figlio di Rose che all’inizio sembra soltanto un’altra vittima e che alla fine si rivelerà «il desiderio, quello profondo e incontrollabile, che prima o poi ci distrugge».

Se Phil, infatti, è il protagonista indiscusso del film – è il personaggio che Campion ha cambiato di più rispetto al romanzo, perché il messaggio doveva essere chiaro e Phil in giacca e cravatta come lo aveva immaginato Savage non avrebbe funzionato alla stessa maniera – Pete è il vincitore della sfida. Il potere del cane è, come tutti i film sul potere, un film sulla sfida: quella di strappare il potere agli altri e di conservarlo per sé. Come tutte le sfide, Il potere del cane costruisce la tensione nell’equilibrio tra le parti e nel vantaggio di un attimo che va da un protagonista all’altro: ci sono momenti in cui sembra davvero che George o Rose possano battere Phil al suo gioco («è solo un uomo, soltanto un altro uomo», dice un’esausta e incredula Rose a un certo punto) ma alla fine perdono perché il gioco è vecchio e Phil lo ha giocato più di tutti: «un uomo è fatto di pazienza e circostanze avverse». E anche in questo stanno l’essenza e il punto del film: persino i tiranni hanno soltanto il loro tempo e nient’altro, anche la vita dei torturatori finisce dilaniata dall’unghia del cane. Phil finisce quando comincia una generazione che fa fiori con la carta e studia medicina, senza capire che il bisturi e il coltello sono la stessa cosa. «Mio padre li chiamava “ostacoli” e diceva che vanno rimossi», gli confessa Pete durante uno degli snodi emotivi del film. «Un altro modo di dirlo», risponde Phil, che è troppo solo e da troppo tempo («quei desideri, quelli profondi e incontrollabili, che prima o poi ci distruggono») per riconoscere il pericolo di un altro come lui.

Il potere del cane è un film violento, come si è detto. Non brutale ma repentino, violento come le cose che succedono dopo anni in cui non è successo nulla: violento come George che si sposa e lascia Phil (ancora più) da solo, violento come Pete a cui basta una carezza per cancellare anni di «pazienza e circostanze avverse». Violento come le epoche che si chiudono tutte, sempre lentamente pur lasciando in tutti, sempre, l’idea della rivoluzione. Jane Campion, come suo solito, ha dato del film la descrizione più strana e allo stesso tempo più precisa: «Ad alcune persone piacciono le cose che succedono in fretta. Può essere difficile, per queste persone, accettare le scelte che ho fatto in questo film. Ma credo fossero necessarie per raccontare il vero impatto dei cambiamenti, e la maniera in cui si muove lo spazio attorno a noi».