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Quanto è grave innamorarsi di Kendall Roy?

Il discusso ritratto del New Yorker è perfettamente in linea col personaggio di Succession interpretato da Jeremy Strong e contribuisce a renderlo ancora più irresistibile.

di Clara Mazzoleni

Mi sentivo strana e incompresa, finché su TikTok ho visto il video di una ragazza che reagiva alle apparizioni di Kendall Roy sullo schermo chiedendosi se fosse normale trovarlo «estremamente hot», scatenando una miriade di commenti del tipo «oddio finalmente qualcuno mi capisce, pensavo di essere pazza». A quanto pare la pazzia dilaga. Nonostante sia ricchissimo (unica caratteristica a suo favore), Kendall Roy non corrisponde esattamente all’incarnazione dell’uomo ideale: è un tossicodipendente inaffidabile, bugiardo, vendicativo, involontariamente omicida, con chiare aspirazioni suicidiarie (che il padre cerca di arginare in una delle scene più belle di tutta la serie). Non ha neanche quell’aria da bello e dannato che ci si potrebbe aspettare da un tipo del genere: non solo non è affatto bello, ma anche quando vorrebbe o dovrebbe essere cattivo, sai che in un modo o nell’altro finirà per fare la figura del tonto.

Tutto di lui trasmette imbranataggine: si prende troppo sul serio, parla come se l’avessero lobotomizzato, è goffo, tentennante, ancora più cringe quando cerca di mostrarsi sicuro e sfrontato, come quando si esibisce nel pezzo rap dedicato a suo padre per celebrare il cinquantesimo anniversario della Waystar Royco. È anche il protagonista di una delle scene più umilianti dell’intera serie: quando, dopo una notte di coca e alcol con Naomi, si risveglia nudo in un lettone immacolato e scopre di essersi cagato addosso. Dio santo, amiche di TikTok, com’è possibile che ci siamo innamorate di un individuo del genere? A quanto pare non siamo le uniche: Kendall Roy è un personaggio dostoevskiano, tanto disperato quanto magnetico. Il pubblico si divide tra chi si immedesima in lui e chi lo trova sexy nonostante tutto, e in alcuni casi (di grave narcisismo) le due cose coincidono. Il merito non è soltanto di quanto sia splendidamente scritta Succession e di quanto sia magnificamente scritto il suo personaggio, ma della straordinaria interpretazione di Jeremy Strong, a cui Michael Schulman ha dedicato un articolo del New Yorker che ha fatto discutere.

Secondo quanto traspare dal ritratto, pare che Strong sia più simile a Kendall di quanto potessimo immaginare, soprattutto per quanto riguarda il prendersi sul serio. Quando Schulman chiede all’attore della famosa scena rap, lui cita senza alcuna ironia Raskolnikov, riferendosi al «dolore mostruoso» di Kendall. Fin dalle prime righe, anzi fin dal titolo – “On Succession, Jeremy Strong Doesn’t Get the Joke” – è evidente che il giornalista osserva la solennità e la serietà con cui Strong tratta il suo personaggio con un sorrisetto beffardo, utilizzando le testimonianze di vari registi e produttori per confermare il suo punto di vista. È un po’ lo stesso atteggiamento tra il compassionevole, il derisorio e l’infastidito con cui i componenti della famiglia trattano Kendall, dimenticando sempre di trovarsi davanti a un malato mentale, che solo per questo meriterebbe un po’ più di rispetto («Non provo niente: si chiama disturbo borderline di personalità», dice Roman al matrimonio di Shiv facendo il buffone, il bello è che tra loro c’è davvero un manuale vivente del disturbo borderline di personalità, ed è Kendall). Proprio come farebbe Rom in una riunione di famiglia, Kieran Culkin partecipa alla presa per il culo collettiva: «Dopo la prima stagione, mi ha detto qualcosa tipo, “Sono preoccupato che la gente possa pensare che lo show sia una commedia”. Io gli ho risposto, “Penso che lo show sia una commedia”. Lui pensava stessi scherzando». Schulman rincara la dose: «Quando ho detto a Strong che anch’io pensavo allo spettacolo come a una dark comedy, mi ha guardato con incomprensione e ha chiesto: “Nel senso che, tipo, Cechov è una commedia?”. No, ho detto, nel senso che è divertente». Poi passa la palla ad Adam McKay (produttore di Succession): «Questo è esattamente il motivo per cui abbiamo scelto Jeremy per quel ruolo. Perché non lo sta interpretando come una commedia. Lo sta facendo come se fosse Amleto». Ma all’inizio dell’articolo, in una delle parti più belle (quella che racconta la carriera mezzo fallimentare di Strong, emerso dalla nebbia soltanto dopo i 40 anni, e il momento in cui si vide rifiutare la parte che avrebbe desiderato, ovvero quella di Roman – ve lo immaginate?! – e altre sfighe che dimostrano come l’attore sia molto a suo agio coi concetti di fallimento, sconfitta, delusione), si legge che è lo stesso McKay a paragonare Succession a un’opera di Shakespeare, Re Lear ovviamente, quando ne parla la prima volta con Strong.

Per continuare a bullizzare la sua vittima, il giornalista si serve di alcuni aneddoti riportati da una conversazione con Aaron Sorkin, che però non si presta al giochetto, dimostrando così di essere anche lui uno che proprio non sa farsi due risate. Dopo aver letto il New Yorker, Sorkin chiede a Jessica Chastain di prestagli il suo Twitter (lui non ha i social) per pubblicare una lettera in cui prende le distanze dal profilo a cui ha contribuito, che secondo lui restituisce un’immagine distorta dell’attore, che invita il lettore a «roteare gli occhi di fronte ai suoi sforzi». Sorkin riporta pari pari le sue risposte alle domande del giornalista, per concludere sottolineando che lui ne ha usata soltanto “una e mezza” e assicurando che Frank Ligella (il giudice di The Trial of the Chicago 7), che nell’articolo sembra una vittima importunata dall’eccentrico Strong, era stato il primo a invitare gli attori che interpretavano gli imputati a infastidirlo per rendere tutto più realistico. C’è anche la scena in cui Strong prega di essere spruzzato con del vero gas lacrimogeno, ma gli devono dire di no perché non è mica l’unico sul set.

È vero che Strong ne esce come un infervorato un po’ scemo (di nuovo: Kendall!), ma come sottolinea lo stesso autore dell’articolo non è mica l’unico a crederci così tanto: la storia del cinema è piena di attori che mangiano veramente uno scarafaggio (Nicholas Cage) o compiono altre schifezze o sacrifici per entrare nella parte, che si tratti di perdere o prendere tantissimi chili (troppi esempi per elencarli) o come nel caso recente di Lady Gaga, parlare con un accento italiano per mesi (sforzo inutile visto che sembra russa). Adam McKay si è affrettato a commentare il tweet esprimendo il suo rispetto per l’attore, tanto che il New Yorker si è sentito costretto a rifilare uno spiegone a Deadline: «Questo è un ritratto sfumato e multiforme di un attore estremamente appassionato. Ha ispirato una serie di reazioni da parte delle persone, tra cui molte che affermano di essere ancora più impressionate dall’abilità artistica di Jeremy Strong dopo aver letto l’articolo».

Fa ridere immaginare Strong che cita Raskolnikov tutto serio, ma il motivo per cui ci innamoriamo di Kendall Roy non è forse lo stesso per cui in prima liceo ci innamorammo del protagonista di Delitto e Castigo? Lo stesso mix tra immedesimazione e disgusto, la gratitudine che si prova quando l’arte permette di intravedere cosa succederebbe se oltrepassassimo un certo limite. Nella sua ingenuità, nella potenza cieca della sua vocazione e nella disperazione, Strong/Kendall (non riesco più a dividerli) è l’antieroe che ci ha fatto perdere la testa per la letteratura russa in un’era così lontana e pura della nostra vita. Quello che è successo con il ritratto del New Yorker sembra fatto apposta per generare ulteriori riflessioni sulla profondità del suo personaggio. In più invita a porsi altre interessanti questioni: qual è il confine tra la derisione affettuosa e il bullismo? Fino a quando si può ridere di una persona e quando invece bisogna cominciare a preoccuparsi o a prenderla sul serio? Se mi sono innamorata di Kendall Roy, significa che mi sono innamorata anche di Jeremy Strong?