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In Cina Wong Kar-wai è al centro di uno scandalo perché il suo assistente personale lo ha accusato di trattarlo male Gu Er (pseudonimo di Cheng Junnian) ha detto che Kar-wai lo pagava poco, lo faceva lavorare tantissimo e lo insultava anche, in maniera del tutto gratuita.
In Giappone un’azienda si è inventata i macho caregiver, dei culturisti che fanno da badanti agli anziani Un'iniziativa che dovrebbe attrarre giovani lavoratori verso una professione in forte crisi: in Giappone ci sono infatti troppi anziani e troppi pochi caregiver.
Rosalía ha condiviso su Instagram un meme buongiornissimo in cui ci sono lei e Valeria Marini  Cielo azzurro, nuvole, candele, tazza di caffè, Rosalia suora e Valeria Marini estasiata: «Non sono una santa, però sono blessed», si legge nel meme.
Hideo Kojima si è “giustificato” per la sua foto al Lucca Comics con Zerocalcare dicendo che l’ha fatta senza sapere chi fosse Zerocalcare Non c’era alcuna «intenzione di esprimere sostegno a nessuna opinione o posizione» da parte di Kojima, si legge nel comunicato stampa della Kojima Productions.
Anche Charli XCX si è messa a scrivere su Substack Il suo primo post si intitola "Running on the spot of a dream" e parla di blocco della scrittrice/musicista/artista.
A poche ore dalla vittoria al Booker Prize è stato annunciato che Nella carne di David Szalay diventerà un film Ad acquisire i diritti di trasposizione del romanzo sono stati i produttori di Conclave, noti per il loro fiuto in fatto di adattamenti letterari.
Il nuovo film di Tom Ford è già uno dei più attesi del 2026, per tantissime e buonissime ragioni Un progetto che sembra quasi troppo bello per essere vero: l'adattamento di uno dei più amati romanzi di Ann Rice, un cast incredibile, Adele che fa l'esordio da attrice.
Nel primo teaser del Diavolo veste Prada 2 si vede già la reunion di Miranda e Andy Le protagoniste salgono insieme sull’ascensore che porta alla redazione di Runway, riprendendo una scena cult del film originale.

Dune, il film impossibile

La complicata storia degli adattamenti della saga, dal pasticcio di Lynch al delirio di Jodorowsky, nell'attesa di poter giudicare il tentativo di Villeneuve.

14 Settembre 2021

In un pezzo sul New Yorker del 2013 intitolato Dune Endures, Jon Michaud (riprendendo Dave Itzkoff e il suo mirabile Dune Babies pubblicato sul New York Times sette anni prima) si chiedeva come mai il romanzo di Frank Herbert non fosse diventato il sole al centro di un universo multimediale, di un franchise. «Non è entrato nella cultura popolare come Il Signore degli Anelli o Guerre Stellari. Non ci sono convention di Dune. Frasi celebri del libro non sono diventate parte della lingua». Non che gli eredi di Herbert non ci abbiano lavorato, al franchise: dei ventisei libri che compongono la saga di Dune, venti sono stati scritto dal figlio Brian dopo la morte di papà Frank. E ci sono stati anche racconti brevi, fumetti, giochi di ruolo e videogiochi (tra questi ultimi c’è il bellissimo Dune II). E c’è stato anche un film, ovviamente: quello del 1984 diretto da David Lynch. Nella sua panoramica su tutto ciò che attorno a Dune si è cercato di costruire, Michaud scrive che «La trasformazione in franchise […] ha dato un grande contribuito alla diminuzione della potenza del romanzo originale».

Adattare Dune in qualcosa di diverso da un romanzo di 600 e rotte pagine, per un pubblico diverso da quello che legge romanzi di 600 e rotte pagine, fin qui è stata un’impresa impossibile. Tranne per chi ci è già riuscito senza che nessuno se ne accorgesse, cioè George Lucas (e chi altro poteva essere): quando uscì Guerre Stellari, il commento di Herbert fu «Proverò con tutte le mie forze a non fare causa». Tatooine è Arrakis, Luke è Paul, la principessa Leia è la principessa Alia, i Jedi sono le Bene Jesserit, la Forza mette assieme la Voce, il Truthsay, il Simulflow e il prana-bindu. Ma con l’intuito commerciale che possiede solo lui, Lucas capì anche ciò che andava tagliato: meno filosofia zen, meno politica machiavellica, meno crisi climatica, meno riferimenti alla jihad, più spade e pistole e robot e astronavi.

Herbert aveva preso Lawrence d’Arabia e Gesù Cristo, la società feudale e il mito messianico, li aveva fusi in un uno e aveva nutrito il prodotto di quella fusione con i funghetti allucinogeni che si divertiva a coltivare. Ovviamente, quando si cominciò a discutere di un adattamento cinematografico di Dune, la prima scelta dello scrittore fu David Lean, regista di Lawrence d’Arabia, che però rifiutò nonostante l’insistenza di Arthur P. Jacobs, l’uomo del Pianeta delle scimmie che nel ‘71 si prese l’onere e l’onore di produrre la versione cinematografica del romanzo di Herbert. Jacobs morì improvvisamente nel ‘73, e nel ‘74 il progetto Dune passò un gruppo di cinematografari francesi capeggiati Jean-Paul Gibon. E qui si arriva ai funghetti allucinogeni, cioè ad Alejandro Jodorowsky.

La storia del Dune di Jodorowsky è una storia a sé. Tant’è che nel 2014 ci hanno dedicato un documentario intero (Jodorowsky’s Dune, diretto da Frank Pavich, tornato in questi giorni nei cinema italiani in preparazione all’uscita del Dune di Dennis Villeneuve). Il regista cileno parla di quel film mai nato con l’umiltà e la modestia che ne contraddistinguono il carattere: «Dune doveva essere la venuta di un dio. Un dio artistico e cinematografico». Il mito dell’inadattabilità di Dune comincia qui ed è pervicace come l’uomo che gli ha dato origine: può essere solo un film di quattordici ore oppure non può essere; l’imperatore lo deve fare Salvador Dalì oppure non si può fare; il barone Harkonnen è Orson Welles oppure non è; le musiche le devono fare i Pink Floyd oppure lasciamo perdere. Jodorowsky dice che con quel film voleva far provare ciò che prova il cervello imbevuto di LSD: un pitch controverso per non dire delirante, una proposta che nemmeno i meravigliosi storyboard disegnati tutti da Moebius riuscirono a rendere convincente. Era Hollywood ed era il 1968: certe cose non sarebbero successe ancora per anni, allora le saghe non si aprivano e gli universi non si espandevano. Il film arrivò a costare, prima ancora di cominciare a girare, una cifra stimata attorno ai 15 milioni di dollari. Tra i capitoli di spesa c’erano i centomila dollari da dare a Dalì, che accettò la parte solo in cambio della certezza di essere l’attore più pagato di Hollywood, per un’ora di lavoro in tutto (di più non si poteva perché mancava il budget, e nei piani di Jodorowsky bisognava aver pronto un robot da mettere in scena al posto dell’artista scaduti i circa cinque minuti di Dalì che la produzione poteva permettersi). Ovviamente, come aveva previsto Amanda Lear, sua compagna dell’epoca, Dalì fece di tutto per far deragliare il treno sul quale viaggiava lui stesso: alla fine fu licenziato a causa di alcune dichiarazioni “controverse” (ma che vuol dire questo aggettivo riferito a questa persona?) sul generale Franco.

Orson Welles si fece convincere da una promessa di Jodorowsky: avesse deciso di interpretare il barone, il regista cileno avrebbe assunto il cuoco del ristorante parigino preferito da Welles e ogni giorno di riprese sarebbe stato un pranzo della domenica. Era Hollywood ed era il 1968: i soldi erano ancora un concetto chiaro, un’entità fisica, non ci si scherzava, non si buttavano. Oggi è tutto diverso: Villeneuve viene dal fiasco commerciale di Blade Runner 2049 e comunque Legendary Pictures lo copre di soldi per (ri)portare sullo schermo un altro classico della fantascienza. Le cose erano diverse anche ieri, in fondo: David Lynch fu scelto per dirigere Dune perché The Elephant Man era piaciuto moltissimo a Raffaella De Laurentiis, che alla fine convinse Dino. Sapendo come sono andate le cose sembra una scelta assurda, ma all’epoca Lynch fu preso in considerazione anche per dirigere Il ritorno dello Jedi. Era Hollywood ed erano gli anni ‘80: da Eraserhead a Guerre Stellari c’era meno distanza che mai. Alla fine Jodorowsky ci ha solo provato nel decennio sbagliato, avesse aspettato nessuno gli avrebbe fatto pesare la stranezza di El Topo e della Montagna sacra. Certo, oggi spiegare la decisione di far allenare suo figlio Brontis, scelto per interpretare Paul, per sei ore al giorno, sette giorni su sette, per due anni, in una dozzina di arti marziali ai fini della giusta immedesimazione con il personaggio. E questo dopo che in El topo Brontis/Miguel se ne andava a spasso per il Far West come mamma lo aveva fatto.

Parafrasando Brian Eno a proposito di The Velvet Underground & Nico, il Dune di Jodorowsky non si fece mai ma lasciò nelle persone che ci lavorarono un segno profondissimo. Quei due anni parigini passati a lavorare sul romanzo di Herbert si nasconderanno qua e là in decenni di cultura pop successiva: certamente L’incal, il fumetto scritto da Jodorowsky e disegnato da Moebius, in cui i due misero tutto quello che la penna e le matite possono creare. Nella gang messa su da Jodorowsky c’era anche un artista svizzero che di lì a poco avrebbe cambiato per sempre l’estetica della fantascienza (e non solo): H.R. Giger. In Dune il suo compito era dare forma e colore agli Harkonnen, e quelle forme e quei colori passeranno poi in eredità all’alieno. Siccome tutto si tiene, sempre, quando nel ‘76 i diritti per la trasposizione di Dune finirono in mano a De Laurentiis, la prima scelta per la regia era Ridley Scott che aveva appena spiegato al mondo che nello spazio nessuno può sentirti urlare. Scott accettò e poi rinuncio: suo fratello Frank scoprì di avere il cancro mentre lui stava lavorando alla pre-produzione del film, e quel dolore finì per occupare la parte maggiore della mente del regista. In più, il progetto era semplicemente troppo impegnativo: per trasporre Dune in una maniera degna del romanzo c’era bisogno di almeno due film e almeno due anni e mezzo di lavoro. Alla fine Scott restituì lo script a De Laurentiis e si dedicò a un progetto più piccolo, più personale: l’adattamento del racconto di Philip K. Dick Gli androidi sognano pecore elettriche?.

David Lynch non aveva mai letto Dune e non era granché appassionato di fantascienza. Non di quella fantascienza, almeno. Non era granché appassionato di (né avvezzo a) quel modo di fare i film che era proprio dei blockbuster (e non solo dei blockbuster) ancora negli anni ‘80: il regista vuole fare un film di quattro ore ma sa che è troppo, quindi taglia fino ad arrivare a tre ore e poi la produzione gli fa sapere che due ore è proprio il minutaggio perfetto, complimenti. Lych si dirà sempre orgoglioso di tutti i suoi film «tranne Dune»: arrivò a pretendere la rimozione del suo nome dai credits quando Dune fu trasmesso in tv come un telefilm in due parti, versione nella quale il regista risulta essere Alan Smithee (anagramma di the alias men), pseudonimo usato dai cineasti hollywoodiani quando non volevano essere associati a progetti inguaiati dalle ingerenze della produzione. Lynch non ebbe il final cut e fu costretto ai famigerati reshoot: con un film che durava due ore in meno dell’auspicabile e una in meno del necessario, l’unica era aggiungere voci fuori campo e monologhi interiori per dare al pubblico quanto meno un’idea di che cacchio stesse succedendo sullo schermo. Fu un disastro diventato mito, asceso a leggenda, quel Dune. Tanti si convinsero del fatto che non solo il romanzo di Franck Herbert era quasi impossibile da trasformare in film, ma era sicuramente impossibile fare di quel romanzo un film hollywoodiano. Allo stesso tempo, però, l’unico luogo al mondo in cui si trovavano i mezzi, le risorse e le competenze necessarie per riuscire nell’impresa era Hollywood e, probabilmente, sarebbe stato sempre Hollywood.

Dell’aura di bello e impossibile che circonda Dune c’è l’ennesima conferma nelle decisioni che hanno portato al nuovo tentativo di Denis Villeneuve. In un’epoca in cui tutti i produttori cinematografici sono alla continua e disperata ricerca di proprietà intellettuali fortissime attorno alle quali costruire universi infiniti, a Dune ci si è arrivati soltanto nel 2016, quando tutto il resto ormai era già stato prenotato da un pezzo. E già si sa che questa è solo la prima parte di una saga che comunque ha bisogno almeno di due film per essere raccontata degnamente. Staremo a vedere: maybe third time’s the charm.

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