Cultura | Cinema

Paolo Sorrentino, una mediocrità che commuove

È stata la mano di Dio è un film che racconta rapporti che si spezzano: con i genitori, con i mentori, con gli idoli, con una città.

di Gianluca Nativo

Nella periferia nord di Milano, il cinema Beltrade è uno dei fortunati a trasmettere l’ultimo, molto atteso, film di Paolo Sorrentino, È stata la mano di Dio. Prodotto da Netflix, verrà distribuito in poche sale selezionate prima di approdare alla piattaforma streaming il 15 dicembre e qui, nel mezzo della gentrificazione più totale, nel melting pot di un quartiere come NoLo, a pochi passi da viale Monza dove la lingua più parlata dopo l’arabo è il napoletano, non poteva mancare.

Nella sala d’essai il pubblico è ridanciano e televisivo. Si sente mormorare tra comitive di amici: «Che bello andare tutti al cinema», non si sa se disabituati dalla pandemia o disabituati e basta. Distesi sulle poltrone come fossero quelle di casa, ingannati dalla N vermiglia che campeggia sullo schermo, attendono dal regista napoletano manierismi da commentare poi all’uscita, tra l’entusiasmo e la critica feroce. Però, a luci spente, si avverte già dalla scena iniziale – un inedito lungomare avvolto in un silenzio luttuoso – un tono diverso, meno ambizioso e più riflessivo. Si aspetta con ansia l’animale esotico, ma niente, nemmeno una balena al largo di Mergellina. Certo, non mancano gli stilemi decadenti di sempre – il candelabro crollato, il monaciello, la suocera che si sbrodola con una zizzona di Battipaglia – correlativi oggettivi di un malessere molto naïf. Stessa cosa vale per la sceneggiatura sentenziosa, nel tentativo di nobilitare luoghi comuni – «fuma, è la cosa migliore dopo il sesso», dice una vecchia contessa che ha appena strappato la verginità al neo-orfano Fabietto – ma sono davvero pochi e piuttosto discreti.

A imporsi allo sguardo sono invece gli interni, il racconto intimo, domestico, di una città per nulla eccezionale. Abitazioni piccolo-borghesi, incastrate in complessi residenziali di costruzioni anni Sessanta – brutte inferriate azzurre e verande di alluminio anodizzato – che a Napoli, chissà perché, prendono il nome silvano di parchi, costruiscono un set a cui gli spettatori di Sorrentino sono poco abituati, dopo i film ambientati in Svizzera. Che bella, e che ricordi, la stanzetta in condivisione con il fratello, col pavimento disseminato di infradito smesse. Gli interni sacrificati, la moderna Cesca contro la vecchia consolle, il progetto disegnato a mano della fatale casa a Roccaraso, il papà che legge la Fallaci in poltrona, sono espressione di una piccola borghesia che ha ravanato spazi ridotti sulle pendici della collina del privilegio, il Vomero, lontana dall’eccezionalità del resto di Napoli.

Gli Schisa sono un concentrato di mediocritas napoletana. Il papà impiegato in banca, che cambia canale in tv servendosi di un bastone perché «Io sono comunista, non uso il telecomando» ricorda tanti papà di amici di amici di amici, ex militanti di Lotta Continua, che brigavano per iscrivere i figli nella migliore sezione delle medie. La madre casalinga, che ama fare scherzi, provocare i parenti durante le cene con quella malizia tutta napoletana, oggi sarebbe una lettrice di De Giovanni, una simpatica frequentatrice delle librerie del centro storico. A vederli, lo spettatore millenial sfessato avrà l’impressione di sfogliare un album di famiglia, di rivedere i propri genitori, smaglianti boomer in pose da divi durante il viaggio di nozze. Il fratello di Fabietto, aspirante attore, fa un provino come comparsa in un film per Fellini, ma il regista lo scarta « perché ho una faccia convenzionale», dice.
El Pibe de Oro – che in Youth compariva come un ricco panzone nel mezzo di una pedicure intento a pensare “al futuro” – qui è invece presenza discreta, miracolosa divinità omerica, invisibile, a lato, pronto a comparire dal nulla per salvare il proprio eroe e consegnarlo alla gloria eterna. È una star per tifosi gentili.

Si dice che sul set cadesse spesso un silenzio religioso, gli attori mantenevano un contegno rispettoso per il lavoro del regista, impegnato nello sforzo non indifferente di tenera a bada finzione e una realtà dolorosa, la morte dei suoi genitori. Nell’intimità della casa in montagna a Roccaraso, status symbol dei napoletani che preferiscono la neve al mare, i coniugi Schisa muoiono insieme per una fuga di gas, accoccolati davanti al camino, come una coppia di inseparabili cardilli, uccellini da balcone, di cui marito e moglie imitano il verso come romantico richiamo da piccioncini. La mediocrità commuove. Questa erotica noia borghese, anzi vomerese, con cui farà i conti Fabietto, timido adolescente che frequenta i Salesiani, indirizzo classico, è, oltre alla predestinazione, scontata, del grande futuro da regista, un ritratto poetico di cosa significa crescere in una città eccezionale pur essendo figlio di impiegati e non di micidiali camorristi. «Non ti disunire» è la raccomandazione, nella scena finale, del suo mentore, il regista Antonio Capuano (La guerra di Mario, Luna Rossa, vero maestro di Sorrentino che partecipò alla scrittura del suo Polvere di Napoli). Disunire è un verbo matematico, di difficile interpretazione e infatti Fabietto chiede spiegazioni, non capisce. Cosa vuol dire disunirsi? Non lasciare la propria città, non rinnegare le proprie mediocri origini, non essere ambizioso? Fabietto, ormai Fabio, si trasferisce comunque a Roma, dove oggi vive il suo alter ego nella realtà, a piazza Vittorio – si dice che a cena la moglie Daniela prepari una genovese così eccezionale che i suoi attori hollywoodiani facciano esplicita richiesta di portarne un pezzo a casa, in una doggy bag ricevuta sotto forma di buccaccio.

E allora l’Oscar e la ribalta internazionale sarebbero difficilmente pensabili se fosse rimasto a Napoli, se avesse seguito il suo mentore, se non si fosse “disunito”. Nel migliore dei casi sarebbe finito come il Capuano della finzione, regista cinico e isterico, con il fegato pieno di bile verso la letteratura del potere, le pose da intellettuali. E avrebbe ragione ancora oggi, ora che la meschinità si è infilata da anni nel racconto, sempre più mainstream, di Napoli. Da quando le ZTL hanno liberato le piazze e il lungomare, attirando orde di turisti, la città ha svenduto tutti i suoi misteri, da Nisida (Liberato) alla remota Procida oggi assaltata da turisti, registi, scrittori, wedding planner. L’orientalismo del meridione affascina l’estero, serie tv e romanzi hanno vie privilegiate nelle fiere internazionali. Essere un artista napoletano è considerato un brand. I fortunati rimasti nella propria città ne fanno un vanto, postano sui social foto di tramonti ineguagliabili, spaghetti alle vongole sotto un Vesuvio abbagliante, si trasferiscono a Procida con voluminosi romanzi russi che sfogliano per ore spiaggiati alla Chiaiolella, ricalcano all’infinito quella maledetta retorica della città più bella del mondo. Quelli che invece sono andati via, quando tornano, ritrovano una città immobile, un posto felice solo per i fuori sede, ma chi ha superato i trent’anni ha il viso sempre più segnato dallo sconforto: un amico ha subito un TSO, qualcuno più banalmente si è sposato e si è trasferito dal Vomero a Marano, i più fortunati hanno preso in gestione un paio di stanze delle loro grandi case disabitate per fittarle su Airbnb. Il rigurgito filoborbonico assomiglia ormai a certe nuove forme di complottismo. Tutti sanno che a rimanere nella città più bella del mondo si rischia o di impazzire o di essere complice del fallimento generale.

La parabola di Sorrentino, da orfano a regista premio Oscar, sembra suggerire un’altra opportunità: disunitevi, mettete da parte una città che se non uccide vi ferisce a morte, abbracciate un’idea di futuro, anche a costo di ritrovarvi a piangere, patetici, su un treno tra Napoli e Roma, all’altezza di Sessa Aurunca, ascoltando una canzone di Pino Daniele.