Attualità | Coronavirus
Internet con il Coronavirus
Dai consigli per la panificazione a Giuseppe Conte in versione k-pop, passando per inni nazionali, runner e scaffali vuoti: come abbiamo vissuto un mese di pandemia on line.
Giuseppe Conte in versione M¥SS KETA. Foto tratta dall'account @lebimbedigiuseppeconte
Se la pandemia da Coronavirus ci sembra un grande esperimento sociologico è perché la stiamo vivendo all’interno di un altro grande esperimento sociologico, cioè Internet. Il virus COVID-19 non ha infettato solo i luoghi reali e i corpi delle persone, si è infiltrato anche dentro le nostre reti virtuali. Dai siti web ai social network, dai gruppi di Facebook ai trending topic su Twitter: tutto è diventato “ai tempi del Coronavirus”. Mentre salivano le curve dei grafici che contavano i contagiati reali, salivano anche le curve dei grafici che monitoravano le conversazioni online riguardanti il virus. L’Italia è stato il primo Paese occidentale a dover fare i conti con l’emergenza sanitaria e noi utenti italiani siamo stati anche i primi a vedere gli effetti della penetrazione del virus sui social media. Col passare dei giorni, abbiamo visto ripetersi gli stessi fenomeni, le stesse reazioni, addirittura gli stessi identici meme, sugli account di inglesi, americani, spagnoli, tedeschi. Sembrava di vivere in un paradosso temporale alla Interstellar.
Fino ad ora, il contagio social ha visto il susseguirsi di tre fasi: la crisi, la fase della riorganizzazione, la ricerca di una nuova normalità. A rivederle adesso, appaiono come i primi dieci minuti di Melancholia con l’ouverture del “Tristano e Isotta” di Wagner in sottofondo e le immagini al rallentatore, ma con le razzie di carta igienica e primi piani sulle penne lisce al posto delle metafore della Morte e dell’Apocalisse. La prima fase, ovvero “la crisi”, che si colloca a fine febbraio quando si è iniziato a parlare del Paziente 1 e delle zone rosse, è stata caratterizzata da una ostinata negazione: una banale influenza, dicevano. La stampa sta esagerando, dicevano. Poi è venuta la solita ondata di indignazione contro tutti: il Governo, i giornalisti, i titoli di Libero, Burioni, gli indignati degli indignati. Tutto sommato, un qualcosa di già visto sui social network, solo che le shitstorm di solito si spengono da sole entro due giorni, in questo caso all’indignazione si stava sostituendo il panico. È in quel momento che sono arrivate le foto degli scaffali vuoti dei supermercati. Quelle mensole prima ricolme di merci e all’improvviso violate erano quasi oscene, pornografiche: ai commenti furiosi, sui social, si alternavano i commenti di chi aveva “paura del panico” e quindi era ulteriormente spinto a farsi la scorta. In realtà, il fenomeno si era verificato solo in pochi supermercati, ma aleggiava comunque un sentimento da tempio violato, da offesa massima, da non rispetto per il prossimo. Finché non è arrivata la foto con lo scaffale ancora pieno di penne lisce. Dovremmo ringraziare chi ha postato quella foto: ci ha fatto sorridere e quindi strappato dalla rabbia, dal panico e dal solito, provinciale, sentimento anti-italiano secondo cui “queste cose possono succedere #soloinitalia (era stato coniato pure un hashtag specifico). Invece, ogni Paese ha poi avuto i suoi scaffali svuotati e le sue penne lisce (negli Usa una marca d’acqua imbottigliata, l’acqua Desani, in UK i prodotti vegani). La fase finale della crisi è una storia di chi fugge e di chi resta: abbiamo visto rimbalzare da Facebook a WhatsApp i video di gente che scappava dal virus o che cercava di tornare dagli affetti familiari. Abbiamo appurato che non succede solo in Italia, ma è un istinto umano.
Con il lockdown nazionale e il social distancing, è arrivata la seconda fase, quella in cui si cerca di riorganizzare positivamente la vita a seguito di uno sconvolgimento o di un trauma. “Andrà tutto bene” è lo slogan che ha caratterizzato questa fase, l’arcobaleno il simbolo, disegnato dai bambini sui lenzuoli poi appesi alle finestre. Nel frattempo, i droni sorvolavano gli svincoli stradali delle città, prima trafficatissimi adesso immoti, e le webcam mandavano immagini delle piazze più famose d’Italia silenziosissime, spopolate, col solo rumore dell’acqua delle fontane a fare da sottofondo, irreale, funereo. Mettersi a cantare sui balconi l’Inno nazionale, sbatacchiare i coperchi delle pentole, accendere le luci, fare casino, sono state tutte reazioni all’horror vacui. Mentre il team #andràtuttobene esorcizzava il virus con le tarantelle, il team #restoacasa (lanciato su Twitter da Filippo Sensi) organizzava le truppe, schierando inaspettatamente la super-influencer Chiara Ferragni, che in tempi “senza virus” aveva fatto di #NeverStop il suo motto. Alla fine della prima settimana di lockdown, riemergevano timidamente dai loro gusci anche le pagine social dei brand, rimaste silenziosissime dall’inizio della crisi. Qualcuno tirava fuori anche un post di real time marketing: andrà tutto bene, non ci dimenticate, continuate a comprare.
Adesso siamo in piena fase alla ricerca di una nuova normalità. Con i social network che riscoprono la loro funzione originaria, la condivisione della conoscenza: i consigli per lavorare in smart working coi figli, i video per allenamenti casalinghi, i gruppi Facebook per aiutarsi a vicenda e sfogare il bisogno di interpretare grafici che poi nessuno veramente capisce. È una nuova normalità, provvisoria, fragile, fatta di panificazione e videoconferenze, tute e pigiami, di brevi periodi fuori casa intrisi di angoscia, di appostamenti dietro le tende per sorprendere gli irriducibili della passeggiatina. C’è stato un intensificarsi di diari su Twitter e Stories che raccontano soprattutto di emozioni altalenanti, brevi momenti di serenità alla mattina, ansia che si intensifica verso sera. Si cerca ancora uno sfogo cantando l’Inno nazionale ma con meno slancio, soprattutto dopo aver visto i numeri di Borrelli durante la conferenza stampa delle 18. La sensazione generale è che si stia slittando verso un’altra fase: quella della stanchezza. Si percepisce nervosismo ovunque, che ogni tanto esplode in flame su tematiche quali le foto ai runner e il lievito nei supermercati che non si trova più. Qualcuno disinstalla le app di Facebook e Instagram e alcune analisi riscontrano un calo generale delle conversazioni online a tema Coronavirus, prova del livello di saturazione nelle persone. Si polemizza con il Governo che preferisce usare Facebook per le comunicazioni importanti, evitando domande e confronti e si attendono con timore e rassegnazione ulteriori chiusure, avvitamenti, sanzioni, autocertificazioni. Però si leggono le interviste di chi è in prima linea lì, sul fronte, con gli occhi lucidi, si contemplano i necrologi con la mente svuotata, la processione di camion che trasportano bare. Si poggia un attimo lo smartphone giusto per affacciarsi al balcone, al tramonto, per respirare l’aria forse più pulita. Poi si torna dentro casa, a chiedere a chi è online: “Cosa ti manca della vecchia vita?”, “Qual è la prima cosa che farai quando tutto questo sarà finito?”, “Quando finirà?”.
Ma c’è ancora una cosa che ha distinto l’Italia dagli altri paesi: nessuno ha visto trasformarsi il suo Capo di Governo da Professore paziente-ed-eterno-mediatore a star del K-pop. A reti unificate, mentre col solito aplomb post-democristiano Giuseppe Conte ci chiudeva a casa, i social ne coglievano come non mai la carica sensuale, l’intimità di quella pochette bianca che spunta dal taschino. Veniva creata su due piedi il profilo Instagram @lebimbedigiuseppeconte, passato nel giro di una settimana da 0 a più di 300 mila follower. Eccola la distopia tanto invocata dai Millennial: è finalmente arrivata e non poteva che essere così. Con i cuoricini a lato della diretta Facebook del premier, con i meme sulla carta igienica al posto degli zombie, l’amuchina come arma finale, la tipa su TikTok che lecca il water al posto di Milla Jovovich in Resident Evil. Con Giuseppe Conte Senpai, star della fanfiction Il decreto, al posto di Will Smith in Io sono leggenda. Col video di Morgan dotato di mascherina e in monopattino elettrico che svolta l’angolo cantando “Le cattive intenzioni e la maleducazione” al posto di Shakespeare che scrive Re Lear durante la quarantena. Cioè la tipica buffonata Millennial: siamo umani, capaci di fare social tv anche del contagio. Come sarebbe stato se non ci fosse stato Internet? Ci fa male solo pensarlo. Come finirà? Sui social network cinesi probabilmente c’è la risposta a questa domanda. Se potessimo accedere, vedremmo le altre fasi e forse anche com’è finita.