Stili di vita | Coronavirus
Apocalisse in pigiama
La quarantena sta rivoluzionando i nostri canoni dell'abbigliamento, tra chi sceglie la comodità e chi una parvenza di professionalità, ma solo a metà.
Bill Murray. Foto di Matthias Clamer/CORBIS OUTLINE/Corbis via Getty Images
L’Italia è in pigiama. O in tuta. O in un ibrido di pigiama e tuta: pare che la tendenza della quarantena da Coronavirus sia questa, abbinare il pigiama con la tuta. O è vestita, pettinata e truccata, ad aspettare la video call con la persona che sta(va) frequentando – perché ok il virus però, semmai finirà, semmai sopravvivremo, avremo ancora qualcuno da frequentare. Consigli di bellezza, maschere fatte in casa, impacchi alla camomilla, esercizi per tonificare i glutei urlati da youtuber imbottite di anfetamina – chi riesce a guardare anche solo tre minuti di questi video deve avere già iniziato a sviluppare qualche problema psichico. Visto che probabilmente si resterà a casa per un bel po’, ognuno deve cercare di abituarsi a questo nuovo stile di vita, istituendo nuovi riti o restando disperatamente attaccato a quelli che aveva qualche settimana fa. Per esempio alzarsi e, come se niente fosse, vestirsi, pettinarsi, truccarsi, profumarsi. Si può pensare all’ombretto da abbinare al pigiama mentre è in atto una pandemia potenzialmente letale? Tocca imbellettarsi anche durante l’apocalisse? Qualcuno dice sì.
Bianca la mattina si prepara come se dovesse uscire, non cede alla tuta. Outfit perfetto? «Né con il tacco alto in casa – verrebbe a prendermi la neuro – né con le ciabatte. Pantaloni di seta da quattro piotte (quattrocento euro), maglione a collo alto e friulane». Perché? Per continuare a sentirsi belle, fa bene all’umore. C’è il negazionista, quello che continua a vestirsi con camicia e giacca – e magari sotto boxer – come se dovesse andare a lavoro. Da questo lato è tutto un come se. Dall’altro di lato c’è chi cerca di adattarsi agli arresti domiciliari senza nemmeno la cavigliera che traccia le distanze percorse perché l’unica distanza da percorrere è divano/letto, letto/divano. Quelli che accettano la situazione senza opporre resistenza si abbigliano nell’unico modo possibile: stesso pigiama o stessa tuta, per giorni. Marcire. Poi un bagno e un nuovo pigiama o un altra tuta o un mix dei due. Camilla mette a ruota una tuta grigia, una nera, una verde menta – «quando mi va di osare». Con sopra felpa sformata e pigiami vari che si confondono con le felpe. Rita si alza tardi perché più tardi ti alzi più velocemente passa la giornata. Non le piace mangiare in pigiama – «mi fa sentire malata davvero». «Ho recuperato pigiami di anni fa, alcuni mi stanno larghi, alcuni corti, altri hanno i gattini. Indosso calzette doppie che arrivano al polpaccio e Birkenstock, a volte mi metto le pantofole di mio padre che porta 5 numeri in più». Anche i Ferragnez sono perennemente intutati, sono l’archetipo della tuta, l’Adamo ed Eva della tuta – ovviamente Louis Vuitton.
Visto che non si può uscire nemmeno a fare jogging (non si dovrebbe uscire a fare jogging nemmeno quando è tutto ok) le tute sono fake, sono tute da WiiFit, di velluto, tessuti sintetici, pelose. La tuta da quarantena non è tuta per il fitness, è solo una cosa che può farti sentire, almeno apparentemente, in forma. Anche se non hai mai fatto sport e non hai intenzione di farlo puoi indossarla. Giancarlo si veste comodo o con abbigliamento sportivo, in caso di Skype call, con jeans e maglioncino. Mai in ciabatte, questione metodologica. «Il pigiama, cos’è? Non ne ho mai visto uno in vita mia, la semplice idea mi atterrisce». I contest a chi indossa le pantofole più brutte sono paurosi quanto i reading su Instagram fatti da ragazze truccatissime (ma perché? perché mi menti così? Perché non sei reale nemmeno in questo momento?). Siamo all’essenziale: spesa e farmaci. Inutile truccarsi mentre leggiamo studi incomprensibili su farmaci difficili da pronunciare, mentre la home di Facebook si trasforma in un necrologio. Per Edoardo è meglio essere impigiamati che fintacchittati, è più vero. Pile infeltriti, copertine. Pantofole rubate in hotel di Deli, pantofole di peluche o paillettes iridescenti, infradito con sotto calzettoni di lana. Vestaglie broccate. Cappotti con sotto pantaloncini corti e sneaker fluo. Anarchia, grande libertà. Visto che fuori casa ormai è come essere in un horror di serie B nonostante il cielo azzurro e l’acqua cristallina – cielo azzurro che puoi solo guardare dalla finestra, acqua cristallina in cui non puoi immergerti. Vediamo persone che non sembrano nemmeno più persone, senza faccia. Nemmeno con delle mascherine serie ma con roba di carta igienica che ti si spezza se sorridi. Nemmeno con guantoni e tute metalliche sceniche. Almeno in casa si può essere liberi, comodi, menefreghisti. Solo per lo smart working le regole cambiano. Multi video call in pigiama meglio di no. Quando il tuo capo è in pigiama ti rimane difficile prenderlo sul serio. C’è chi si tiene sulla scrivania una collana e degli orecchini da mettere solo per le call. Moony la mattina, con calma, si veste. Ha raggiunto questo compromesso: carina sopra (per chiamate di lavoro oppure chiacchiere e aperitivo), sotto un pantalone della tuta impresentabile, calzettoni e pantofole. «Non mi trucco ma mi pettino. Intimo accoppiato. Questo è un retaggio del “in caso di emergenza sono presentabile”».
Vestirsi bene è più facile all’inizio della quarantena: sul Financial Times Robert Armstrong al primo giorno di isolamento sociale si impone un codice da seguire citando Robert Redford che in All Is Lost, prima di inabissarsi insieme alla sua nave, si rade. Perché in una crisi, l’ordine, anche se simbolico, conta. Il primo giorno. Ma dopo una, due settimane, l’ordine non conta più, almeno non quel tipo di ordine. È come dirsi devo mangiare sano con un Big Mac in mano, non funziona. I ben vestiti si convertiranno presto all’abito universale: il pigiama, al massimo addolcito con innesti di tuta fake. Condividiamo un posto e una veste. Un abito assoluto, integrale, una divisa da notte, che così quando finirà tutto sembrerà solo un incubo. Spiace per Enzo Miccio e in suoi tutorial motivazionali. Vestirsi per sentirsi vivi? No, svestirsi mentre si cerca di sopravvivere. Sean, salvo quando serve uscire per andare a fare la spesa, rimane in pigiama perché a casa si dà da fare (ha sistemato tutto il sistemabile) e preferisce restare comodo. «Se mi vesto è solo quando serve, a casa rimango in pigiama», dice. Ora che non c’è più bisogno di mettersi in tiro per uscire, per gli altri, si può tornare alla funzionalità, a una paradossale rilassatezza. Vedere le persone in tenuta da casa, in pigiami morbidi, fa sentire uniti e consapevoli. Non si è belli, è vero, anzi si è piuttosto brutti, ma la bellezza lascia spazio a qualcosa che fa paura e insieme spinge a reagire. Non siamo belli ma possiamo essere sublimi.