Cultura | Idee

È il momento della voce

Fine dell'era delle immagini? Tra podcast, vocali e Clubhouse siamo entrati nell'epoca dell'oralità.

di Barbara Meneghel

(Foto di Brendan Smialowski /Afp Getty)

Quando ho iniziato a interessarmi del tema dell’oralità, Instagram era in piena esplosione, e aveva rivoluzionato da pochi anni non solo la fruizione delle immagini digitali ma anche il nostro modo di rapportarci all’immagine fotografica. Era il 2015 e il mondo fluttuava in una vita precedente in cui la maggior parte di noi avrebbe scommesso che lo spillover fosse il nome di un punteggio nel tennis. Per non dire del lockdown, o della proteina Spike.

Mi frullava in testa un magma ancora piuttosto indistinto in cui la fascinazione per la musica cantautoriale si mescolava, anche se non avevo ancora figli, all’interesse antropologico per le favole arcaiche e a quello per le origini orali dei poemi omerici. In un mondo travolto da un flusso inarrestabile di elementi visuali, a me interessava il racconto verbale, orale, per la precisione. Più di tutto, però, mi incuriosiva il fatto che nell’arte contemporanea si fosse a un certo punto creata (per poi esaurirsi in pochi anni) una corrente molto precisa, in cui numerosi artisti europei utilizzavano formati legati all’utilizzo della voce e dell’oralità, spesso proprio in contrapposizione all’uso del testo e dell’immagine. Le mie ricerche sulle origini del racconto orale, e del suo impatto sulla cultura occidentale contemporanea, rimasero poi lì, scritte in una tesi di laurea specialistica seguita da Luca Cerizza (cui si devono proprio studi di questo tipo), e quindi sommerse da ondate quotidiane di immagini.

Ma un giorno il mondo si è svegliato in un’epoca nuova, in cui tutte le carte si sono rimescolate. In cui ci si è messi a parlare, parlare tantissimo, spesso come unico canale possibile dopo la perdita dello spazio fisico di incontro tra persona e persona, tra fruitore e opera d’arte. I podcast, ancora piuttosto di nicchia in Italia, hanno conosciuto un’esplosione improvvisa («Nel mondo, solo nel 2020, sono stati prodotti tanti podcast quanti nel resto del tempo dalla loro nascita», mi racconta Mario Calabresi. E non è difficile crederlo). È addirittura comparso un nuovo social network fatto solo di voce, sprezzante nei confronti di qualsiasi traccia di registrazione: nessun testo scritto, ma soprattutto nessuna immagine. Clubhouse mi è parso qualcosa di talmente ancestrale, da essere la cosa più moderna vista di recente.

E mentre le istituzioni culturali facevano a gara nel proporre palinsesti digitali fruibili attraverso l’ascolto (un merito particolare va all’ottimo progetto di Radio GameC a Bergamo), le fiere d’arte traslocavano online con una serie infinita di talks, e ai nostri figli venivano riproposte le letture delle favole al telefono, ho sentito l’esigenza di recuperare quello che avevo abbandonato in tempi non sospetti. Mi sono confrontata quindi con alcune persone che, più e meglio di me, hanno a che fare nel loro lavoro con questo filone di interesse: Nicola Ricciardi, ex direttore delle OGR di Torino, e nuovo direttore di Miart; Luca Cerizza, critico e curatore che per molto tempo ha scritto e riflettuto su questi temi; e Mario Calabresi, ex direttore de La Stampa e Repubblica, che ora lavora moltissimo sullo storytelling scritto e orale con Altre/Storie e Chora (società di produzione di podcast da lui co-fondata e diretta).

Mi racconta ad esempio Ricciardi che il suo legame con l’oralità è di lunga data, «perché ho sempre ascoltato moltissima radio, sviluppando un costante rapporto con la voce senza immagini. Quando studiavo negli Stati Uniti, ho iniziato ad ascoltare non solo molta radio americana ma ho anche scoperto il mondo dei podcast. Il racconto orale, lo storytelling e i primi tentativi di far incontrare il mio interesse personale con le traiettorie dell’arte risalgono a quegli anni, al 2012-2013. Quando nel 2016 divenni direttore delle OGR, insieme a un’amica e collega, Barbara Casavecchia, traducemmo questa fascinazione per lo strumento del parlato nella mostra di Susan Hiller, artista americana in cui la componente della voce è fondamentale. Un interesse che ho poi portato avanti in altre mostre, oltre che in progetti paralleli: con Ilaria Bonacossa ad esempio abbiamo ideato Artissima Sound, una sezione della fiera incentrata proprio sul suono, sulla voce come elemento centrale. Anche adesso, nella mia nuova veste di direttore di Miart, il racconto e l’oralità sono fondativi nella mia visione: una delle poche cose di cui sono certo per l’edizione 2021 è il desiderio di instaurare forme dialogiche – in senso stretto, anche banalmente telefonico – con le gallerie. Già da ottobre ho definito il tema della fiera, che sarà Dismantiling the silence: il titolo è tratto da una raccolta del poeta Charles Simic a cui sono molto legato, e l’idea è proprio quella di distruggere, smantellare, e quindi colmare il silenzio che ci ha tutti colpiti attraverso la voce parlata, il racconto».

Per Cerizza, invece, l’origine dell’interesse per lo storytelling coincide con la passione per la musica folk e, in particolare, per la canzone popolare/tradizionale americana e anglosassone, che deriva dall’adolescenza. «Sono sempre stato affascinato dall’idea della continua trasformazione che un costrutto narrativo e musicale subisce attraverso quel continuo passaggio “dalla bocca all’orecchio” di diversi interpreti che sono, ognuno e nessuno, autori. Mi ha sempre affascinato l’idea di questo materiale malleabile, continuamente modificabile attraverso la trasmissione e la parola. Ma prima ancora, quando ero bambino, credo che un ruolo importante lo abbiano giocato i racconti di mia nonna sulla Seconda Guerra Mondiale e, poco dopo, l’aver contratto il “virus” Bob Dylan da cui non mi sono ancora vaccinato… A undici/dodici anni, quando ho iniziato ad ascoltarlo, non capivo nulla di quello che dicevano le parole, ma ero affascinato dal loro suono, dal loro ritmo, dalla loro scansione. L’attitudine di Dylan a una continua re-interpretazione delle sue canzoni attraverso gli anni, fino a renderle a volte irriconoscibili, si applica non solo al piano musicale ma anche a quello testuale; a quello che è stato definito da alcuni studi sull’oralità, il “testo performativo”».

Le riflessioni di Mario Calabresi sono inevitabilmente più legate al mondo dell’informazione. Rispetto a questa sorta di “oralità di ritorno”, pone sul piatto una questione cruciale: quella della fiducia verso il mezzo di comunicazione. «Trovo che ci sia stato un progressivo logoramento della parola scritta, di cui l’immagine è stata il primo sostituto completo. Oggi però il caos mediatico che ci bombarda ha provocato un logoramento anche dell’immagine stessa, per cui vedere non è più sufficiente: si sente il bisogno di ascoltare, un gesto molto più intimo che unisce una voce parlante e un ascoltatore, e che – soprattutto – porta con sé la questione della fiducia. Tutti gli indicatori segnano un crollo di fiducia nell’informazione tradizionale: ascoltare un racconto dalla voce di una persona crea invece una sensazione di autenticità, data proprio dal discorso “a due”. Questo dato, fondamentale, è chiarissimo ad esempio Google, a Facebook, a Apple: Clubhouse nasce perché in quegli ambienti si fanno ricerche e riflessioni di questo tipo. Una volta uscito da Repubblica, moltissimi mi hanno sconsigliato di fondare un nuovo sito di informazione, ma di creare piuttosto una comunità di ascolto basata sulla mia figura. Per questo ho avviato la mia newsletter, Altre/Storie (cui si affianca una serie di podcast prodotti da Chora, nda). Eppure, entra in gioco qui il rapporto delicato tra storytelling da un lato, e informazione dall’altro. Walter Benjamin, nel suo testo Il narratore del 1936, vedeva nell’informazione giornalistica una delle cause della morte dello storytelling (da lui inteso come racconto orale, collettivo, quello delle favole recitate durante i lavori manuali nelle campagne)». È cambiato qualcosa oggi? Calabresi ritiene che per il giornalismo, lo storytelling oggi sia al contrario «un’opportunità: proprio perché impone di mettere al centro le persone, la vita. Lo storytelling può salvare l’informazione tradizionale perché la avvicina alla gente». Ovvero, proprio come faceva la storiografia di Carlo Ginzburg negli anni ’70 e ’80, racconta la Storia attraverso microstorie, dando voce a chi non si trova al centro della scena.

Chiaramente però, si cammina ancora sul crinale della fiducia: è davvero possibile certificare l’autenticità di quello che ci viene raccontato oralmente? Per Luca Cerizza, che ha lavorato molto su questi temi in ambito artistico, «la capacità affabulatoria, seduttiva, del racconto è in realtà rischiosa. Naturalmente non posso sottoscrivere il detto americano Believe half what you see, none of what you hear, però è giusto anche farci qualche domanda sul potere della voce, sulle ambiguità dell’oralità. Curioso e tragico pensare che che Benjamin, da ebreo che assistette all’ascesa del Nazismo non avesse capito la forza dello “storytelling” (si direbbe oggi) dei fascismi dell’epoca, manifestata anche attraverso l’uso della voce attraverso i medium dell’epoca: la radio».

La riflessione sul rapporto tra informazione e finzione, verità e leggenda in un mondo dove la fabbricazione di storie e immagini è sempre più sofisticata, è al centro dei suoi studi fin dall’inizio: «Il mio lavoro su arti visive e oralità/storytelling è legato soprattutto ad alcuni testi scritti tra il 2005 e il 2011, in cui applicavo quell’idea di continua metamorfosi e trasformazione della cultura folk/popolare all’arte, nell’ambito della nostra modernità digitale e “liquida”. Il mio discorso seguiva, in sintesi, un doppio binario che sintetizzavo come “L’arte del racconto e il racconto dell’arte”. Da una parte artisti che fanno della storia dell’arte anche recente la fonte delle loro opere, trasformandola in una materia favolistica e leggendaria (penso a Jonathan Monk e a Mario Garcia Torres, per esempio). Dall’altra un’altra serie di artisti che continuano in modi diversi l’eredità del Concettuale, e l’idea di ridurre al minimo la componente dell’arte strettamente visiva. Per mettere in questione lo statuto dell’immagine, alcuni artisti soprattutto alla fine degli anni Sessanta stimolano una componente immaginativa (Robert Barry), orale (Ian Wilson), se non leggendaria (Bas Jan Ader e Hreinn Friedfinnsson e i loro riferimenti al racconto). In questo senso penso al lavoro di Tino Sehgal, che fin dai primi anni Duemila organizza delle “azioni” negli spazi dell’arte basate su movimento, parola e canto che vanno esperite direttamente (anche come racconto) dagli spettatori».

Ma nei suoi testi accennava anche alla situazione che appunto si era sviluppata dai primi anni Duemila, «quello che si potrebbe definire un “discursive turn” dell’arte contemporanea: una serie di artisti, soprattutto in area francese, sembravano reagire all’esplosione dell’iconosfera digitale usando forme principalmente orali, parlate. Una mia mostra al Centro Culturale Francese di Milano nel 2011 si muoveva in questa direzione. Ma penso anche ad artisti italiani come Maurizio Cattelan, o a Roberto Cuoghi, che all’inizio della sua carriera ha vissuto per anni assumendo lo stesso aspetto di suo padre, giocando ambiguamente tra arte e vita».

Si arriva dunque a quello che è accaduto alle istituzioni di arte contemporanea negli ultimi dodici mesi. Annullata la possibilità della presenza fisica, tutte le realtà di questo genere hanno messo in campo le uniche forze possibili per continuare a fare cultura: quelle del digitale, attraverso cui passano fiumi di voci. Non si è trattato certo di inventare nulla, ma di imprimere una drastica accelerata a processi già in atto. Ma cosa succederà, ad esempio alle fiere d’arte, in un futuro ideale in cui l’emergenza sanitaria sarà rientrata? Secondo Nicola Ricciardi «C’è stata un’inevitabile accelerazione sul digitalizzare le fiere, ma sono certo che non appena le condizioni lo permetteranno si tornerà a fruire questi eventi esattamente come prima, in presenza. So che necessariamente buona parte del futuro vivrà di digitale; è ovvio che le cose cambiano, ma questo non accade da un momento all’altro: vanno maturate, masticate, e un ambito come la cultura continuerà e esprimersi su diversi canali». «La cosa curiosa», nota Cerizza, «è che negli ultimi anni, proprio come risposta alle possibilità sempre più accurate di documentare le mostre attraverso internet e i social media, quasi tutte le istituzioni artistiche avevano incrementato il numero di proposte “time-based”: installazioni partecipative, musica, performance, danza. Ovviamente questa voglia di “esperienze” è stata di colpo spazzata via. Le istituzioni hanno dovuto rispondere a questa situazione con un incremento di programmazione in remoto, ma in un futuro che ci auguriamo covid-free, ci sarà una naturale gran voglia di vivere i musei e le mostre di persona. D’altro canto le istituzioni continueranno la proposta di contenuti in remoto con sempre più attenzione e qualità».

Probabilmente, quindi, si continuerà a lavorare su una doppia piattaforma: così come scrittura e oralità, secondo Calabresi, non sono realmente in contrapposizione. «Ogni canale ha delle dinamiche interne proprie, una propria etica, una propria struttura». Eppure, continuo a pensare che la seduzione della voce, in determinate circostanze, rimanga unica: racconto a Calabresi che la sua intervista a Fabio Cantelli Anibaldi (ex ospite e portavoce di San Patrignano), inclusa nell’ultima newsletter, è stata senza dubbio interessante, ma quello che mi aveva realmente tenuta incatenata allo schermo vedendo SanPa era stato il suo modo di parlare: dunque mi sento istintivamente più attratta la versione ‘orale’ dell’intervista. E Ricciardi ci racconta della sua recente passione per il chiacchierato podcast di Spotify che mette a confronto due tra le più famose personalità del pianeta: Bruce Springsteen e Barack Obama: «Springsteen è un ottimo storyteller, per me i testi delle sue canzoni sono del tutto assimilabili alla letteratura; e Obama è ovviamente uno dei più strutturati e intelligenti oratori degli ultimi 30 anni: si creano quindi conversazioni di ampio respiro in cui i due si confrontano su questioni legate all’attualità americana, con momenti di vero lirismo. L’esempio è in un passaggio in cui Obama racconta di quando in South Carolina, dopo il massacro di Charleston, cantò Amazing Grace, e l’effetto è da pelle d’oca».

Con l’introduzione dei podcast, d’altra parte, c’è stato «uno scarto fondamentale sul livello di attenzione: rispetto allo scroll meccanico delle immagini su Instagram, il podcast richiede concentrazione prolungata, esattamente come il longform. Sembra di avvertire un nuovo desiderio di impegnarci come esseri umani nel porre più dedizione, più tempo in quello che facciamo. Ma il grado di attenzione richiesto da un podcast, in fondo, ripaga con un livello di empatia e di emozione impareggiabile. Pensiamo al discorso di Barack Obama sul ponte di Selma, nel 2015: nessuna immagine, mai, potrà raccontarcelo allo stesso modo».