Attualità

Queen of Versailles

Il tycoon repubblicano e la sua moglie trofeo. Il lusso sovrumano e poi il tracollo. Arriva la fotografa di avanguardia e racconta tutto.

di Violetta Bellocchio

La mia editor qui a Studio nota che spesso io procedo per accumulo. Che offro più esempi della stessa cosa, quando sto qui a parlare con voi, come volessi dimostrare che non sono matta, e che di quello che racconto ci sono le prove.

Beh, è vero. Mi piace molto il filone «le prove! abbiamo le prove!», e credo sia giusto offrire evidenza concreta di quello di cui si ha esperienza, e poi, a parte la mia vita personale, finora non ho mai incontrato un materiale umano tanto rivoltante da farmi scattare il salvavita; in breve, se vi parlo di Taylor Swift, potete essere tranquilli che mi sto sentendo i suoi album per intero mentre vi parlo, le fanfiction sugli One Direction le ho lette davvero, sui siti del Moige ci ho passato delle belle mattine, e la rivista Medjugorje – La presenza di Maria forse non la stringevo più in mano lì e allora, ma l’avevo comprata. E ci manca altro, scusate. Toccare quello di cui parliamo è importante.

Detto ciò, ci sono casi in cui diventa tutto superfluo. Casi come The Queen of Versailles.

Jackie Siegel è la moglie di un uomo ricco. Ha sposato in seconde nozze David Siegel, un magnate del time sharing con oltre trenta multiproprietà di lusso, da cui ha avuto sette figli; non è stato amore a prima vista, per lei, ma sembra sinceramente affezionata al marito oltre che allo stile di vita che lui le ha permesso di avere. Stanno insieme da vent’anni. Prima lei faceva la modella, è stata anche Mrs. Florida. Lo sposo David Siegel è miliardario, repubblicano, Uomo che si è Quasi Fatto da Solo e forte sostenitore di Bush jr. durante entrambe le campagne elettorali; della seconda non vuole parlare perché, dice, «il mio aiuto potrebbe non essere stato esattamente legale». Jackie è la sua terza moglie, l’ultima.

I Siegel cominciano a essere filmati dalla documentarista Lauren Greenfield mentre si stanno dedicando alla costruzione della loro nuova casa, Versailles, che una volta ultimata sarà l’abitazione privata più grande degli Stati Uniti. I lavori procedono allegramente. Loro la chiamano “Versailles” perchè è alla reggia che si sono ispirati, nel progetto e nelle intenzioni. Grandeur senza scuse? Ma no, ma no. A spingerli avanti è la convinzione che la Prima Casa Siegel, il palazzo dove vivono adesso, ormai è troppo piccolo per la famiglia e le sue esigenze. «We’re bursting at the seams””», dice Jackie, «siamo pieni come un uovo»; noi vediamo stanze su stanze usate come deposito di oggetti, e corridoi intasati di roba che nessuno sa dove mettere, mentre Versailles, a lavori ultimati al 60%, è già inzuppata di oggetti preziosi comprati da Jackie. Lei si fa fotografare in una stanza colma di lastre di marmo, dicendo «ecco, vedete? Questi sono cinque milioni di dollari in marmo».

I primi venti-trenta minuti di The Queen of Versailles sono tutti così. Ma chi si avvicina al documentario non lo fa perché vuole osservare gli ultra-ricchi da un buco della serratura più o meno obiettivo; lo fa perché sa che dopo arriva la mazzata, e che i soggetti in campo stanno per passarsela malissimo. Ricevere una punizione esemplare.

La mazzata, qui, è la crisi bancaria del 2008. L’impero di Siegel dipende da un sistema di prestiti e finanziamenti, e fin dal primo giorno si intuisce quanto profondi saranno gli effetti su un sistema dove sia i venditori sia i clienti utilizzano soldi-fantasma. Però i signori Siegel accettano di essere filmati, anche quando le cose vanno male. Le riprese del documentario durano tre anni. Anni in cui si chiudono gli uffici, si vendono gli aerei privati, e anche Versailles viene messa sul mercato – senza trovare compratori. Lo spettatore può gongolare della Giusta Punizione, e identificarsi nel motto let the schadenfreude commence, oppure può restare seduto e chiedersi quanti fondi verranno toccati prima dei titoli di coda. Compresi nel prezzo, comunque vada, animali domestici morti perché nessuno si ricorda di dare loro da mangiare (con i ragazzi che commentano «non sapevo che avevamo anche questo…»), pavimenti coperti di cacca di cane quando i Siegel cominciano a licenziare le donne delle pulizie, bambini tolti dalle scuole private e spediti alle pubbliche, discorsi del tipo «figlioli, dovete prepararvi al fatto che in vita vostra andrete all’università, forse dovrete lavorare…» e litigi furiosi sulle troppe luci lasciate accese in casa.

Morale: di fronte agli imprevisti, una vera famiglia può solo andare a pezzi. Perché due «tipiche storie di successo americano», marito e moglie in misura differente, non sono in grado di aderire davvero al modello narrativo del «ho preso una mazzata, ora mi rialzo»: nella realtà non ti rialzi più. E i Siegel ci provano, tutti e due, a restare nel personaggio, ma le soluzioni di entrambi sono inadeguate. Carrelli riempiti di giocattoli da discount, per lei, silenzi di tomba verso moglie e bambini, per lui.

Ora, cosa sarebbe stato il documentario senza la mazzata? Ci provo: «uno sguardo un po’ distaccato su un caso di eccesso occidentale, con una bulimia da acquisti che è la versione lussuosa delle sette paia di ciabatte di plastica di Overdressed». Sulla fascetta non ci stava, molto meglio «un’esilarante allegoria del Sogno Americano». Già. Ma l’arrivo della tragedia, in questo caso, ha solo reso più urgente il bisogno di prendere posizione da parte di chi racconta la storia. Trovare una specie di distanza, lontana dalla celebrazione acritica di una vita per pochissimi, ma anche dal taglio circense alla guardate un po’ questi fenomeni da baraccone (il classico format di Channel 4, oggi). E trovare una risposta alla domanda che scorre sotto tutti i progetti di questa natura: «perché tu documentarista non hai aiutato queste persone in evidente difficoltà, invece di restare attaccato alla cinepresa / alla macchina fotografica?».

Partiamo dall’ultima cosa. Io non ero così disturbata da quando ho visto Grey Gardens, ma lì potremmo discutere all’infinito sulla buona fede dei filmaker, che invece di chiamare il manicomio o prestare soldi alle derelitte protagoniste avevano continuato a riprenderle, e forse a stuzzicarle: dai, Little Edie, facci vedere quanto vi piove in casa, e rimettiti la pelliccetta mentre parli. Qui Lauren Greenfield cosa avrebbe potuto fare per aiutare Jackie, a parte regalarle cento milioni di dollari? Niente. Se mai, è la presenza costante di uno sguardo esterno a diventare una forma di sostegno per la regina di Versailles. Un’occasione preziosa di «dire la sua», offerta alla moglie di un uomo ricco, che continua a farsi ritoccare col Botox in pieno disastro perché è impreparata a una crisi di cui nessuno le ha mai spiegato nulla. Il marito da lei dice di non ricevere alcun aiuto; «è come avere una figlia in più», dice. «Sopravviveremo anche a questa», ribatte lei, «ho fatto tanti lavori umilianti prima di sposare David… Truccavo i cadaveri in una casa di riposo, prendevo… tre dollari e mezzo l’ora». Jackie non è sempre stata ricca. Non ci è nata, così, e sente il bisogno di tirare una linea tra il prima e il dopo.

D’altra parte, tu che guardi sei pur sempre di fronte a una donna adulta che razionalizza il proprio aver dato alla luce sette figli con questo argomento: «Pensavo che ne avrei avuto uno, due al massimo, perché vengo da una famiglia middle class, e non sapevo che esistessero le tate… Quando l’ho scoperto, ne ho fatti sette, di bambini. Danno così tanta gioia.» (Seguono interviste alle tate filippine che non vedono i loro figli da 20 anni.) Ti viene chiesto di prestare attenzione anche alla ragazza adolescente che vive con i Siegel, Jonquil, e che è stata una bambina povera prima di essere adottata dalla zia Jackie; questa ragazza dice che presto o tardi ci si abitua a un livello di ricchezza inumano, e si comincia a dare tutto per scontato. Lei prima dormiva per strada.

In certi casi, il concetto di «lieto fine» si traduce in «aspettare i titoli di coda per capire chi è morto». Qui il lieto fine arriva. Un po’, almeno. La fotografa d’avanguardia e la moglie dell’uomo ricco diventano affettuose conoscenti se non amiche per sempre: Jackie partecipa alla promozione del documentario, accompagnandolo al Sundance Festival, mentre suo marito fa causa per diffamazione a regista e produttori. Dice che il suo impero in realtà non era messo tanto male. Poi, sotto elezioni, spedisce ai dipendenti una mail con scritto «se vince Obama vi licenzio e mi ritiro ai Caraibi».