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Apocalypse fashion

Da Balenciaga al delirante show di Kanye West, dalla performance di Coperni alla sfilata di Valentino, mai come in questa stagione la moda si è trovata invischiata tra la necessità di fare spettacolo e quella di mostrare vestiti.

di Silvia Schirinzi

Kanye West/Ye apre lo show di Balenciaga Spring Summer 2023

Durante il periodo di riflessione causato dalla pandemia, molte delle discussioni avviate nel mondo della moda – quella sul senso delle sfilate nell’era digitale, ad esempio, o sulla sostenibilità di un’industria tra le più inquinanti e con i ritmi più veloci – sembravano giunte a un punto di svolta. Nelle Stories, nei video e negli articoli che abbiamo consumato in quei lunghi periodi di lockdown, sembrava esserci un reale consenso di base sul fatto che si dovesse fare di meno, tanto di meno, certamente di meglio. Non era ben chiaro come – ridurre la sovraesposizione o, banalmente, ridurre il numero di prodotti immesso sul mercato non sono mai state opzioni percorribili nella realtà di un settore dominato dalle conglomerate – e nessuno ha mai pensato che questa industria mastodontica si trasformasse in una Ong.

Nella migliore delle ipotesi, comunque, era plausibile aspettarsi che alcuni dei meccanismi e delle storture che la caratterizzano potessero evolversi in qualcosa di differente. Era interessante, stimolante anche, osservarne i cambiamenti in atto: nelle abitudini dei consumatori, prima di ogni cosa, e nel modo in cui i marchi si raccontano per dar vita al proprio immaginario. Alla luce del mese di sfilate appena conclusosi a Parigi, però, il dato più rilevante è che la moda oggi è sì la più pervasiva delle industrie creative, con la sua imbattibile capacità di amplificazione dei messaggi, ma allo stesso tempo rischia sempre più di rimanere travolta da quegli stessi messaggi.

La moda ha sempre parlato dei corpi che abitano il mondo e per questo motivo continuerà a occuparsi dei temi che quei corpi li animano, ma nelle operazioni di riscrittura delle loro identità, tutti i brand si trovano oggi a maneggiare una quantità di segni e significati talmente complessi che spesso appaiono inconciliabili. Nella nota che accompagnava lo show di Balenciaga, Demna ha voluto specificare che d’ora in poi non avrebbe più “spiegato” le sue collezioni: «Odio le scatole e le etichette e odio essere messo in una scatola ed etichettato», scrive, «La moda è un’arte visiva e tutto quello che le serve è essere vista attraverso gli occhi di qualcuno. Nel migliore dei casi non ha bisogno di una storia per essere venduta. O ti piace o non ti piace».

Così ha scelto di ambientare la sua sfilata in una montagna di fango e di farci camminare i modelli in mezzo: in un’apocalisse senza troppi dettagli ma certamente già successa, come ne La strada di Cormac McCarthy, gli abiti si sporcavano con l’incedere deciso di chi li indossava, sui volti ferite e tagli (finti) da rissa o combattimento, qualcuno addirittura trasportava un neonato (sempre finto) in fasce a indicare, penso, che la vita va avanti, che gli umani resistono e che nonostante tutto avranno sempre voglia di denim (quanto denim), borse orsacchiotto distrutte, borse incorporate alla manica o borse sacchetto delle patatine Lay’s (le stesse con cui Demna era stato fotografato qualche mese fa e che ora diventano una collaborazione) e persino abiti da sera e bustini da uomo. La parata era stata introdotta da Kanye West/Ye in assetto da guerra e si è conclusa con Minttu Vesala in un abito fatto di Neo Cagole riciclate: «Il set della sfilata è una metafora della ricerca della verità e dello stare con i piedi per terra», conclude Demna nel suo messaggio.

Balenciaga ci piace perché toccando temi sociali importanti – la crisi climatica, la guerra, il significato stesso di lusso – «ci permette di comprare la nostra stessa wokeness», come si legge su 1Granary? Può essere, ma è vero anche che la moda ha sempre raccontato il mondo attraverso la sua spietata superficialità, che può avere infinite forme, siamo noi che abbiamo iniziato a chiederle troppo. Lo ha spiegato bene Dal Chodha su i-D, in un articolo intitolato “Why we need to stop looking to fashion to solve our morbid reality”: «La cultura della moda – e più in generale la fissazione materiale con valori effimeri – diventa tanto più cruciale nei momenti di incertezza perché ci ricorda la nostra stessa umanità. La moda è sempre stata un paradiso da miliardi di dollari per tutti i disadattati, un’instancabile fantasia fatta di gloriosa ironia. Eppure, nella nostra disperazione di considerare ogni singola cosa che produce come apertamente politica, spesso perdiamo di vista i suoi limiti carnali».

Valentino Spring Summer 2023

Anche Pierpaolo Piccioli, che da Valentino ha avviato una titanica operazione di ri-significazione dei codici del marchio (ne parla nell’intervista sul nuovo Rivista Studio), è partito dalla necessità di «sintesi consapevole», simboleggiata dalla piccola scatola nera (e vuota) dell’invito, dopo il rosa assoluto della scorsa stagione. La collezione, uno studio delle tonalità di nudo su pelli differenti, partiva dal logo con la V, ripetuto ossessivamente anche sui volti (in quest’occasione il marchio ha presentato Valentino Toile Iconographe, una celebrazione del VLogo per la prima volta sia per il pret-à-porter che gli accessori Valentino Garavani), fino a stemperarsi in bodysuit che diventavano abiti, si alternavano a gonne e completi formali e, come sempre fa Piccioli, utilizzavano elementi couture nel guardaroba quotidiano. Nel cast c’erano, volutamente, tante modelle non professioniste e durante lo show più di una ha avuto problemi con le scarpe, anche perché la passerella era lunga e si concludeva in strada, cosicché anche il pubblico fuori potesse godere del momento. Un percorso più breve avrebbe beneficiato allo show, ma probabilmente questo è il prezzo di mettere tutti gli ospiti in un’unica prima fila e cercare di aprire lo spettacolo anche a chi sta fuori. Quante cose ci aspettiamo da una singola sfilata?

Non sono mancate poi le collezioni degne di nota, dall’escapismo surrealista di Jonathan Anderson da Loewe all’eleganza concreta di The Row, dalle superdonne di Anthony Vaccarello da Saint Laurent al sempre impeccabile Dries Van Noten e all’altrettanto longevo Rick Owens, designer che sanno a chi parlano e chi vestono, fino a Miu Miu, dove Miuccia Prada, che riconosce come questo non sia «un momento facile per creare moda», ha voluto concentrarsi sulla funzionalità degli abiti: non a caso le tasche erano enfatizzate, anche sulle ormai mitologiche minigonne, e le decorazioni tutte affidate alla lavorazione dei materiali, dal nylon al cashmere, invece che ad applicazioni esterne. «La moda può avere un significato e una ragione al di là dell’utilità: fungere da decoro, attrarre, è di per sé un significato. Ma è importante che la moda funzioni: io non sono anti lusso, sono anti ostentazione». 

Un memo che non dev’essere arrivato a certi altri, a cominciare da Coperni, che con la trovata del vestito spruzzato su Bella Hadid, regina indiscussa di questo mese di sfilate, ha ottenuto una copertura mediatica che la collezione, dimenticabilissima, certo non meritava. E non per il richiamo facile ad Alexander McQueen tra gli altri (le due performance sono profondamente diverse e ben venga andare a scomodare i mostri sacri), quanto perché l’unico motivo per cui l’operazione è riuscita era, appunto, Bella Hadid. Alla viralità si sacrifica tutto, insomma, nella continua lotta per la rilevanza che è diventata la settimana della moda e la moda stessa, come dimostra bene il caso Kanye West.

I dettagli dell’imbarazzante show dello scorso lunedì sono ormai noti, così come il tentativo fallito di sovvertire lo slogan dei suprematisti bianchi “White Lives Matter”. Mentre scrivo continua la sua lotta via Instagram tra screenshot, slogan su sfondo nero e attacchi ad personam, prima alla stylist di Vogue Us Gabriella Karefa-Johnson, alla quale almeno sembra aver chiesto scusa, e poi a Bernard Arnault di Lvmh, colpevole di non aver finanziato il suo brand e di sabotarlo. Il ritratto migliore del personaggio lo ha scritto  nel 2018 Ta-Nehisi Coates sull’Atlantic, all’indomani della svolta trumpiana, in cui analizza il progressivo allontanamento di Kanye dal suo essere un nero americano, come Michael Jackson prima di lui. È una lettura ancora valida e chi ricorda lo show di Yeezy del settembre 2016 a New York sa che Ye non è nuovo a disastri come quello andato in scena a Parigi, così come siamo ormai tristemente abituati ai suoi crolli nervosi nello spazio pubblico. Forse era davvero meglio parlare solo di vestiti.