Cultura | Dal numero

Valentino secondo Pierpaolo Piccioli

Dal numero di Rivista Studio in edicola, intervista con il Direttore creativo di Valentino su come ha saputo riscrivere l’identità dello storico marchio per portarla nel presente e immaginarne il futuro.

di Silvia Schirinzi

Foto di Marta Marinotti

Dopo ventitré anni, ho voluto immaginare questa sfilata come “The Beginning”, l’inizio, qualcosa che contenesse sì la memoria del passato, ma che, in realtà, mettesse le premesse per un futuro. Perché comunque “The Beginning” ha quel senso lì, ogni inizio ha sempre al suo interno una certa idea di oblio, di qualcosa che devi dimenticare. Inizi senza rete, senza mappe, ma sempre in qualche modo cosciente di quello che è stato il passato. Io non volevo celebrare il passato, né fare un omaggio, volevo semmai instaurare con Valentino una conversazione ideale, una conversazione rispetto a un sistema di segni e codici che possono essere sempre gli stessi, ma che possono cambiare significato. Come diceva McLuhan, il segno e il significato coincidono. Quello è il potere delle immagini. Quando allo stesso segno si dà un significato diverso, secondo me, cambia il risultato». Incontro Pierpaolo Piccioli nell’atelier di piazza Mignanelli il giorno dopo il grande show all’aperto di venerdì 8 luglio, quando Valentino è tornato a Roma, sulla scalinata di Trinità dei Monti, riprendendo il formato pop di Donna sotto le stelle, con una sfilata spettacolare e piena di emotività, che si è conclusa con tutto il team del marchio in passerella, che la collezione Haute Couture Autunno Inverno 2022 l’ha realizzata.

Non è la prima volta che Piccioli, che potremmo definire senza paura di essere contraddetti un antiretorico, mette il suo team al centro della narrazione che ha costruito negli ultimi sei anni in cui è stato il solo Direttore artistico di Valentino. Nel marchio ci ha passato ventitré anni della sua vita e ritornare a Roma, la sua città d’elezione [è originario di Nettuno], dove ha studiato e avviato la sua carriera, ha un significato simbolico e personale. Per i tanti motivi che si possono immaginare, ma soprattutto perché Roma è un capitolo fondamentale in quella conversazione ideale da lui instaurata con il fondatore del marchio e, più in generale, con il disegno che ha costruito da quando Valentino significa Pierpaolo Piccioli. Rileggendo le sue interviste degli ultimi anni, si ha la conferma di una chiarezza di pensiero – e quindi di una coerenza di percorso – che lo ha accompagnato sin dal suo debutto solista. Per inquadrare al meglio questa operazione di senso, bisognerebbe però sempre tenere a mente il territorio in cui Piccioli si muove, e cioè quello di Valentino, probabilmente uno dei marchi più elitari ed esteticamente definiti della moda italiana e della moda tutta. Valentino è sinonimo di un colore, che Piccioli ha voluto cambiare, o meglio evolvere, introducendo il Pink PP della collezione prêt-à-porter Autunno Inverno 2022; Valentino è nei palazzi di due città, Roma e Parigi, entrambe città che Piccioli ha sempre abitato, ma spesso allontanandosi da quei palazzi e scendendo invece nelle strade adiacenti al Carreau du Temple, un mercato coperto nel terzo arrondissement, con la collezione “Rendez vous” per la Primavera Estate 2022 oppure sfilando all’ex Fonderia Macchi della Bovisa e al Piccolo Teatro a Milano (rispettivamente le collezioni prêt-à-porter per la Primavera Estate e per l’Autunno Inverno 2021); Valentino è una donna ben delineata nell’immaginario comune, tant’è che Donna Tartt ne Il cardellino ha usato l’espressione «all Valentino-ed up» per evocarne l’immagine, ma Piccioli ha usato quelle parole per una speciale campagna pubblicitaria, The Narratives, in cui i vestiti proprio non c’erano ma c’erano le parole di scrittori e scrittrici da tutto il mondo. E no, non parlavano di vestiti. Trinità dei Monti, dicevamo, e Donna sotto le stelle nel 1992, quando la collezione di alta moda di Valentino seguiva l’esibizione di Annie Lennox e Milly Carlucci era la madrina della serata.

L’8 luglio 2022, trent’anni dopo, Piccioli ha voluto perciò utilizzare quel palcoscenico, che è allo stesso tempo un monumento storico celebre in tutto il mondo come simbolo dell’italianità e uno specifico momento di cultura pop per gli italiani stessi, ovvero il programma che dal 1986 ha dato uno spazio alla moda come spettacolo per tutti, per di più in prima serata, cosa mai più successa nella tv del nostro Paese. «Lavorando a Roma, pensando a come realizzare questo show a Roma, sapevo bene che esisteva una memoria collettiva rispetto a tutte quelle cose», racconta Piccioli, «Quello era un periodo storico molto particolare e la moda era un pezzo importante di quel lifestyle, la favola dei Castelli Carlini, delle donne bionde con gli occhi azzurri… Era un immaginario da spot televisivo, che poi è esattamente quello che è il lifestyle, ovvero un gruppo di persone che condividono una serie di superfici, una serie di oggetti. Era una fotografia. Oggi il palazzo è lo stesso [quello dell’atelier di Valentino, dove ha luogo la nostra intervista e dove sono stati scattati i ritratti che vedete in questo pezzo e sul numero 52 di Rivista Studio, in edicola] ed è metaforico aver iniziato la sfilata da via Gregoriana, il primo indirizzo di Valentino, così come fare il giro di piazza di Spagna e tornare dentro all’atelier, dove ogni giorno noi entriamo per lavorare. A fare la differenza è qualcosa che va oltre i vestiti. La moda, solitamente, è sempre andata abbastanza in continuità con il passato, non ho rotto o tagliato via i segni, non ho usato i papaveri invece delle rose. Quindi il senso del cambiare quella fotografia stava nelle persone che quei vestiti li indossavano, erano le persone che avrebbero cambiato la prospettiva. Per me era importante che la sfilata fosse una sorta di manifesto del momento storico che stavamo vivendo, perché come designer sento la responsabilità di testimoniare quello che stiamo vivendo, e allo stesso tempo uso la moda per raccontarmi anche come persona, per dire quello che penso, perché credo di essere più rilevante quando lo faccio attraverso la moda che quando utilizzo le parole».

Foto di Marta Marinotti

Un manifesto fatto di persone che negli anni Ottanta e Novanta non avrebbero sfilato su nessuna passerella, non perché non fossero belle, ma perché la bellezza è stata per lungo tempo di un solo tipo, almeno nei codici della moda. Oggi però la moda è qualcos’altro, «è diventata pop, cosa che prima non era» dice Piccioli, e i centodue look che hanno sfilato a Roma erano indossati da uomini e donne di tutte le etnie, background culturali e identità sessuali che davano un nuovo significato, appunto, alla fotografia di Valentino, ridisegnando la bellezza contemporanea. Questa cosa di fotografare la bellezza è poi il compito della moda, quello in cui si coagula tutta la sua superficialità profonda, e negli ultimi anni ne abbiamo visti e sentiti di manifesti di inclusività e supposte aperture, ma al di là della retorica e delle intenzioni di marketing è il lavoro di un designer, e la sua capacità di costruire intorno al corpo umano tanto gli abiti quanto gli immaginari, a fare la differenza. «Io non ho inventato niente, era tutto lì. Però vedere su un monumento italiano ragazze nere, ragazze asiatiche, un’idea di fluidità di genere, con proporzioni di corpi diversi, età diverse, quindi non la bellezza “nei canoni” ma persone che trent’anni fa non ci sarebbero mai potute essere se non come elemento “esotico”, è un grande vaffanculo a Salvini e a tutti gli antidemocratici, all’ondata di xenofobia che viviamo. In maniera sottile, perché è attraverso la bellezza, che io definisco insinuante, che un’idea diventa assertiva. C’era un ragazzo con un vestito romantico ed è un’immagine così bella… quell’immagine si insinua e diventa una cosa normale, condivisa».

E non è un caso che Piccioli, per superare questi limiti, abbia scelto proprio il territorio difficilissimo della couture, con cui ha contaminato più e più volte anche le sue collezioni prêt-à-porter e viceversa, e dove ha trovato tutti gli elementi necessari alla sua operazione di ri-significazione. Un territorio che, oltre a essere il luogo prediletto dell’identità di Valentino come Maison, è anche quello più assoluto: sono in pochissimi, infatti, a poterne godere ma anche in pochissimi a saperla realizzare. «L’alta moda è, in teoria, il territorio di sperimentazione più alto, quindi per un designer è un privilegio poterci lavorare, perché lì sei libero di creare. È anche un manifesto dell’ora e adesso ma ha in sé il principio del senza tempo, perché è qualcosa di così prezioso che dovrebbe rimanere, essere conservata. Dicevamo che la moda può cambiare il gusto e la percezione delle persone perché è pop, perché non è più esclusiva. È vero che l’alta moda nello specifico è appannaggio di pochi dal punto di vista dell’acquisto, ma anche l’arte lo è. Moltissime persone si mettono in fila per andare in una galleria a vedere una mostra, ma non tutti possono comprarla. Non si è in grado di apprezzare un’opera d’arte solo se si può acquistarla e vederla ogni mattina quando ci si sveglia. Secondo me, anche l’alta moda ha questa potenza, è un linguaggio, così come lo è l’arte. Poi io ci tengo sempre a dirlo e lo ripeto sempre a me stesso, l’alta moda non è arte, perché il suo proposito è diverso. Potremmo dire che il proposito dell’arte dovrebbe essere l’urgenza espressiva di un artista che testimonia il proprio tempo e che potrebbe guidare un cambiamento. La moda, invece, si relativizza a un corpo. Lo scopo della moda è perciò diverso da quello dell’arte, ma anche la moda ha un suo linguaggio espressivo e può essere un racconto personale così come la testimonianza di quello che sta succedendo. In questo momento storico può forse riuscirci anche più dell’arte, perché la moda è pervasiva, arriva di più e a più persone. Io cerco di scardinare l’esclusività dell’alta moda dal concetto di ricchezza e lusso, che sono cose che non mi interessano, ma usando quel linguaggio come un detonatore». Nuove fotografie, appunto.

Foto di Marta Marinotti

Quando gli chiedo, a proposito di immaginari, che cosa lo attrae, lo ispira o al contrario lo repelle, mi risponde dicendo che «spesso, le cose brutte io le trovo interessanti, perché mi fanno riflettere. In fondo quello che mi ispira di più sono le persone, le storie delle persone, le cose piccole mi ispirano forse molto di più rispetto a quelle grandi. Poi è naturale che reagisco a qualsiasi cosa mi succeda intorno, ma mi interessa molto capire la mia reazione rispetto a quello che ho visto o vissuto e a come può cambiare da un giorno all’altro, da un mese all’altro, perché io magari sono diverso, mi sento diversamente, di fronte alla stessa cosa. Mi interessa capire come sono cambiato ed è spesso così anche di fronte agli eventi negativi di cui abbiamo parlato. Per quanto riguarda la moda, pensa al vintage: guardando un Balenciaga d’archivio, che vuoi fare? Non può essere d’ispirazione, al massimo lo copi, perché è già perfetto. Quindi è più interessante, certe volte, vedere delle cose brutte, perché è come se ci fossero delle cose che hanno ancora delle potenzialità espressive. E questo vale un po’ per tutto. Poi mi piace il cinema, mi piacciono le serie tv, mi piacciono un sacco di cose, però non saprei catalogarle. Io sono abbastanza onnivoro, anche un po’ senza troppa coerenza». Essere onnivori, allora, nel senso di farsi investire e coinvolgere dal mondo, ma anche comprendere l’importanza dei limiti, per poterseli, eventualmente, lasciare alle spalle. È quello che Piccioli insegna agli studenti che vorrebbero fare il suo mestiere, gli stessi che ha invitato allo show di Roma, mettendoli davanti a quelle transenne da dove lui quello spettacolo l’aveva visto da ragazzo: «Secondo me, tentare di essere cool è la cosa più da sfigati che ci possa essere, o perlomeno volerlo diventare a tutti i costi. Quando andavo a Parigi le prime volte, avevo ventuno anni, ero lo sfigato di turno. Ovviamente, quelli fighi erano quelli di Milano. Poi c’erano quelli che già vivevano a Parigi, non ne parliamo proprio. La mia prima volta a Première Vision [una fiera di tessuti, nda] mi sembrava un posto pazzesco, c’erano metri e metri di tessuti, e quindi di possibilità. E quelli fighi dicevano: “Quest’anno non c’è niente!”. E io pensavo: “Ma chissà che cos’hanno in testa questi che non trovano niente di interessante!”. Perché a me invece piaceva tutto. Poi ho capito che anche quello era un modo di porsi, perché con un cordone bianco in realtà puoi farci il mondo, anzi arrivi a capire che i limiti sono in realtà possibilità e che la migliore libertà creativa si esprime proprio quando i limiti devi superarli, è lì che si apre un territorio di opportunità».

Aiuta essere Pierpaolo Piccioli, anche, farsi molte domande e trovare altrettante risposte, fino a raggiungere una sintesi come quella della collezione che ha sfilato a Roma, che ben rappresentava quella chiarezza di pensiero che rischiara il mondo ben più della tanto decantata profondità, parafrasando Arthur Schnitzler. In mezzo ai turisti in una piazza caotica e bellissima, un’insolita serata fresca nel bel mezzo di un’estate italiana infuocata, con le celebrity in prima fila e i ragazzi davanti e dietro transenne a fare foto: «all Valentino-ed up», direbbe Tartt, quello di sicuro non è cambiato.