Attualità | Coronavirus

Nessuno accetterebbe un nuovo lockdown

Anche se le cose dovessero peggiorare.

di Letizia Muratori

Turisti in una Piazza San Marco semi deserta, Venezia, 12 giugno 2020. Foto di ANDREA PATTARO/AFP via Getty Images

’Rona, così chiamano il Coronavirus in quell’angolo di mondo dove senza un nomignolo non sei nessuno. ’Rona circola negli Stati Uniti come fosse una persona o l’ennesimo uragano. Anche da noi non è sparito ma, quando attacca, pare faccia meno danni di prima. È mutato? Soffre il caldo? Tornerà spietato in autunno? Com’è che i nuovi contagi non calano e hanno un andamento costante? Che errore stiamo facendo? Ci costerà caro? Si potrebbe andare avanti all’infinito con le previsioni, i dubbi e le opinioni dei vari esperti, ormai divisi in due bande: i rassicuranti e i guastafeste. Ma è legittimo il sospetto che ’Rona, al di là delle sue possibili evoluzioni, faccia un po’ meno paura di prima. O meglio, aleggia una minaccia che ha scalzato dal podio la paura di ammalarsi: tornare in lockdown.

«Piuttosto la morte», mi ha detto una vecchia carogna che si aggira per il quartiere armata di bastone col pomo d’avorio. Ha novant’anni, ma vi assicuro che ci tiene parecchio alla pelle. All’eventualità di un nuovo lockdown, perfino lei, sceglierebbe la morte. Tutti scelgono l’ignoto, se l’alternativa è ripiombare in un incubo conosciuto. Intorno ai piccoli esercizi commerciali, che venivano presi di mira durante i giorni duri dell’isolamento, le file hanno lasciato un solco intollerabile. L’occhio cade su angoli e scorci di una trincea spettrale in cui è impensabile poter rientrare. A novant’anni come a trenta, l’occhio cade proprio dove la mente, pronta, rimuove. 

Quando si parla di lockdown, però, non bisognerebbe dimenticare che se per la maggior parte delle persone è stato una questione di file e di infinite seccature, c’è chi si è effettivamente ammalato e chi ha perso non solo un lavoro, ma qualcuno, a volte più di una persona cara, chi non si è potuto curare d’altro e chi ha subito spaventose violenze domestiche. Mi piacerebbe che queste voci minoritarie e diversamente coinvolte avessero più peso nel discorso pubblico di quanto ne hanno avuto finora. Non penso sia stato censurato il loro punto di vista, grazie a dio sono ancora immune al fascino delle manovre occulte e qualche giornale gli ha pure dato spazio, ma è probabile che i diversamente coinvolti – non c’è un filo di sarcasmo in questo mio eccesso di correttezza – per tante ragioni non siano ancora pronti a testimoniare in quel modo compatto che fa opinione. Noi sani, bene o male, abbiamo elaborato un racconto collettivo di quarantena, anche perché ne abbiamo avuto il tempo, ma dobbiamo essere attenti e pronti ad ascoltare, quando si configurerà, quello delle persone danneggiate. Giulio Giorello è una di queste. Qualche giorno prima di morire, di nuovo a casa sua dopo un lungo ricovero ospedaliero, esperienza di per sé alienante, Giorello è intervenuto sul Corriere della Sera interrogandosi sui rischi di arrivare a una sorta di “stato medico” che, in nome della necessità, vada ben oltre il rispetto del paziente, senza un disegno prestabilito ma, appunto, come una conseguenza perversa e non voluta di uno stato di necessità. Giorello ci ha lasciato in eredità questo timore, l’incipit di quel racconto alternativo e minoritario che deve ancora trovare una forma. Comportarsi come se non esistesse il rischio di affidarsi a un sistema involontariamente autoritario è solo una delle tante lacune che ha chi non ha passato, per sua fortuna, mesi in ospedale. Cosa rischiamo ammalandoci? Non solo la morte, l’ignoto che è sempre meglio dell’incubo conosciuto. Prima ci sono tante altre cosette da evitare.

Ma la vita è ripartita e non si interroga troppo, va avanti come può e guai a chi la tocca. Facciamo conto che questa vita ripartita, data per inviolabile, sia invece un set: il luogo meno protetto e più esposto agli assalti del caso che esista. A che punto sono le riprese? Tanto per dire, gli italiani che se lo possono permettere hanno invaso Venezia e i Musei Vaticani: quando ci ricapiterà di vedere certe meraviglie senza le solite masse di turisti? Tra qualche giorno viaggiare all’interno dei nostri confini nazionali farà lo stesso effetto che ci faceva viaggiare all’estero: italiani, e ancora italiani, dappertutto. Starò invecchiando, ma trovo commovente questo tornare alle solite certezze, prendendo però la strada più lunga e aggirando gli ostacoli. Superata la fase dei panificatori, ci toccherà dare l’addio anche a quella da turisti del Grand Tour. Pur essendomi illanguidita di fronte alle foto di calli deserte e di cupole di San Pietro riprese da angoli insoliti, pur tifando per il ritorno ottimista alla vita, non posso evitare di chiedermi ancora cosa è successo davvero in quelle corsie, o nelle case delle persone ammalate e abbandonate a loro stesse. Cosa sta ancora accadendo, e cosa potrebbe accadere. A naso, sembrerebbe tutto un altro film, che verrà fuori col tempo. Un dramma con protagonisti, in cui noialtri, i fortunati, ci aggiriamo, in fila o in gita, come comparse.   

Siamo sicuri che sia questo il nostro ruolo, di corredo al nucleo di una vicenda ancora sommersa che ci ha risparmiati? Fase dopo fase, non ci resta che aspettare ’Rona, l’uragano che potrebbe anche spomparsi in corsa? I nostri comportamenti individuali non contano? La prevenzione è inutile? «Mah, tanto questo qua fa come gli pare, alla fine nessuno ci capisce niente», ha commentato di recente un mio amico. Questo qua è la versione romana di ’Rona: quando iniziamo a dare nomignoli e una certa personalità alle minacce naturali, vuol dire che ci stiamo adattando alla loro presenza. In teoria è il virus che dovrebbe adattarsi a noi, eppure sta accadendo il contrario. Storicamente non è affatto una novità. Come finiscono le grandi epidemie? In due modi, che non si escludono a vicenda. C’è una fine medico clinica, e accade quando un virus di fatto sparisce o viene neutralizzato dal vaccino, dall’efficacia dei farmaci. E poi c’è una fine sociale che in molti casi anticipa l’altra: succede che ci si abitua al rischio di ammalarsi, e si smette di avere paura perché bisogna pur tornare a vivere.  L’isolamento forzato non è una forma di vita accettabile, finora non lo è mai stato, non c’è bisogno di sentirsi vittime di un perfido complotto ai vertici per rifiutarlo. Sottrarsi a un regime di reclusioni reiterate è un riflesso immediato quanto tirar via la mano dal fuoco o schivare uno schiaffo.

Qualche tempo fa il New York Times ha intervistato alcuni storici che analizzavano come questa fine a due riprese delle epidemie si verifichi da sempre. È successo durante le varie ondate di peste, durante la Spagnola: all’inizio ci si rinchiude, poi arriva l’adattamento che spesso ha la forma di una gigantesca rimozione e si va in giro, come niente fosse, fatalisti e goderecci, giocando d’azzardo con il destino. Siamo già in odore di fine sociale del Coronavirus? Qualche segnale c’è. In Arizona, Texas e Florida nonostante la crescita dei contagi di stay-at-home non ne vogliono più sentir parlare. Non è un atteggiamento razionale, somiglia al rifiuto ottuso dei bebè quando serrano le labbra sul seggiolone, inutile mettersi a fare le mamme e spingere quel maledetto cucchiaino di pappa. A proposito di alimentazione, la questione economica, lo spauracchio della morte per fame, è la maschera politica di un terrore ancora più viscerale: finire rinchiusi. In Oregon, stato che pure non se la passa tanto bene, non si capisce da dove venga la nuova ondata contagi, apparentemente non sono legati alle riaperture, né alle manifestazioni per Floyd. L’origine della diffusione è misteriosa, ma secondo le autorità i cittadini non rifiuterebbero a priori l’idea di stare a casa per salvaguardarsi. Un repubblicano che conosco, del genere tradizionale, non un trumpiano, ha commentato: «Non mi sorprende, lì siamo a Portlandia». Una battuta, certo, ma è significativa di come la sola idea di rinchiudersi a scopo preventivo sia ormai un’ipotesi grottesca e comica quanto mettersi a fare cuscini all’uncinetto per rendere homy uno spaventoso B&B, tanto per citare uno degli episodi più esilaranti della serie.

Tornando in Italia, l’avversione categorica all’isolamento è molto diffusa, e non vorrei essere nei panni di chi decide qualora si trovasse nelle condizioni di imporre nuove restrizioni, la reazione dei cittadini potrebbe non essere scontata, tantomeno docile. Ma quando inizia la fine sociale delle epidemie è difficile che si torni indietro anche da un punto di vista politico e amministrativo. Infine mi e vi chiedo: se, in caso di seconde ondate, non fossimo più disposti a tornare in lockdown, moriranno parecchie persone, in quel modo alienante che ci ha lasciato intravedere Giorello, allora in cosa aveva torto, mettiamo, un Boris Johnson quando spingeva per l’immunità di gregge? Non è questione di torto o di ragione, ma di precipitoso cinismo e di tempi sbagliati. Una grande epidemia è un organismo sociale vivente, cui diamo perfino nomignoli, e non la si può dichiarare finita quando è appena nata e ancora deve farsi strada nella testa delle persone. Vedremo quando e se ’Rona, pur continuando a circolare in piena salute, smetterà davvero di farci paura. Come tutti, mi auguro che si arrivi prima alla dichiarazione di una fine medico clinica, che il virus scompaia di fatto e non ci obblighi a vivere in regime di azzardo e rimozione. Nel frattempo, così, fosse solo per un senso di equità, mettetevi la mascherina di fronte a chi vi sta rendendo un servizio e la porta per obbligo. Non si fa bella figura a fare i padroni, paganti e smascherati, di fronte ai servitori imbavagliati.