Attualità | Coronavirus

Perché la fase 3 è una minaccia per le donne

Da qualsiasi angolazione la si osservi, la condizione femminile appare in regressione. Il problema non è l’emergenza, ma come ci siamo arrivati.

di Letizia Muratori

Kate Winslet nell'adattamento di Sam Mendes di Revolutionary Road (2008)

Non sono brava a fare la femmina, tutte le volte che sento parlare di sangue e del misterioso legame che ci lega alla nascita e alla morte, faccio un passo indietro, mi scanso intimidita dal gruppo. Del resto non sono madre, ma ultimamente ho ricordato spesso a mio padre di lavarsi le mani, forse qualcosa vale. Non sono una vera amica, però mi preoccupo se una delle poche che ho passa tutti i pomeriggi davanti a Oceania con sua figlia. A dire la verità, non mi sento nemmeno una donna. Lo sono, ma non è che questa essenza mi invii segnali che non siano seccature fisiologiche. Non faccio che chiedere a una ragazza transessuale che conosco cosa significhi: “sentirsi donna”, quando non intrattieni legami diretti con il sangue eccetera eccetera. Tra le varie risposte che mi ha dato, mi sono riconosciuta nella più ovvia: “non sentirsi un uomo”. Non ci piove, non solo non mi sono mai sentita un uomo, ma tutte le volte che un uomo mi dà un consiglio io faccio il contrario, tanto per non sbagliare.

Dunque ho le carte in regola per sentirmi minacciata dalla Fase 3, che non si presenta come una grande alleata delle femmine, delle mamme, delle amiche, delle donne. Forse le nonne, ecco, forse loro potrebbero trarne qualche vantaggio e godersi, finalmente, la vita che gli resta, sottraendosi a quel caporalato familiare che le ha ridotte baby-sitter a titolo gratuito. Ma appena si capirà cosa ne sarà di noi, come, quando, e se si ripresenterà il virus, allora anche le nonne torneranno o all’isolamento o alla catena. Da qualsiasi angolazione la si osservi, la condizione femminile appare in regressione. Il problema non è l’emergenza, ma come ci si è arrivati. L’impreparazione vale per tutto, e la questione delle donne ne è parte.

A proposito di regressioni femminili, già in fase 1 molte di noi avevano preso a vagheggiare sogni di liberazione, un po’ infantili, che nemmeno negli anni Cinquanta. Forse qualcuno ricorderà come è iniziata l’intera faccenda, a livello “iconico”: è apparsa una scopa, eretta, che si teneva su da sola. L’asse della Terra, altro che piaga biblica, lo scorso 27 febbraio si è scomodato a predirci il futuro. Un futuro prossimo, visto che di lì a qualche settimana ci saremmo ritrovate tutte con quella maledetta scopa in mano, inchiodate alle faccende domestiche. È iniziata così, come un presagio stregato, ed è finita che ci lavavamo i capelli con lo stesso accanimento con cui avevamo affrontato i pavimenti. Non c’era più tempo per noi stesse, ce lo rubavano tutto i “marmocchi” da sfamare e istruire, e i “maritini” da distrarre, quando tornavano nervosi dal lavoro, allentandosi idealmente il nodo della cravatta. Di fatto quelli tornavano in salotto dalla stanza accanto.

Da qualsiasi angolazione lo si osservi, il futuro al femminile appare in regressione. Il problema non è l’emergenza, ma come ci si è arrivati. L’impreparazione vale per tutto, e la questione delle donne ne è parte.

Quando mai, prima, avevamo pensato a nostro figlio come a un marmocchio? Chi credeva d’avere accanto un maritino incravattato? Eppure siamo precipitate dentro questa specie di film in costume in cui fumarsi una sigaretta alla finestra era diventato un lusso. Raccattando giocattoli e calzini, ci chiedevamo, ma sul serio, come sarebbe stata la nostra vita se non l’avessimo tradita infilandoci in quella trappola. In meno di tre settimane ci eravamo calate nei panni di April, l’eroina di quel libro straordinario che è Revolutionary Road, trovandoli per niente datati. C’era anche chi sognava di ripartire un bel giorno da sola, dal niente, dal pollo fritto, come Mildred Pierce. Altro capolavoro. Si fa presto a sorridere di questa specie di allucinazione vintage che ha stregato alcune donne in fase 1, ma in realtà non era così semplice esserne immuni, né venirne fuori, perché l’allucinazione aveva qualche fondamento di realtà, storico.

Se siamo state capaci di tornate indietro, di regredire a livelli coercitivi di casalinghitudine in un attimo, di ancorarci a quella scopa, sognandoci sopra con lo sguardo rivolto alla finestra, quando ci veniva chiesto solo di stare a casa, come a tutti, per ragioni preventive, il virus non è la causa, ma il sintomo di una malattia sociale che già esisteva. Almeno un paio di generazioni di donne hanno commesso l’errore di dare per scontata non tanto la parità tra i sessi, ma la loro disparità, sottovalutandone i rischi. Avendo vissuto in tempi di pace, in paesi occidentali ricchi, la disparità era una cosa che ti rodeva, certo, la combattevi, ci scendevi pure in piazza, ma non ti cambiava la vita. In tempi diversi, di conflitto e di crisi, essere in posizione di svantaggio, invece, può fare la differenza. Se si deve restare a casa – dilemma tra l’altro inedito – a chi tocca?

Niente di personale, né di sessista, ma stavolta non si può tirare a sorte, perché non si gioca alla pari: in una coppia si sacrifica chi guadagna meno. Si sacrifica – verbo chiave della fase 3 – chi ci rimette meno, e sembra abbia lavorato fino a quel momento quasi per gioco, per hobby. All’improvviso ci stanno trattando come facessimo, tutte, solo torte glassate e gioielli per campare. Beni superflui, di cui non c’è bisogno, quando il nostro lavoro, utile, è uno solo: portare avanti la famiglia.

Avendo vissuto in tempi di pace, in paesi occidentali ricchi, la disparità era una cosa che ti rodeva, certo, la combattevi, ci scendevi pure in piazza, ma non ti cambiava la vita. In tempi diversi, di conflitto e di crisi, essere in posizione di svantaggio, invece, può fare la differenza.

Già, la famiglia, questo baluardo intramontabile del Mediterraneo, che in Italia ha sostituito l’intero sistema dei servizi, è la versione buona della mafia. Proprio in quest’ottica, ci è sembrato normale sfruttare i nonni fino all’altro ieri: tutti baby-sitter. Normale che una mamma si barcameni, faccia “l’equilibrista” e lo prenda come un complimento quando, con tutto il rispetto per la categoria, le si sta dando del fenomeno da circo. Questo genere di servizi, acrobatici, chi li paga? Ovviamente nessuno, il sistema si basa da sempre sul favore. E forse non è giusto definire moglie, madre o nonna, colei che di fatto è una specie di compare. Stando al dizionario Treccani: «Figura indispensabile in qualche faccenda».

La fase 3, al momento, ci sorprenderebbe impreparate a portare con disinvoltura la coppola in testa, sedute a cavalcioni di una sedia di paglia. Compari, figure indispensabili, perfino alla pari, peccato che abbiano perso il lavoro, l’indipendenza su cui facevano conto in tempi tranquilli, di pace, quando la disparità indigna, ma non ti cambia la vita. E con che animo, mi chiedo, le donne in ritirata faranno favori ai loro cari? L’affetto, l’amore, dovrebbero avere a che fare con il favore? Tra compari, sì. Questa fase 3 rischia di metterci di un tale cattivo umore che è meglio tirar fuori un po’ di sana durezza adesso, finché siamo ancora in tempo. Bisogna evitare vagheggiamenti e allucinazioni vintage, fuggire come la peste quei petulanti battibecchi contabili su chi fa e chi disfa i letti. In questo passaggio, cruciale, non dobbiamo fare niente: solo essere più chiare.

Se, ad esempio, quel somaro di nostro figlio non ha studiato perché credeva d’avere la promozione in tasca, la responsabilità non è solo di una tizia che passava di lì col rossetto indelebile sulla bocca, ma sua. Dunque, che se ne tiri fuori da solo. Se si vuole capire il tono giusto da usare, con il figlio somaro, consiglio di rivedersi il famoso discorso di Angela Merkel sulle riaperture, di studiarselo. Mettiamoci pure un tailleur quadrato e rosato, e cerchiamo di imitare al meglio questa signora che rispetto ai vari galletti pettinati dell’Unione si è mossa come l’Atahualpa di Paolo Conte: «Descansate niño che continuo io».

L’elenco delle donne con cariche istituzionali che sono uscite dal lockdown meglio dei loro colleghi è lungo. Se fosse un torneo, quello del Corona, al momento ci vedrebbe in vantaggio.

In caso di terremoto o di un qualsiasi cataclisma in corso tra le mura domestiche, reagite come ha fatto Jacinda, in studio, sorpresa da una scossa in diretta. La Ardern avrà pure un tic, e il suo non è un vero sorriso, ma il risultato è comunque irresistibile. In caso di maleducazione a tavola, ispiratevi a un’espressione qualsiasi di Ursula Gertrud von der Leyen, sono tutte raggelanti. Quando il nostro “marmocchio” o “maritino” straparlano, minacciano azioni sconsiderate, non c’è bisogno di dire a chi si deve guardare: a quel talento della mimica che è Deborah Birx, sperando, però, che si cacci via quel rospo, difficile da ingoiare, dalla bocca e lo scaraventi all’aria, urlando: «Silenzio!»

Battute a parte, l’elenco delle donne con cariche istituzionali che sono uscite dal lockdown meglio dei loro colleghi è lungo. Se fosse un torneo, quello del Corona, al momento ci vedrebbe in vantaggio. E ci sono anche ricercatrici, medici, postine, insegnanti, giornaliste che hanno dimostrato di cavarsela in modo egregio. Non dipende dall’identità di genere, ma dalla persona? Ovvio che incapaci e imbecilli non hanno sesso, ma l’abitudine a riparare i danni, una certa predisposizione alla cura, sono prerogative femminili dai tempi delle guaritrici, delle streghe e delle levatrici messe fuori legge. Puoi non sentirlo, non sbandierarlo, ti può intimidire, ma quel legame misterioso con la nascita e con la morte esiste. Anche alla luce di questo saperci fare, quando le cose si mettono male, non so come possiamo ancora pensare che sia normale che ci paghino meno o addirittura niente. Da oggi in poi, accettarlo è criminale.

P.S. Ai papà, tanti, che si sono dati da fare, che non si sono tirati indietro, consiglieri una breve vacanza, che si tolgano di dosso il grembiule umido, e escano di casa con il passo di Tony Manero nella scena finale di Staying Alive.