Attualità

La notizia della morte del fact-checking è fortemente esagerata

Controllare i fatti non risolve le discussioni politiche, e non fa per forza vincere "i migliori". Perché, ad esempio, la verità non esiste.

di Giovanni Zagni

Questo articolo è una sorta di “replica”, o un differente punto di vista, rispetto al pezzo uscito pochi giorni fa su queste stesse pagine, scritto da Anna Momigliano e intitolato “L’inutile bellezza del fact-checking”. L’articolo si può leggere qui.

Il 16 novembre scorso, Oxford Dictionaries ha scelto la parola dell’anno. La vittoria è andata a “post-vero” (non “post-verità”, a voler fare i pignoli, perché post-truth è solo un aggettivo). Poco più di una settimana prima, Donald Trump aveva vinto le elezioni statunitensi, nonostante la sua certificata carriera di mentitore. L’unione di questi due avvenimenti ha dato vita a un dibattito sul ruolo dei fatti nella politica e nell’informazione di oggi, un dibattito che, curiosamente, non era nato con la stessa intensità dopo l’altro grande evento che si accosta di solito a quanto successo negli Usa, il voto per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

Uno dei bersagli principali del post-Trump sembra essere il fact-checking o, per chi ha problemi ad articolare i grumi di consonanti, quella nuova tendenza nel giornalismo che si potrebbe chiamare “verifica dei fatti”. Sarà perché faccio parte di un progetto di fact-checking, ma la sua morte mi sembra di gran lunga un’esagerazione. Mi vengono in mente almeno tre motivi per cui non è ancora arrivato il momento di celebrare il funerale.

SRI LANKA-ECONOMY-JEWELLERY

Il primo motivo è che tendiamo a idealizzare il passato. La stessa scelta di “post-vero” come parola dell’anno mi sembra una dimenticabile boutade. L’anno scorso la scelta era caduta su un’emoji, precisamente quella “che ride con lacrime di gioia”, che oltre a farci riflettere su quanto l’atmosfera a Oxford fosse spensierata, tende a squalificare un po’ tutta la competizione, perché un’emoji è senz’altro rappresentativa di un’epoca e tutto quello che si vuole, ma non è una parola. Diciamo che sarebbe come dare a un cantante il premio Nobel per la letteratura. Lasciamo stare.

Resta il fatto che, in più di un articolo sulla questione del “post-vero”, si legge che oggi internet è un amplificatore di potenza mai vista di falsità e menzogne, il flagellatore di un piccolo mondo antico in cui il principio di autorità, l’etica giornalistica, le regole del vivere civile mettevano un freno alle notizie false. Questo punto di vista mi appare semplicemente sorprendente. La “verità dei fatti” è un concetto scivoloso, storicamente determinato, mutevole. Facciamo parte di una civiltà che ha creduto per centinaia di anni che la Terra fosse il centro dell’Universo – sforzandosi nell’elaborazione di modelli di raffinata e inutile complicazione per far tornare i conti con i risultati dell’osservazione. Per altre centinaia di anni, la Chiesa ha basato la legittimità del suo potere temporale su un documento falso, altro che certificato di Obama. Se gli esempi sembrano troppo polverosi, il solo Novecento ha visto fiorire spettacolari menzogne che, in qualche caso, hanno fatto la storia. Partendo dai Protocolli dei Savi anziani di Sion e passando per l’affare Dreyfus, per scendere poi nelle acque più torbide del Triangolo delle Bermuda o della falsità dell’allunaggio, dell’Area 51 o dei cerchi nel grano, la storia recente e meno recente è un rosario di menzogne passate sulla bocca di tutti, da tutti discusse, seguite, curiosate. Quando, esattamente, siamo passati per l’era della “verità”? La parola dell’anno è un “post” di qualcosa che non è mai esistito.

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E il giornalismo, insidiato dalla valanga di menzogne messe in giro da internet? Oh, il giornalismo non ha un cursus honorum immacolato. Farò solo uno dei numerosissimi esempi possibili, che mi è capitato sotto gli occhi di recente. Il 21 aprile 1934, il Daily Mail – il primo quotidiano britannico a vendere più di un milione di copie – pubblicò  un’immagine grande mezza pagina che ritraeva una sagoma scura emergere in verticale dall’acqua. «Foto di un chirurgo del mostro di Loch», diceva il titolo, «Esclusivo». La foto diventò molto celebre, nonostante fosse un falso orchestrato da un cacciatore di nome Marmaduke Wetherell che, insieme al figlio, aveva usato un sottomarino giocattolo per fornire al quotidiano londinese proprio quello per cui era stato spedito in Scozia: trovare le prove dell’esistenza del mostro. Non le trovò, e la sua invenzione, ottantadue anni dopo, sarebbe stata scelta da Time tra le cento foto più influenti di sempre. Un falso.

Quindi, se oggi le cose ci sembrano andare male, non dimentichiamoci che le falsità e le menzogne sono sempre circolate, con smentite tardive e spesso meno influenti degli originali. Ma sarebbe sbagliato dire che tutte le epoche sono ugualmente refrattarie al vero. Viviamo nell’era del trionfo del metodo scientifico (da qualche centinaio di anni), della tecnica (da qualche decina), e dei dati (più di recente). La logica non è mai stata così importante nel modo di ragionare delle persone. Se ci sforziamo di mettere le cose nella loro prospettiva storica, tra sbagliare nell’esistenza di un essere mostruoso in uno sperduto specchio d’acqua scozzese, e sbagliare nella posizione del nostro pianeta nel Sistema Solare, riconosceremo con facilità di aver fatto qualche passo avanti. Continua però a non essere pervenuta l’era del “vero” di cui saremmo il “post”.

Non dimentichiamoci che le falsità e le menzogne sono sempre circolate, con smentite tardive e spesso meno influenti degli originali

Il secondo motivo è che il ruolo della verifica dei fatti viene, nel dibattito di oggi, assai esagerato. Se c’è una cifra del panorama informativo contemporaneo, più dell’esplosione delle notizie false o della bolla delle opinioni o dei confirmation bias o di tutte queste cose che ci sarebbero comunque – tutti noi abbiamo conosciuto una persona che, per tutta la sua vita, ha comprato sempre e solo l’Unità, solo che non tiravamo in ballo i confirmation bias – questa cifra è l’esagerazione. I toni con cui le notizie vengono riprese sono quasi sempre esagerati, le reazioni sono esasperate. L’emergenza delle bufale che avrebbe fatto vincere Trump ha il suo parallelo nel fatto che il fact-checking dovrebbe finire sotto inchiesta perché non è riuscito a fermare la marea delle menzogne. Come, prima di lui, sono stati furiosamente innalzati e poi scartati via con altrettanto furore – e persino prima ancora di essere battezzati in italiano – altri fenomeni come il citizen journalism, o Twitter, o i blog. Ciascuno visto come il nuovo modo di fare giornalismo, il futuro. Ciascuno poi portato di fronte ai propri limiti e messo da parte.

Spero che questo non sia il destino del fact-checking, e credo che non sarà così, a patto che se ne concepiranno nel modo giusto il ruolo e le prospettive. La verifica dei fatti non sta al di sopra né della politica, né dell’informazione. La politica fa un altro lavoro, l’informazione è infinitamente più vasta e include la scoperta delle notizie, il commento, l’intervista, il ritratto, l’immagine. Il fact-checking è solo un modo diverso, neppure alternativo, di fare informazione. Un modo che, presi i messaggi politici – perché questo è il suo campo esclusivo – mette da parte tutta la parte di commento e di ideologia per esplorarne un aspetto particolare: quali sono i numeri, i fatti che ci stanno dietro? Ovvero, qual è la base oggettiva di quella dichiarazione?

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Quello che sfugge alla gran parte dei commentatori, oggi, è che quella base oggettiva non è il centro del messaggio politico.

Una delle analisi meno banali del voto britannico per la Brexit riguardava il fatto che le persone potevano ben essere ben coscienti del fatto che l’uscita dall’Ue avrebbe portato loro dei danni economici nell’ordine di qualche centinaio di sterline l’anno – così come, più di recente, gli americani potevano sapere benissimo che il muro con il Messico non era fattibile o che la disoccupazione non era al quaranta per cento. Ma poiché non sono dei robot hanno scelto di votare facendosi guidare da altre considerazioni. Qualcosa del tipo: sono disposto a rimetterci trecento sterline l’anno, se posso uscire da questa Unione Europea per ragioni di ordine ideologico, sociale, personale. Ecco, da un lato pochissimi commentatori hanno colto la possibilità che qualcuno la potesse pensare così. Si sono per lo più abbandonati pigramente alla chiave di lettura secondo cui gli elettori di Trump o chi ha votato per la Brexit siano solo stupidi o autolesionisti. Dall’altro lato, il fact-checking non c’entra nulla con questi ragionamenti, con le scelte che guidano il processo elettorale. La verifica dei fatti è uno strumento di informazione. Non è chi decide le regole del gioco, è al limite un arbitro o a un guardalinee. Non c’è verso, a meno di farsi radiare dall’associazione arbitri, di far vincere una squadra molto più scarsa solo appoggiandosi sul regolamento.

E siamo poi così sicuri che il pubblico del fact-checking, che Lucas Graves ha descritto in un libro recente come un «pubblico idealizzato di cittadini affamati di verità», sia tanto più idealizzato del pubblico delle grandi inchieste o, più in generale, del grande giornalismo? Quante persone hanno il tempo, la voglia, l’interesse di leggere un lavoro denso e impegnativo come Fractured Lands? Non molte, eppure nessuno si sognerebbe di dire che quel tipo di lavoro di qualità è inutile. Lo stesso vale per la verifica dei fatti, con il suo ruolo di “sobrio ripensamento” delle affermazioni politiche e, perché no, di scoperta di prospettive non banali sulle questioni politiche, grazie al sostegno dei dati e alla ricerca sui fondamenti oggettivi delle dichiarazioni. La posizione del fact-checking nel panorama informativo odierno si sta creando in questi mesi, specialmente fuori dagli Stati Uniti, e sarebbe un errore caricarlo di troppe aspettative.

SRI LANKA-ECONOMY-JEWELLERYIl terzo motivo è il più affascinante, il più generale e, temo, il meno condivisibile. L’idea che ci sia una “verità” in politica, e che questa debba orientare la scelta degli elettori, tradisce secondo me un clamoroso fraintendimento, che è figlio della nostra epoca. Il mondo in cui viviamo ci porta ad essere convinti, più o meno consciamente, che davanti ai problemi del nostro tempo ci sia una sola soluzione. La disoccupazione o la criminalità, per esempio, appaiono malfunzionamenti di un meccanismo che persone competenti e informate possono trovare il miglior modo di riparare. Magari grazie al ricorso agli ultimi ritrovati della tecnica: uso apposta un termine demodé, per descrivere l’atmosfera che porta a titoli ultracontemporanei come «I droni che salveranno gli orsi polari». Non è così che funziona la politica: questo modo di pensarla è frutto di ciò che Norberto Bobbio liquidava, in una nota a pié di pagina del suo Destra e sinistra, come «l’illusione tecnocratica». Le scelte politiche, al contrario, sono guidate da ideali e visioni del mondo, e sono tanto più chiare e coerenti quanto più quegli ideali e quelle visioni sono consapevoli e dichiarate. Altrimenti, di politica non si discuterebbe neppure. E le discussioni politiche quasi mai sono davvero intorno ai numeri, nonostante sia di moda – fortunatamente per il mio lavoro – pensare che sia in primo luogo così. Le discussioni politiche sono discussioni sulle idee, che lo si voglia o no. Parafrasando una massima molto cara agli economisti, «i politici pratici sono solitamente schiavi di qualche ideologo defunto». Il fact-checking non risolve le discussioni, rende solo più solide le loro basi di partenza. Come tale, ha ancora un lungo futuro davanti.

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