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L’oro del rap

Intervista a Vikki Tobak sul suo Ice Cold. A Hip-Hop Jewelry History (Taschen), forse la più completa ricerca mai svolta sull'importanza dei gioielli nell'estetica e nella storia dell'hip-hop.

di Marco Bianchessi

Vikki Tobak è una giornalista americana che da 20 anni scrive di musica rap e cultura hip-hop per tutti i principali magazine di settore d’oltreoceano. Il suo libro precedente, Contact High: A Visual History of Hip-Hop, è diventato un testo fondamentale nel racconto della fotografia hip-hop. Probabilmente anche questo nuovo volume, Ice Cold. A Hip-Hop Jewelry History (Taschen), avrà lo stesso destino, perché nessuno prima aveva tentato una ricerca così completa e approfondita sul ruolo della gioielleria nel rap. Parliamo di un’analisi storiografica profonda, il primo libro Taschen dedicato all’hip-hop e all’incontro tra questa cultura e la gioielleria. L’abbiamo intervistata e con lei abbiamo parlato del libro, di cultura hip-hop e di Tyler the Creator.

Mentre stavo facendo ricerche per questa intervista ho letto un articolo che diceva che Ice Cold è il primo libro di gioielleria che Taschen ha mai pubblicato.
E di hip-hop!

Esatto, e questo si ricollega a una domanda che volevo farti: definiresti questo un libro di gioielleria?
Sì, assolutamente, ma è anche un libro sull’hip-hop e un libro di fotografia. È un prodotto ibrido, difficile da classificare, non saprei dove metterlo se lavorassi in una libreria.

Credo che la cosa interessante del tuo libro sia il modo in cui osserva l’hip-hop dal punto di vista della gioielleria e utilizzando il medium della fotografia. Questi temi si intrecciano, anche per questo quando ho letto quell’articolo ho pensato “sì, è vero, ma questo non è solo un libro che parla di gioielli”.
Il mio background non è nel mondo dei gioielli né in quello del lusso, io scrivo di hip-hop e cultura, per questo mi sono avvicinata a una storia di gioielli con questo approccio.

Come è iniziato il processo di costruzione del libro? Sei partita da un’idea precisa che poi hai sviluppato? O da materiale accumulato in precedenza?
Io scrivo di cultura hip-hop da circa 20 anni e ho sempre cercato di raccontare questo mondo attraverso spunti interessanti. Il mio libro precedente si chiama Contact High: A Visual History of Hip-Hop e guardava alla fotografia nell’hip-hop, e mentre guardavo le foto facevo attenzione ai dettagli e iniziavo a “spacchettarle”. L’hip-hop è una cultura molto “visuale”, quindi incominciai a notare le giacche, le sneaker, cosa indossavano le persone, come le indossavano e in che periodo. I gioielli sono una parte così rilevante di quella storia. Alla base di questo c’è che io vivo e ascolto hip-hop dai primi anni ‘90 e quindi mi ricordo il ruolo che i gioielli hanno avuto. Per questo ho pensato fosse una storia molto interessante, con tantissimi livelli di lettura, dalla politica alla razza, e in questo modo la storia dei gioielli diventa una storia molto più ampia. In più, nello stesso periodo in cui io pensavo al libro, un mio amico stava lavorando a un documentario sullo stesso argomento insieme al team di Quality Control Music, l’etichetta che lavora coi Migos, Gucci Mane e molti artisti di Atlanta. E quindi ho pensato fosse un momento buono per raccontare questa storia.

Parlando di razza, tu dedichi molto spazio nel libro alla storia dei gioiellieri, in particolare ai gioiellieri neri. Hai sempre pensato di mettere in primo piano anche i produttori e non solo i prodotti?
Senza dubbio, la storia dei gioiellieri è importante quanto la storia degli artisti, perché dall’inizio i gioiellieri mainstream sono sempre stati quelli di Tiffany, Cartier o gli orologiai più famosi, ma nessuno ha mai raccontato il mondo di quelli che lavorano nell’hip-hop. In più questi gioiellieri, Tito, Jacob The Jeweler, Eddie Plein, che hanno dato forma all’immaginario dell’hip-hop, sono immigrati o figli di immigrati. E credo che la cultura hip-hop riconosca quel tipo di aspirazione e si interroghi su cosa sia il sogno americano: non avere un limite prestabilito, andare oltre le circostanze della propria nascita e oltre il proprio background. Volevo raccontare la storia dei gioiellieri anche perché, soprattutto negli ultimi anni, c’è stata una forte spinta verso l’affermazione della diversità nel business. Sicuramente questo era un altro aspetto interessante da osservare.

Una cosa che mi ha colpito molto è il cambiamento della concezione dei gioielli, da “hood trophy” ad accessorio vero e proprio. Come è avvenuto questo passaggio secondo te?
Credo che i gioielli nell’hip-hop siano visti tradizionalmente come un “hood trophy”, un simbolo per affermare di avercela fatta, o al massimo di fratellanza verso una label – vedi Jay-Z con Roc Nation o Cash Money – ma credo che da quando l’hip-hop ha definitivamente preso il potere alla fine degli anni ’90, primi 2000, il business abbia incominciato a crescere e ci sono state persone che hanno avuto successo, come Jay-Z o Diddy, non solo come artisti ma anche da imprenditori. L’hip-hop diventa un fenomeno enorme e lì comincia il cambiamento, perché il mondo del lusso accetta il fenomeno. E poi arrivano i ragazzini che sognano di diventare rapper o desiderano comprare un accessorio del loro rapper preferito. Credo riguardi molto il modo in cui l’hip-hop ha guardato al e ha cambiato il volto del lusso. In generale i gioielli hanno una storia profonda: adornarsi, il significato che c’è dietro questo gesto, riguarda un’idea millenaria, sedimentata in tutto mondo. E l’hip-hop è ora il medium più importante e mainstream.

Riusciresti a indicare il momento che ha ufficializzato questo passaggio?
Quando l’hip-hop diventa mainstream, alla fine degli anni ’90, primi anni 2000. Perché inizi a vedere anche per le strade le persone che hanno cominciato a indossare e ad approcciarsi al mondo dei gioielli con un’ottica hip-hop, e più in generale alla moda secondo una logica nuova.

Certo. Una volta ho parlato con Lyle Lindgren, un autore che ha scritto della storia di Eddie Plein, e in generale del grillz. Lui, per esempio, individuava ASAP Rocky come una figura fondamentale nel far diventare il grillz un fenomeno spendibile anche per l’alta moda.
Forse dipende anche dall’età e più in generale dalle esperienze. ASAP Rocky ha portato il grillz nell’alta moda, perché ha saputo intrecciarsi bene con il mondo del lusso (come per esempio nella pubblicità di Dior) ed è stato sicuramente un momento importante. Però per esempio anche Nelly nel 2005 fu importante con la canzone “Grillz”, o Cash Money che fece uscire la canzone “Bling Bling”, anche quelli furono momenti importanti. Per sintetizzare forse metterei prima Nelly, Cash Money, e la canzone “Bling Bling” che coincide con il periodo dei primi 2000 in cui l’hip-hop diventa un medium comune e mainstream; e poi gli ultimi 5 anni dove l’intersezione con il mondo del lusso è stata fondamentale. Sono entrambi importanti, potrebbero sembrare simili, ma sono molto diversi e facevano intuire le cose che stiamo vedendo ora.

Leggendo il tuo libro ho pensato che forse il periodo meno interessante dal punto di vista dei gioielli sia quello degli anni ’90 che, paradossalmente, è spesso visto come la “Golden Age” della musica rap. È un pensiero che ha senso?
È vero quello che dici, gli anni ’80 hanno gettato la base, rivendicando con i gioielli il loro successo, ma quello che accade negli anni ’90 è un cambiamento nella musica che ha influenzato l’estetica. La musica diventa più politica, socialmente consapevole e introspettiva – se pensi a gruppi come i Public Enemy, ma anche ai De La Soul, che sono più leggeri – per questo avviene una sorta di passo indietro e incominci a vedere un’estetica più afrocentrica, però era importante mostrare anche questa parte, perché se è vero che è meno appariscente di prima, ha comunque un significato profondo: riflette un cambiamento degli artisti stessi che incominciano a pensare di più a cosa sia e a cosa significhi davvero il lusso. Esattamente come la musica rifletteva su questi argomenti, così i gioielli.

ⓢ Mi viene in mente la frase di Yasiin Bey, che dice come le catene d’oro siano la rappresentazione del sistema capitalistico.
Assolutamente, ma quello era anche un periodo in cui si prendeva consapevolezza riguardo alla provenienza dei diamanti e dell’oro, sui cosiddetti blood diamonds, che in Africa erano un motivo di grossi conflitti, e questa presa di coscienza ha anche inevitabilmente influenzato il mondo gioielli nel rap.

Riguardo l’approccio storiografico che hai deciso di dare al libro, è una cosa che hai deciso di impostare fin da subito? O è venuto strada facendo?
È una cosa che abbiamo deciso di fare all’inizio, quando abbiamo scelto l’argomento ci siamo resi conto che avevamo bisogno di creare un contesto attorno a questa storia, perché se avessimo fatto un libro di sole foto di rapper che indossano gioielli, avremmo tralasciato una parte consistente della comunità di persone che rispetto e che mi rispettano e che non si sarebbero sentite rappresentate da questo libro. Volevo fare un libro che non fosse “contestabile”, in cui nessuno poteva dirmi che mancavano dei pezzi, o che non avevo svolto il lavoro a dovere. Per questo mi sono immersa nelle ricerche e ho messo assieme il materiale. Poi ovviamente c’erano delle foto che non potevo non mettere: Biggie con le collane di Gesù, il pendente di Roc Nation, i grillz di Rocky o pezzi di Tyler the Creator…

I pezzi di Tyler sono incredibili.
Sono molto contenta che tu l’abbia detto! Sono d’accordo, lui è uno dei miei artisti preferiti, l’ho conosciuto questa settimana a un evento organizzato da Pharrell e abbiamo avuto modo di parlare del libro. Lui è interessantissimo, perché è estremamente moderno ma pienamente consapevole di essere parte di una storia e delle influenze che questa ha esercitato su di lui. Pharrell su tutti; è innovativo e giocoso con i suoi gioielli, ma anche cosciente di ciò che l’ha preceduto.

Come è stata la reazione delle persone quando hai pubblicato il libro?
Splendida, fortunatamente. Ho ricevuto feedback molto positivi da un sacco di persone, artisti, gioiellieri, amici politicamente impegnati, e in generale sono davvero contenta, nessuno ha contestato niente o ha detto che ho tralasciato qualcosa.

Se dovessi scegliere un gioiello tra quelli del libro, per te, quale sarebbe?
Il mio cervello direbbe le collane di Biggie con il volto di Gesù, sono classiche e le ha realizzate Tito. Ma il mio cuore prenderebbe la collana Gucci di Pharell fatta da Jacob The Jeweler o il suo cubo di Rubik in diamanti. Pensa che ora quei gioielli sono tutti all’asta!

Non penso di potermi permettere di acquistarli, sfortunatamente.
Purtroppo neanche io!