Attualità

Il fast-fashion eco-sostenibile di Reformation

È un modello di business che si ispira a Zara e H&M ma è molto più snello e, almeno nelle intenzioni, più pulito. Ecco come funziona e quali interrogativi solleva.

di Silvia Schirinzi

Sul fatto che il fast-fashion non possa essere sostenibile esistono pochi dubbi, così come è incontrovertibile che l’industria tessile sia fra le più inquinanti del pianeta. A guardarlo da lontano, il business che gira intorno all’abbigliamento, da quello che produce capi e accessori di lusso a quello che veste la quotidianità, fa acqua da tutte le parti: le sfilate stanno come stanno (cioè non proprio benissimo), i negozi fisici sono in crisi, quelli online sono in mano a pochi attori che dettano le regole del gioco. La sensazione generale è che, nel futuro, la sfida per conquistare il famigerato consumatore Millennial, schizzinoso e volubile per definizione, si giochi tutta sulla percezione di un marchio (se è figo o no, se inquina o no, se tratta bene i suoi lavoratori o no), ovvero sulle battaglie culturali di cui si vorrà fare portavoce e, contemporaneamente, sull’esperienza che esso saprà fornire a chi lo acquista. Sta già succedendo, almeno in parte: basta pensare a come i grandi del fast-fashion stanno ridisegnando il loro modello di business, diversificandosi sempre di più, vedi l’esperimento Arket di H&M, oppure aggiustando la macchina produttiva ai ritmi di Zara senza rinunciare alla propria cifra identitaria, ovvero quella del maglioncino blu, come sta cercando di fare Uniqlo. Sono pochi quelli che possono vantare un appeal universale: le grandi multinazionali dell’abbigliamento sportivo, per esempio, i cui piani di comunicazione assomigliano sempre più a vere e proprie agende politiche, o i piccoli virtuosi che per anni sono stati appannaggio di questo o quel gruppo di fedelissimi e ora sono di chiunque, come Birkenstock o Patagonia.

E poi ci sono quei marchi, ancora piccoli ma che costituiscono già un caso di studio interessante, che hanno saputo costruire il proprio successo dalla combinazione intelligente di alcuni fattori: è il caso di Reformation, che nasce nel 2009 come una piccola boutique, si evolve in sito, diventa rilevante grazie a Rihanna e da lì detta il gusto delle Instagram girls, a metà strada tra lo stile della Los Angeles anni Settanta e la riviera francese di Jacquemus. La fondatrice è Yael Aflalo, ex modella quarantenne alla sua seconda esperienza nel campo del fashion. All’età di anni ventuno, dopo avere frequentato Berkeley senza concludere gli studi, ha fondato Ya-Ya, marchio che ha tenuto in piedi fino alla crisi del 2008, quando l’inventario in eccesso e la congiuntura economica sfavorevole l’hanno portata alla bancarotta. Aflalo si prende un anno sabbatico, poi ricomincia daccapo ma in piccolo, anche perché deve ripagare i debiti accumulati. La sua boutique di Los Angeles, che si chiama proprio Reformation, si specializza nel reinventare abiti vintage: quei vestiti, che diventeranno bestseller, fruttano a Aflalo un accordo con Urban Outfitters. Tra il 2009 e il 2012 apre altri due negozi, a New York. I debiti vengono ripagati in fretta e Reformation si prepara a sbarcare online. Complice un’estetica fresca e lo zampino di Rihanna che ci va a fare shopping su consiglio della sua stylist Mel Ottenberg (ah se si potesse distribuire in bottigliette il potere commerciale di Rihanna), il marchio diventa il feticcio delle influencer di Instagram, da Jeanne Damas in giù.

Reformation-San-Francisco

La storia di Aflalo ricorda un po’ quella di Sophia Amoruso e Nasty Gal, d’altronde anche lei aveva iniziato con gli abiti vintage customizzati e anche lei si rifaceva alla stessa West Coast hippie. Invece di investire in un insincero messaggio femminista con il solo risultato di rovinare la parola Girlboss, però, Aflalo ha puntato sull’altrettanto redditizio filone della sostenibilità. Il suo intento iniziale era costruire un business snello, che riprendesse l’approccio diretto al consumatore e la velocità di produzione tipici del fast fashion, senza però «rinunciare allo stile», come raccontava al New York Times in un’intervista del 2014. Decisa a fare il salto di qualità, dirotta tutti i suoi sforzi sul modello eco-sostenibile dopo un viaggio in Cina nel 2010, dove testa di persona gli effetti dell’industria tessile sull’ambiente e le condizioni dei suoi lavoratori. Un piano di marketing ben congegnato? Per carità, dice lei sempre al NY Times, solo una «coincidenza fortuita», che si concretizza in slogan come “La nudità è la prima scelta di sostenibilità. Poi ci siamo noi” o in editoriali che si intitolano “Niente è più hot di ragazze che risparmiano l’acqua”.

Investe in una factory a Los Angeles (la produzione locale è il primo fattore di sostenibilità di un’azienda), dove oggi vengono confezionati l’80% dei capi Reformation: le lavoratrici sono per la maggior parte di origine latinoamericana e l’azienda offre loro consulenze e orientamento sul lavoro, corsi di inglese e un piano per ottenere la cittadinanza americana. Il magazzino è visitabile ed è spesso location di servizi fotografici. Ogni capo ha un’etichetta che specifica quanta acqua e rifiuti sono stati risparmiati per produrli e c’è una scala che ne misura l’impatto ambientale (RefScale). Oggi Reformation ha sei negozi negli Stati Uniti: gli ultimi tre hanno aperto nel corso del 2017 a San Francisco e Los Angeles e sono i primi a sperimentare un’interessante operazione di compenetrazione tra store fisico e store online. Ci si può far shopping come se si fosse a casa davanti al computer: dai monitor si scelgono i capi e li si ritrova in camerino pronti per essere provati, volendo anche senza interagire con il personale, per la gioia degli introversi e di quelli che vanno sempre di fretta.

È innanzitutto un modo furbo per monitorare i gusti del cliente, che funziona bene su scala così piccola ma che anche i big come Zara stanno testando. È un indice potente delle variazioni di gusto del proprio consumatore-tipo, che funziona poi da barometro: solo i modelli più scelti e comprati verranno prodotti in serie, diminuendo così il rischio dell’invenduto e della sovrapproduzione. Per ora, comunque, il sito rimane la prima fonte di guadagno di Reformation, ma Aflalo vorrebbe portare i suoi negozi del futuro anche in Europa: a Parigi, Londra e in Scandinavia. Il problema di fondo, però, rimane: produrre al ritmo (velocissimo) di desideri fabbricati esternamente potrà mai essere etico o sostenibile? No, meglio non raccontarsela troppo. La vecchia questione del meno e meglio, per ora, è l’unica, blanda, soluzione concreta.

In testata: editoriale Reformation.com; nel testo: il negozio Reformation a San Francisco