Attualità
Dove sta andando il lusso?
Esiste ancora il genio creativo? La democratizzazione del fast fashion è reale? Un po' di domande aperte sull’industria dell’abbigliamento.
Quando Demna Gvasalia ha presentato la sua prima collezione per Balenciaga durante l’ultima settimana della moda di Parigi, i critici sono stati unanimi nell’acclamare la sua capacità di aderire allo spirito del tempo. Il designer ha infatti portato all’interno di un marchio storico come quello fondato da Cristobal (e magistralmente diretto da Nicolas Ghesquiére dal 1997 al 2012) quell’attitudine street che caratterizza Vetements, collettivo che ha fondato e di cui fa parte insieme al fratello Guram. E proprio Vetements, come ha scritto Anja Aronowsky Cronberg su Vestoj, è il punto di partenza per una riflessione su cosa significa oggi essere rilevanti nella moda.
Il progetto del marchio parigino ha attirato tutta l’attenzione possibile sin dal suo esordio e nelle ultime stagioni è sembrato, con le parole di Cronberg, «al posto giusto nel momento giusto per incarnare e guidare lo Zeitgeist», come hanno dimostrato gli show orchestrati da Gvasalia e dal suo team. In molti, da Vogue a Business of Fashion, ne hanno lodato lo spirito «disruptive» e il punto di vista da outsider, soffermandosi soprattutto sull’affascinante concetto del collettivo, che sembra offrire un’alternativa a quel culto delle personalità di cui la moda soffre, e sull’estetica “democratica”, l’ugly-beautiful che cancella le differenze sociali. In realtà, almeno due cose sono interessanti da notare a tal proposito: in primis, che il vestire democratico è figlio del lascito ben più longevo e identitario di Martin Margiela, con il quale pure Gvasalia ha lavorato subito dopo gli studi ad Anversa, la cui presenza nelle collezioni di oggi (da Jacquemus ad Alexander Wang) è tanto forte almeno tanto quanto la sua stessa assenza dalle scene. In secondo luogo, come ha sottolineato Sarah Mower su Vogue, «Vetements means business» e su questo punto il designer originario della Georgia è stato sempre cristallino. La moda non deve farti sognare, ha infatti dichiarato, e deve avere un prezzo tutt’altro che democratico: un jeans Vetements può costare più di 1000 euro, un bomber 2000, un abito anche 10000. Fin qui niente di così sconvolgente per un brand in calendario a Parigi, se non fosse che lo stesso brand aspira ad arrivare non solo alle fashioniste, ma a un’audience “reale”, che coglie l’ironia delle magliette DHL, comprende la silhouette incassata sulle spalle tipica di Vetements, cerca uno streetwear rivisitato.
Fatte queste premesse e considerato l’ammontare del cartellino, l’audience reale di Vetements non può che essere quella del lusso. Non è certo qualcosa di nuovo: qualcuno, che nell’intento è al di fuori – se non contro – il sistema, finisce per ridefinire il sistema stesso, senza però che nel processo qualcosa cambi davvero. Anzi, quella stessa silhouette è stata salutata come innovazione da Balenciaga, dove il look alla Angela Merkel in tailleur che ha aperto la sfilata ha ridefinito il volto del marchio sinonimo di esclusività per eccellenza. Cristobal Balenciaga era un couturier e vestiva solo una ristretta élite di clienti, perlopiù aristocratiche, e quando è arrivato il prêt-à-porter, ha preferito ritirarsi dalle scene. Demna Gvasalia è intelligente, e si è adattato prima degli altri ai cambiamenti in atto: non è un caso allora che fra le pressanti proposte per ridisegnare il nuovo ordine della moda, ce ne sia anche una sua e del Ceo Guram. La vera sfida, e i due fratelli l’hanno capito bene, è quella di dare un nuovo significato al lusso: e se François-Henri Pinault, così come i vertici della Camera della moda italiana, non credono allo smantellamento del calendario e al modello del see now-buy now, vuol dire che c’è ancora molto da fare. D’altronde, se di democratizzazione e audience reale si vuole discutere, i modelli di business di successo vanno ricercati altrove.
In un interessante articolo di questi giorni, Vanessa Friedman descrive la strategia di Nike di avvicinamento e conquista del territorio moda, cementato ora con il grande evento di presentazione delle divise della nazionale americana per Rio 2016. Una volta che si ha un simile contratto di sponsorship, senza contare quello con l’Nba, è facile immaginare quali siano i volumi di cui stiamo parlando. Quello che è meno scontato, però, è come la presentazione stessa si è svolta: presso Moynihan Station, una delle location ufficiali della fashion week, e con la curatela della compagnia di produzione Bureau Betak, che in passato ha organizzato show di Dior, Roberto Cavalli e Michael Kors.
In un’epoca segnata dalla voracità del fast-fashion e da quella dei social media – non è un caso che secondo uno studio di Macy’s, citato da Friedman, Nike sia il marchio più instagrammato, il doppio di Prada – i brand di abbigliamento sportivo sembrano avere quella diffusione e capillarità che per il lusso è un miraggio. L’esclusività, infatti, è diventata schizofrenica: non si fregia più (solo) del nascondersi, dell’essere di pochi, ma mai come nel 2016 va esibita, conosciuta, raccontata: lo fa benissimo Kylie Jenner su Snapchat, che mostra ai suoi followers la costosissima casa, le borse e le auto e (anche) per questo motivo, stravende i suoi rossetti. Lo fa bene anche Kanye West, che ha abbassato i prezzi di Yeezy come aveva promesso durante l’evento al Madison Square Garden di New York: e sebbene in molti dicano che siano le Superstar di Pharrell le vere best seller e non le sue Yeezy Boost 350, adidas non può che beneficiare del circo mediatico attorno a questi fenomeni.
È significativo allora che un brand come Brioni abbia appena nominato Justin O’Shea come nuovo direttore creativo. O’Shea, già fashion director dell’e-shop luxury Mytheresa.com e personaggio fisso delle gallery di street style, si occuperà delle collezioni e dell’immagine del marchio di proprietà di Kering. È una mossa abbastanza insolita per Brioni: O’Shea non ha esperienza né formazione come designer – nasce infatti come buyer – ma vanta un forte seguito social e rappresenta bene quel cambiamento che sta avvenendo alla direzione di molti marchi. Basterà a fare la differenza?